Alan Moore e Lovecraft (2), più immaginario dell’immaginario: undicesimo passo

Francesco Pelosi | Mappaterra del Mago |

«Non crediate che questi racconti siano oziose invenzioni, poiché il mondo ha due maschere e le indossa una alla volta, così che là dove un tempo esistevano terre terribili ora è soltanto il sogno e parimenti verrà il giorno in cui il sogno sarà tutta la condizione umana.»

Il libro di Hali

In Providence (fumetto di Alan Moore e Jacen Burrows di cui ho cominciato a parlare nello scorso passo della Mappaterra) tutti i personaggi rappresentati sono tratti puntigliosamente dai racconti di Howard Phillips Lovecraft.
Moore si è insinuato nella letteratura dello scrittore americano decidendo che tutto ciò che egli ha scritto è in realtà basato sul diario del protagonista del suo fumetto, Robert Black, operando così una sorta di retcon della realtà: i personaggi “veri” sono quelli di Providence, mentre quelli dei Miti di Chtulhu sono solo ispirati a loro. Come se non fosse stato Moore a inventare nomi simili a quelli di Lovecraft per camuffarli all’interno della sua narrazione, ma il contrario.
Lo stesso trattamento hanno subito le cittadine che Black attraversa e che poi Lovecraft “rinominerà” nei suoi racconti: quella che nel Ciclo di Chtulhu sarà Innsmouth, in Providence è Salem; Dunwich è Athol; Arkham e la sua Miskatonic University sono Manchester e il Saint Anselm College. I racconti più notevoli del Ciclo, da La maschera di Innsmouth a La cosa sulla soglia e da L’ombra venuta dal tempo a L’orrore di Dunwich, vengono così incastonati nell’affresco di Moore, rendendo il tutto più immaginario dell’immaginario.

Per godere appieno della lettura di Providence dunque, la conoscenza dei racconti di Lovecraft non è facoltativa ma assolutamente necessaria, pena il non comprendere alcuni passaggi chiave del fumetto. Mettendo questo paletto, questa apparente barriera che potrebbe allontanare molti lettori, Moore ha in realtà creato un’opera espansa, conscio di star scrivendo dalla metà degli anni Dieci del Ventunesimo Secolo, dove la connessione costante al web e il seguire informazioni in catene di link sono cosa comune e usuale per tutti.
Providence funziona esattamente come internet, proponendo link analogici a ogni vignetta: si segue la vicenda principale ma allo stesso tempo ci si può anche impantanare nelle molte deviazioni che offre sottoforma di citazioni, che sono altrettante porte verso i racconti di Lovecraft e dei suoi epigoni e maestri.
La sensazione che se ne trae è quella di essere all’interno di una costruzione fisica, una casa o un gioco alla Jumanji, le cui regole intrinseche ti catturano e ti costringono a vivere per davvero ciò dovrebbe essere solo finzione. Mano a mano che si prosegue nella lettura, la storia sembra espandersi verso una direzione dello spazio che non dovrebbe esserle concessa, come fossimo davanti a un libro pop-up.

Ad esempio gli antagonisti della vicenda, i tre fondatori dell’ordine apocalittico della Stella Sapiente,  Etienne Roulet, Ekeziah Massey e Japheth Colwen, non vengono quasi mai mostrati in volto (o meglio, non viene mai mostrato il loro vero volto) e quasi non vengono nominati. Black li incontra tutti senza rendersene conto e senza nemmeno che sia reso chiaro al lettore che sono proprio loro. Perennemente occultati dietro allusioni, falsi volti e falsi nomi, Moore e Burrows raccontano questi personaggi nascondendoli dietro angoli impossibili della pagina. Come se il fumetto fosse un solido 3D e noi potessimo esplorarlo fisicamente in cerca di queste figure che non vediamo mai chiaramente. La narrazione di Providence è talmente evoluta da far credere al lettore di potersi muovere al suo interno, come fosse in un videogioco. Di nuovo, si fa strada l’idea che il fumetto sia «uno spazio fisico in cui muoversi», cosa che Moore, è ormai chiaro, sperimenta e concepisce di continuo.
A partire dalle copertine “regular” della serie (a cui si è accennato nel nono passo della Mappaterra), con gli edifici che incontriamo nei vari episodi ma raffigurati molti anni dopo i fatti narrati, come se le pagine contenute dietro la loro facciata fossero un veicolo spaziotemporale verso qualsiasi direzione, al secondo episodio della serie Greyshirt, realizzata con Rick Veitch, dove le quattro strisce che dividono ogni tavola contengono i quattro piani di un palazzo, uno sull’altro, ma anche quattro epoche diverse, fino ad alcune doppie pagine di Promethea, dove insieme ai disegni di J.H.Williams III, Moore crea veri e proprio labirinti palindromi nei quali potersi muovere a piacimento.

