Il cloro negli occhi

Boris Battaglia | Pantomime del Calisota |

Nel suo saggio Emulazioni pericolose, uscito per Einaudi nel 2018, Luca Mastrantonio sostiene, argomentando con ricchezza di esempi, che le produzioni artistiche, in particolare quelle narrative, possono provocare emulazioni che in determinate circostanze assumono carattere di pericolosità sociale. Mastrantonio non è un censore e quella che auspica è una presa di coscienza da parte di chi le produce dell’influenza delle storie, che si trasformi nella necessaria responsabilità.
Se il pericolo dell’emulazione scaturita da romanzi, film, serie tv, canzoni, fumetti e videogiochi fosse vero, sarebbe un bel problema e ogni autore che dia sfogo narrativo alle proprie più oscure pulsioni, avrebbe un carico di responsabilità per il quale invocare la censura nei casi più estremi (razzismo, suicidio, omicidio, violenza sessuale, pedofilia) non sarebbe eticamente sbagliato. Ma c’è un problema.
L’asse portante da cui tutto il ragionamento di Mastrantonio, e dei tanti sociologi che in misura diversa sostengono il pericolo dell’emulazione, è un falso storico: il famigerato “effetto Werther”.

Non voglio annoiarti e te lo riassumo alla bruttodio: nel 1974 il sociologo David Phillips, traendo spunto dall’epidemia di suicidi seguiti alla pubblicazione dei Dolori del giovane Werther di Goethe, usa questa definizione per indicare i comportamenti suicidari messi in atto su imitazione dei comportamenti di personaggi narrativi. Phillips assumeva come vero un mito letterario la cui unica traccia è presente nelle preoccupazioni di qualche filosofo, come Gotthold Lessing, di qualche letterat*, come Madame de Stael e da qualche teologo di cui manco ci ricordiamo il nome.
Nel 2003 gli psicologi Jan Thorson e Per-Arne Oberg hanno abbondantemente dimostrato, attraverso una ricerca di carattere storico, Was There a suicide epidemic after Goethe’s Werther?, che non ci fu alcuna epidemia di suicidi, e nel 2015 Frank Furedi, sociologo molto meno cialtrone del suo collega, nel saggio The media’s first moral panic, ha chiuso la questione dimostrando, dati storici alla mano, che le voci sull’epidemia di suicidi furono immaginarie tanto quanto il personaggio del romanzo. L’epidemia di suicidi fu solo una campagna mediatica (per gli standard dell’epoca) a cui finì per credere e colpevolizzarsi lo stesso Goethe. Utile alle istituzioni per emanare provvedimenti (come a Lipsia) normalizzanti del movimento romantico.
Converrai con me che, se il dato fondamentale su cui si costruisce l’architettura argomentativa di Mastrantonio e di chi crede alla pericolosità del potere istigativo delle narrazioni, era già stato dimostrato falso tre anni prima dell’uscita del suo saggio, anche le conclusioni crollano miseramente.

L’altra sera Ciro Fanelli mi raccontava una cosa successa proprio nel 2015 (è solo una coincidenza, nessuno strano anello!). La casa editrice marsigliese Le Dernier Cri, fondata nel 1992 da Pakito Bolino e da Caroline Sury, aveva organizzato per tutto agosto e fino al 13 settembre, in uno dei miei luoghi preferiti della città: La Friche Belle de Mai, una personale di Stu Mead e Reinard Scheibner. Artisti urticanti, che usano la rappresentazione del corpo adolescente per mettere in scena i propri incubi e le proprie fantasmagorie mentali di abitanti di questo mondo sbagliato, mettendo in crisi la presunta innocenza dell’immaginario di chi guarda le loro opere. Un movimento di boicottaggio, messo in atto da personaggi vicini al Front National, chiese l’annullamento della mostra, accusando gli autori e il loro editore francese di pedofilia e zoofilia. La cosa arrivò alle minacce verso l’incolumità fisica degli artisti e dell’editore, convincendo gli organizzatori ad annullare la mostra, che fu interrotta il 27 agosto, e costringendo la sede di Le Dernier Cri a dotarsi di un servizio di security rimasto attivo almeno fino al 2017.
Un delle cose che scopro, approfondendo la mia conoscenza dell’opera di Stu Mead, dopo la chiacchiera con Ciro, e che uno dei suoi riferimenti principali è Balthus. Conoscerai la polemica, con accusa di pedofilia, che, nel 2013, portò alla cancellazione della mostra delle polaroid scattate, dal 1990 fino alla fine della sua vita, alla sua modella bambina Anna Wahli, quali tappe preparatorie dei suoi quadri, che doveva tenersi al Museum Folkwang di Essen. La cosa ebbe un seguito nel 2017, quando Mia Merrill diffuse un appello per rimuovere dal Metropolitan Museum di New York uno dei quadri più famosi dell’artista: Therese revant, con l’accusa di promuovere la pedofilia. Appello che rimase inascoltato.
Anche in vita, Balthus fu accusato di pedofilia, ma rimandò sempre le accuse al mittente, sostenendo che l’unico pedofilo era colui il cui sguardo si imbarazzava davanti ai suoi dipinti: quando le nostre pulsioni più ambigue ci vengono mostrate con forza attraverso un racconto, sia per immagini che verbale, non sosteniamo lo sguardo e accusiamo l’autore di quelle pulsioni che temiamo profondamente di provare.
Una volta che un suo dipinto fu usato per la copertina di un’edizione della Lolita di Nabokov, Balthus si incazzò come non gli era mai capitato, perché – sostenne – la severità del suo sguardo nulla centrava con le autogiustificazioni di Humbert Humbert per la propria passione pedofila.

