Il crimine non paga… offre il capitale

Paolo Interdonato | La cassetta degli attrezzi |

Proprio non te lo immagini quanto costi fare QUASI. Non mi riferisco a tutto il lavoro che ci regaliamo a vicenda per portarti questo dono quotidiano. Non solo a quello, almeno, e ti garantisco che non è poco. Fare QUASI ci costringe a guardare, leggere, ascoltare, giocare, assaggiare… Ci esplode curiosità rovente ogni volta che qualcuno di noi pubblica parole e immagini in questa striscia di articoli che cresce un giorno dopo l’altro (sono andato a curiosare sulla bacheca di wordpress e, tra articoli e pagine, siamo a ottocentocinquanta doni preziosi e generosi).
Per esempio, qualche giorno fa, Francesco Pelosi, parlando della natura criminale dell’industria del fumetto statunitense, ha citato un libro che non avevo letto: Men of Tomorrow: Geeks, Gangsters, and the Birth of Comic Book di Gerard Jones. Il bottone “COMPRA” dell’orrido sito che ti fa arrivare qualsiasi cosa in casa in ventiquattr’ore è ormai un’estensione del mio desiderio e, il giorno dopo, stavo già sfogliando quelle pagine. È un libro ben scritto e sarebbe anche divertente se non raccontasse una storia così dolorosa. Snocciola eventi e dati e chiarisce che l’industria del fumetto statunitense ruota attorno a individui privi di scrupoli che hanno arricchito loro stessi e gli investitori a scapito delle invenzioni di un manipolo di autori giganteschi e ingenui. I nomi sono proprio quelli riportati da Francesco: Jerry Siegel, Joe Shuster, Bill Finger, Jack Kirby, Steve Ditko

Leggevo la storia di queste associazioni a delinquere che si muovono nel rispetto della legge e del copyright e mi sono trovato a chiedermi se ci fossero delle situazioni paragonabili in Italia. Mi sono venute in mente brutte storie di originali mai restituiti (il caso esemplare è quello di Gianni De Luca con “Il Vittorioso”), ma nessun vero furto di opere e personaggi. Mi ci sono messo di buzzo buono, seduto sul sasso e con il viso tra le mani, per riportare alla mente un evento di quella portata. E… niente. (Oh! Se mi sto perdendo qualcosa, anche di macroscopico, non esitare a scrivermelo.)
E allora mi sono chiesto perché. Non mi pare che l’editoria patria abbia mostrato intenzioni e propensioni migliori di quelle di qualsiasi altra industria nel mondo.

La mia routine mattutina prevede l’acquisto dei quotidiani. Tutti i giorni, qualche minuto dopo che è stato pubblicato il pezzo su QUASI, entro in edicola, saluto la signora Michela e prendo due giornali, una rivista e tutti i fumetti che riesco a leggere. È da queste abitudini irreprimibili che si riconosce un uomo del secolo scorso. Mentre ancora mi ronzavano in testa pensieri oziosi su tutti i quattrini che Siegel e Shuster non hanno mai visto, mi sono accorto di una cosa assolutamente evidente: le grandi case editrici del fumetto italiano – quelle che sono presenti in edicola da oltre mezzo secolo – sono nate per pubblicare i fumetti scritti dai proprietari del marchio. Il gruppo attualmente noto come Sergio Bonelli editore è nato intorno alle storie scritte da Gianluigi Bonelli e dal figlio Sergio; Astorina prospera su un unico personaggio, Diabolik, scritto prevalentemente da Angela e Luciana Giussani.
Insomma, è evidente. In Italia il problema non si pone, perché quella del fumetto è una realtà antindustriale. Le case editrici di maggior successo sono nate perché gli autori avevano bisogno di autoprodursi. Attaccapanni Press, Incubo alla Balena, Lök Zine e Mammaiuto – solo per fare qualche esempio – sono figlie legittime di “Tex” e “Diabolik”, personaggi che dovrebbero essere ospitati nelle Self Area dei festival del fumetto.

Mentre gongolavo acciambellato in questo mio pensiero tutto nuovo (e così fastidioso per tutti i coinvolti da recarmi un sottile brivido di piacere), mi sono imbattuto in un articolo su “Fumettologica”. C’è questo Matteo Stefanelli che scrive pochissimo (un articolo ogni tre o quattro mesi) e che è proprio bravo. Mi pare che, in quel sito così attento alle news, le sue analisi rischino di perdersi: secondo me, starebbero meglio su QUASI (se qualcuno lo conosce glielo suggerisca).
Stefanelli analizza il “Global 50 International Publishing Ranking 2021”, pubblicato da Rüdiger Wischenbart Content & Consulting e mi mostra attori nello scacchiere internazionale dell’industria del fumetto che non avevo notato. Quella lettura preziosa è corredata da un grafico che impunemente riporto qui sotto (ma che dovresti andare a vedere di là per avere il dato completo).

L’unico editore italiano presente nell’elenco è Panini comics: centocinquanta milioni di dollari che gli garantiscono la possibilità di finire nella fotografia. Un player industriale vero che si muove nel mercato editoriale con una ampiezza di offerta spaventosa. Pubblica fumetti in tutti i formati, traducendoli da tutti i grandi mercati nazionali. Panini comics è un gigantesco packager, che sviluppa la sua offerta editoriale comprando prodotti dai mercati più rilevanti del fumetto (Giappone, USA e Francia), traducendoli, localizzandoli e immettendoli nelle reti di vendita, su tutti i canali che si possono raggiungere. Non è mai riuscita a sviluppare un dialogo efficace con gli autori: tutte le pubblicazioni che ospitano fumetti realizzati in Italia sono confezionate, distribuite e promosse con pochissima convinzione e, poco dopo, abbandonate.

Mi pare interessante osservare che, per una forma di giustizia poetica, Panini è l’editore italiano di DC, la casa editrice che ha trombato, tra gli altri, Siegel e Shuster, e Marvel, quella che non ha mai retribuito come avrebbe dovuto Kirby, Ditko e tutti gli altri. Quasi a dire che, anche nei grafici del mercato globale del fumetto, il capitale diventa visibile solo quando si è nutrito dell’anima altrui.

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