Al contrario di Promethea però, il labirinto di Providence è obbligato e invasivo. Gli episodi emblematici in questo senso sono i due centrali, In the walls e Out of time, dove Black si inoltra nella casa della strega Ekeziah Massey, una struttura impossibile che si muove fra le dimensioni, e rimane bloccato in un terrificante loop temporale. Il riferimento è al racconto di Lovecraft La casa della strega, che utilizza le recenti (per Lovecraft) teorie fisiche di Albert Einstein.
«Le idee relative alla quarta dimensione e alle sue strane geometrie lasciano presagire che esistano “angoli” di realtà che potrebbero essere spazi matematici più elevati e quindi non evidenti alle nostre percezioni», si legge nel diario di Black alla fine del capitolo, ed è proprio in questi angoli che la strega si nasconde.
Moore e Burrows seminano gli interni della sua casa di piccoli particolari sfuggenti a un primo sguardo ma che vengono comunque registrati subliminalmente dall’occhio (finestre “sbagliate”, aste in più o in meno nel corrimano delle scale o nella testiere dei letti, distanze di volta in volta diverse fra i mobili, tane di topi che appaiono e scompaiono) e tentano di attirarvi la nostra attenzione con i discorsi sibillini della strega che afferma di non risiedere in quella casa, bensì in «un altro spazio vicino» e di aver trovato soccorso alla vecchiaia in «taluni prolungamenti dello spazio». Secondo lei infatti il tempo è simile a «una larghezza o a una lunghezza».

Nel suo romanzo Jerusalem, Moore descrive esattamente così il luogo dove vanno i morti, l’aldilà chiamato “Mansoul”, una zona intrinseca alla nostra ma situata “Di Sopra”, a cui si accede attraverso angoli dei soffitti che anziché andare verso l’interno, come solitamente fanno, sporgono irragionevolmente verso l’esterno.
Una delle tecniche di visualizzazione per il 4D proposta da Rudy Rucker nel suo libro La quarta dimensione, suggerisce proprio di costruire un cubo di Necker con la carta, per sperimentare l’illusione ottica che permette di “far sporgere” gli angoli, esattamente come fossimo davanti a un pop-up immaginario.
Infatti, fissando per un certo tempo un cubo di Necker (come quello del disegno qui sotto), la nostra percezione comincerà a far sporgere alternativamente gli angoli, guardandoli “uscire” verso di noi e poi “rientrare”, nell’illusione ottica di due cubi identici e speculari contenuti in uno solo.