Bastien Vivès non ha la statura né di un Mead né di uno Schiebner, figurarsi di Balthus, e personalmente ritengo che le sue cose più interessanti le abbia realizzate lavorando con Ruppert e Mulot: cioè il soggetto della Grande Odalisca e le tavole del sogno dentro alla Tecnica del Perineo. Nelle sue opere, fin dal tanto apprezzato Il gusto del cloro, ha sempre fatto pornografia dello sguardo e dei sentimenti, giocando su una radicale ambiguità- la sequenza finale del Gusto del cloro, dove quel gusto diventa sguardo, con la ragazzina che dice sott’acqua al protagonista qualcosa che non potremo mai sapere ma che ci lascia desideranti, ne è una palese dimostrazione. Oltre al disgusto per i corpi anziani – apertamente dichiarato almeno due volte in quel libro – è evidente l’erotizzazione dei corpi adolescenti, pratica portata all’estremo in Polina. Polina è un’opera che si mantiene in perfetto equilibrio su questa ambiguità. Quando ci penso mi viene in mente una canzone del 1984 di Serge Gainsbourg, Lemon Incest, in cui su una melodia rubata a Chopin duettava con la figlia Charlotte, allora tredicenne. La canzone lascia l’ascoltatore nel dubbio che l’incesto – con minore – sia mai avvenuto. Gainsbourg stesso sarà spaventato da questa ambiguità e passerà molto tempo a dichiarare che quella canzone racconta solo il fantasma dell’incesto, presente in ogni rapporto padre/figlia, negandone al contempo la possibilità della realizzazione fisica. Non ho mai trovato la spiegazione di Gainsbourg convincente. Il neuropsichiatra Paul-Claude Racamier, nel 1989, ha introdotto la nozione di rapporto incestuale. Ciò che nella vita famigliare porta l’impronta dell’incesto fisico, senza che ne siano coinvolti aspetti genitali.

Nella sua canzone Gainsbourg realizza un capolavoro di equilibrio tra il rapporto incestuoso e quello incestuale. Cosa che riesce egregiamente anche a Vivès in Una sorella. Il punto è che l’opera di Vivès non coinvolge esistenze vere, come la canzone di Gainsbourg coinvolgeva invece lui e la figlia, e Vivès non si spaventa per l’ambiguità su cui sta lavorando. Le dichiarazioni che gli vengono rinfacciate mostrano, anzi, una sua irresponsabile leggerezza.
Tra Il gusto del cloro e Polina, ha realizzato Meloni di rabbia: un fumetto esplicito nel quale, seguendo proprio la lezione di Ruppert e Mulot, smonta i topoi del fumetto porno (l’ipertrofia mammaria, l’abuso dell’innocenza, la sessualità tra fratello e sorella) e li rimonta criticamente. Quello che fa Meloni di rabbia è mostrare al lettore che non è ciò che si racconta ma come lo si racconta a importare veramente.
Diciamo che la cosa, però, gli prende la mano, e in poco tempo realizza altri tre porno in cui gioca in modo paradossale e violentemente esplicito con le proprie ossessioni (l’ambiguità dei rapporti famigliari –Svuoto mentale e Burne out – e il corpo infantile/adolescente – Petit Paul). In questo gioco va decisamente oltre (non so quanto consapevolmente… temo, a leggere le sue dichiarazioni così poco ponderate, che l’istinto del disegnatore abbia sopraffatto quello del teorico – non ridere… se hai letto La grande Odalisca sai perfettamente che Vivès sul fumetto ha riflettuto, per lo meno con l’aiuto di Ruppert e Mulot). Come quella di Magalie, l’ipertrofia del bambino protagonista di Petit Paul, lo colloca d’ufficio in un mondo strettamente narrativo, non riconducibile alla nostra realtà se non , appunto, come finzione. Tutto è finto e sopra le righe, soprattutto i comportamenti dei personaggi, in una parola: parossistico. A questa esasperazione finzionale Vives però aggiunge una gradevolezza (non è urticante come Balthus o Mead), che può risultare fastidiosa per quei lettori che, avendo apprezzato le sue opere non esplicite, si scoprono ad aver goduto delle stesse situazioni (dimostrazione che il come si racconta conta molto più del cosa).
La verità è nuda, e come quella del Tiepolo è una fanciulla spogliata e stretta tra le braccia rinsecchite del tempo.

Che le lettrici e i lettori, sentendosi traditi da un autore la cui opera e la cui realtà ideologica non avevano capito (una bella percentuale di lettori di fumetti non sa vedere ciò che sta guardando, forse perché come quando si nuota in piscina senza occhialini, tiene gli occhi chiusi per non farseli bruciare), si comportino in modo fascista, accusandolo di cose quali l’istigazione alla pedofilia (con rassegnazione dei sociologi d’accatto, abbiamo visto, che non c’è prova alcuna che il racconto, anche delle peggiori nefandezze, causi emulazione) e chiedendo il ritiro delle sue opere e l’annullamento di una sua mostra, personalmente lo trovo anche comprensibile. Che i media e le istituzioni cavalchino questa onda d’indignazione o le si pieghino, amplificandola senza riflettere e adducendo scuse come quella dell’incolumità dell’autore per cancellare mostre già programmate, è una cosa cui faccio sempre fatica a credere.

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