L’invenzione del formaggio fuso: storia de “L’Echo des Savanes” in tre puntate

Boris Battaglia | Ce ne sarà per tutti |

UNO

Durante la Prima guerra mondiale vengono mandati al fronte, in diverse fasi e se ritenuti abili, i maschi nati tra il 1874 e il 1899. Léon Bel, quando scoppia la guerra, ha 36 anni e viene richiamato. Nella vita civile è un bravissimo affinatore di formaggi e gestisce, con suo padre e suo fratello, una rinomata cantina nel Giura francese. Probabilmente per le sue competenze o forse solo per fortuna, invece di essere mandato al fronte, è assegnato agli approvvigionamenti.
Tutte le settimane, quando arriva il rifornimento di carne, gli passa sotto gli occhi il logo stampato sul telone del camion che fa la consegna: il muso di una mucca che ride disegnato dentro a un cerchio, con sotto la scritta «la wachkyrie», un gioco di parole che, all’orecchio, suona proprio come la vacca che ride ma, allo sguardo, è una presa in giro delle divinità guerriere del nemico, le valchirie. Il disegno della mucca era opera di Benjamin Rabier. Forse il suo nome non ti dice niente, ma devi sapere che Rabier, insieme al suo amico Caran d’Ache è considerato uno dei padri del fumetto francofono, e che fu un sottilissimo umorista nonché l’ispiratore di Hergé per il suo Tintin.
Quando, finita la guerra, Léon torna alla sua attività di formaggiaio, conosce i fratelli Graf, imprenditori svizzeri che si sono trasferiti in Borgogna per provare ad applicare ai formaggi francesi l’invenzione dei loro compatrioti Walter Gerber e Fritz Stettler: il formaggio fuso. Invenzione rivoluzionaria, che permette di conservare il formaggio a lungo e a temperatura ambiente.
Se ha ragione Rambaldo Melandri e il genio è intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione, possiamo affermare che Léon Bel queste caratteristiche le ha tutte.
Con ancora nello sguardo il disegno di Rabier, seguendo l’intuizione natagli dall’incontro con i fratelli Graf, lo contatta per farsi studiare al volo un marchio con cui mettere in commercio dei triangolini di formaggio fuso spalmabile avvolti in stagnola e confezionati in scatole rotonde. Nel giro di pochi anni l’idea diventa un successo incredibile. Nel 1924 non c’è famiglia borghese o proletaria di Francia che abbia bambini e non abbia sulla tavola il formaggino spalmabile Vache qui rit.

Il 30 giugno 1973 ci fu l’eclissi totale di sole più lunga di tutto il ventesimo secolo. Il giorno dopo, in ogni chiosco di Francia, uscì il numero 4 de “L’Echo des Savanse”. Le due cose non sono collegate in alcun modo… cioè, se vuoi puoi vederci qualcosa di vagamente simbolico, ma il fatto è che, dopo la storia dei formaggini spalmabili, mi serviva un modo originale per catturare la tua attenzione e farti notare che il numero 4 de ”L’Echo” uscì il primo di luglio del ’73.
Lo so. Non ti tornano i conti. Non è necessario essere dei matematici per calcolare che se ”L’Echo” era trimestrale e il primo numero era uscito il primo maggio 1972, il 4 avrebbe dovuto uscire nel secondo trimestre dell’anno successivo: a febbraio. Invece era in ritardo di quattro mesi. E no, non per aspettare l’eclissi, quella non c’entra niente, te l’ho già detto. Il fatto è che la rivista assunse una periodicità fissa solo dal secondo numero, uscito a gennaio 1973. Il primo, con una splendida copertina di Claire Bretécher rappresentante una famiglia di tarzanidi, era stato distribuito solo nelle librerie specializzate, con una tiratura limitata (1000 copie), ma dato il successo, dovuto tutto al passaparola, fu ristampato più volte (mi sembra almeno sei) per tutto il resto del 1972.
Così, per puro caso e non per precisa volontà, il numero 4 uscì il giorno dopo quell’eclisse.

Su quel numero Marcel Gotlib pubblica quello che è uno dei suoi capolavori assoluti e la sua più profonda dichiarazione di poetica: undici tavole fulminanti intitolate Oedipus Censorex. Il protagonista è l’incarnazione di tutto ciò che Gotlib detesta: la censura. Mentre questo censore attende al proprio lavoro, scopre che il suo strumento principale, le forbici, gli sono state rubate. Disperato invoca Dio, e Dio gli risponde. Per recuperare le forbici dovrà affrontare alcune durissime prove: gli toccherà attraversare un lago di merda, masturbarsi contro una porta per farla aprire, fare l’amore con sua madre e uccidere suo padre. Quando finalmente le recupera, il senso di colpa è tale che, come Edipo, starebbe per accecarsi. Solo che sono ormai le quattro del pomeriggio. Deve andare a prendere suo figlio a scuola, così mette giù le forbici e va.
Per quanto bollati come «freudisme de pacotille», all’interno stesso della storia, ci sono tutti i temi portanti dell’opera di Gotlib: i più bassi istinti corporali, la censura, il rapporto con il padre, l’infanzia.
Quattro pilastri che stanno alle fondamenta de ”L’Echo des Savanes”.