«Chris Ware costruisce storie ospitali o freddissime, proprio come abitazioni», scrive Paolo Interdonato a proposito dell’autore di Building stories e lo stesso tipo di costruzioni persegue Moore, anche se in maniera totalmente diversa. Se le splendide e intricate case di Ware sono consce di essere “solo” bidimensionali, quelle di Moore puntano decisamente alla tridimensionalità.
Uno dei fondamenti del saggio di Moore sulla scrittura, Writing for comics del 1985, è quello di conoscere a menadito il luogo in cui verrà ambientata la storia da narrare. Le lunghe e lente camminate di Black e la ripetizione pedissequa nel suo diario alla fine di ogni capitolo di Providence di ciò che è appena successo all’interno dello stesso, costringono il lettore a occuparsi dello spazio (tempo) delle sue storie. Moore vuole che il lettore lo esplori, lo tocchi, lo conosca fin negli odori e nelle temperature, che gli sia famigliare come avesse sempre vissuto lì.
Ripetizioni di nomi, luoghi, situazioni e lunghe descrizioni che alludono al moto ma che sono in realtà descrizioni della stasi, dell’eternità congelata dello spazio-tempo: i suoi personaggi, grazie all’arte di Burrows e ai suoi corpi statici e sgraziati, di una bellezza ipnotica, si muovono lenti, invischiati nell’ambra del diorama dell’Universo Blocco. E la nostra mente può così muoversi liberamente all’interno della vignetta immobile.
Come anche in Jerusalem (uscito nel 2016 dopo una gestazione di dieci anni, e che ha quindi coinciso per un periodo con quella di Providence), fondamentalmente una mappa spaziotemporale di Northampton in forma di romanzo, o nel lungo quarto capitolo di From Hell, con il giro in carrozza dove ci vengono raccontati i luoghi magico-massonici della Londra vittoriana, Moore vuole far stare il lettore il più possibile all’interno delle sue ambientazioni, vuole che lo penetrino e che le possa penetrare. Progetta e realizza invasioni dell’immaginario, funghi o virus come le storie di Lovecraft.

Nell’opuscolo che un losco mercante legato a doppio filo con la Stella Sapiente vende a Black, si legge:

«In queste pagine troviamo meditazioni sull’eternità, definita come un solido immutabile e l’idea che il tempo non sia una grandezza definibile in termini di durata quanto in termini di distanza quando viene considerato in una dimensione matematica più elevata».

Concependo così anche il fumetto, questo diventa la migliore rappresentazione del tempo, non misurabile in termini di durata (le pagine e le vignette “durano” quanto lo decide il lettore) ma in termini di spazio: quanto è grande una vignetta, una pagina, un libro intero? Quanto spaziotempo occupa? E in ultimo: la sua persistenza nell’immaginario pubblico e privato come è misurabile? È anch’essa un’ulteriore estensione dello spaziotempo occupato da quella specifica storia, da quello specifico fumetto?
Se, come Moore, crediamo (o almeno valutiamo possibile) l’esistenza di un luogo metafisico in cui vivono le idee, quello che lui chiama Idea-Spazio, e il fatto che queste determinino le circostanze concrete della nostra vita, dovremmo probabilmente rispondere di sì.

Arnesi del cartografo

  • Come detto, Providence è un dannato intrico di citazioni ai racconti e romanzi di Lovecraft. Se non li si conosce e non si ha voglia di leggerli (anche se l’incredibile adattamento manga di alcuni di essi che ha fatto Tanabe Gou, edito in Italia da J-Pop, proprio non bisognerebbe perderselo), si può andare a leggere il sito Facts in the case of Alan Moore’s Providence, ottimamente tradotto in italiano, con varie aggiunte all’apparato critico, dal blog Cronache Bizantine. Lì ci sono tutte le note necessarie per orientarsi nella lettura dell’opera;
  • riguardo agli pseudobiblion lovecraftiani e alle mitologie letterarie intorno al Re in Giallo invece vale la pena visitare il blog The Obsidian Mirror dove è stata fatta una lunga e accurata ricerca in una serie di articoli intitolata The Yellow Mithos;
  • La quarta dimensione di Rudy Rucker, è un libro del 1982 essenziale se si è interessati a penetrare molti aspetti dei fumetti di Moore. Lo ha pubblicato in italiano Adelphi nel 1994;
  • Alan Moore’s Writing for comics è stato pubblicato da Panini nel 2012. Come detto è un testo del 1985, ma questa edizione ha anche una breve aggiunta più recente dello stesso Moore, dove l’autore commenta il testo aggiungendo ciò che nel frattempo è cambiato nel suo metodo;
  • Providence di Alan Moore e Jacen Burrows è appena stato ripubblicato integralmente da Panini in un tomo gigante che contiene anche Neonomicon e Il Cortile, i due prequel/sequel della serie.
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