Dell’infanzia di Gotlib e della perdita del padre in un campo di concentramento nazista ti ho già raccontato in un  precedente capitolo di questa lunga storia. Ricomincio quindi da dove mi ero interrotto. Gli anni Cinquanta li sorvoliamo, sono un decennio che lo stesso Gotlib ha definito come «di tanto in tanto piacevole, ma molto più spesso noioso». Da segnalare c’è solo il fatto che, mentre lavora come magazziniere presso un grossista farmaceutico, la sera Gotlib frequenta l’École supérieure des arts appliqués Duperré, dove ha come insegnante Georges Pichard.
È nel decennio successivo che le cose cominciano a farsi interessanti e che, grazie alla scoperta della rivista “Mad”, Marcel decide di voler fare proprio fumetti come quelli. Quando, nel 1962 l’amico Peter Glay (che lavorava già per “Pilote”) gli dice che a “Vaillant” cercano «ragazzi per dei fumetti comici», decide di andarsi a proporre. Così, a settembre, sulle pagine della rivista che sta sperimentando nuove strade per reggere la concorrenza di “Pilote” e “Spirou”, viene pubblicata la prima tavola di Nanar et Jujube, una serie che durerà sei anni. Come succede spesso, pensa allə Krazy Kat di Herriman o al Popeye di Segar, un personaggio secondario assume sempre maggior rilevanza, fino a diventare titolare di una propria serie. È il caso di Gai Louron, cane pigro e non particolarmente intelligente, che non pensa ad altro che a dormire e mentre dorme sogna di dormire e, nel sogno in cui dorme, mentre dorme sogna di dormire, in un rimando senza fine. Ecco questo cane pigro salta fuori dalla serie di Nanar e Jujube intestandosene una sua e diventando il primo personaggio importante e di successo di Gotlib. Di successo mica per dire: quando nel 1969 “Vaillant” ormai in crisi cambierà testata, la scelta era tra “le journal de Gai Louron” o quello “de Pif”. Vincerà Pif, ma il fatto che ci sia stato il dubbio ti dice quanto era amato dai lettori il cane di Gotlib.
Sebbene la tradizione francese dell’antropomorfizzazione degli animali affondi le proprie radici in Jean de La Fontaine (di cui proprio Rabier fu illustratore seminale), nell’aspetto e nel carattere Gai Louron deve tutto al Droopy di Tex Avery.
«Gli devo tutto. Fa parte della mia cultura. È incluso nel gruppo dei miei anglosassoni, con i Fratelli Marx e “Mad”…» dirà Gotlib proprio a proposito di Avery.
Secondo Thierry Grooensteen sono tre gli aspetti fondamentali che Gotlib mutua da Avery e che diventeranno sempre più importanti nelle sue strategie narrative: il gusto per la parodia, la sessualizzazione dei personaggi e la riflessione teorica sul proprio lavoro condotta all’interno delle proprie strutture espressive. Sono decisamente d’accordo e vedremo perché.

In seguito al successo di Gai Louron, Gotlib trova il coraggio di presentarsi a “Pilote”. Nei ritagli di tempo realizza una storia di sei pagine (che lui stesso definisce invendibile) in cui racconta la vicenda di un bambino a cui le fate madrine fanno meravigliosi regali, la saggezza, il coraggio, robe così, ma al quale un’ignobile strega rifila la peggiore delle maledizioni: «diventerai un fumettista umoristico». Da quel momento in poi la vita di quel ragazzo sarà un inferno, alla perenne ricerca di una battuta.
Era l’inizio del 1965, Goscinny e Charlier dividevano lo stesso ufficio nella redazione di “Pilote”. Quando Gotlib arriva, con la sua cartelletta sotto il braccio, a riceverlo c’è solo Charlier. A un certo punto, mentre gli sta mostrando le tavole, entra nell’ufficio un tipo molto distinto, in completo e panciotto, che con assoluta discrezione – per non disturbare – scivola in silenzio alla scrivania libera e si mette a lavorare. Dopo un po’ Charlier gli passa le tavole e gli fa: «To’ René, da’ un’occhiata a questa roba».
Il 4 marzo 1965 Gotlib pubblica la sua prima storia su “Pilote” (se vuoi leggertela, il numero è il 280). Il suo con “Pilote” e con Goscinny sarà un rapporto profondo e complesso, lungo – non senza momenti di crisi – circa 10 anni.

[continua]

Il disegno della testata è di Titti Demi.

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