Mi è capitato di leggere, nella mia bolla social, commenti accesi e assai negativi in risposta agli interventi di Scurati e Vecchioni pronunciati sul palco di Piazza del Popolo il 15 marzo scorso. E di non avere voglia di aggiungere la mia voce, altrettanto critica seppure meno brutale, a quella ridda di opinioni su Europa, riarmo eccetera. Dunque cosa ci faccio qui, pure in ritardo? Pazienta, ci arrivo.


Il primo libro di Scurati su Mussolini (M, il figlio del secolo, Bompiani) mi è piaciuto molto. I successivi (l’ultimo e conclusivo non l’ho ancora letto) meno. Restano libri utili e interessanti, ma si perdono un po’ fra eccessi didascalici, toni aulici a manetta, ridondanza di aggettivi e citazioni da documenti esposti poi in coda a ogni capitolo. Il suo intervento del 15 marzo, con la sua retorica paternalista, invece non mi è piaciuto neanche un po’.
Vecchioni è un’altra faccenda. Il suo discorso, almeno penso, gli è proprio uscito male, come peraltro – mi dicono – ha riconosciuto lui stesso nei giorni successivi. Resta che non riesco a non volergli bene. Se t’interessa, l’ha detto meglio di me Marco Sommariva, qui. A me ha dato tristezza vedere un uomo che in passato mi ha aiutato a capire la complessità della vita, mentre oggi gli sfugge la comprensione di quella odierna, di un mondo cambiato mentre lui può guardarlo solo con strumenti e lenti a cui è abituato. Alla tristezza sono troppo incline e l’affetto deforma sempre il giudizio, ma il suo intervento forse meritava critiche più pacate e non la shitstorm piovutagli addosso.
Dicevo però che, seppure avendoli letti, di commentare gli interventi dell’autore di M. e di quello di Samarcanda non avevo voglia. Non me ne è venuta nemmeno pensando a Ursula Von Der Leyen mentre dice «La via della pace è la forza, l’Europa deve urgentemente riarmarsi». Insomma, non solo è stata demolita l’idea, già in partenza ballerina e retorica per carità, di un’Europa costruita su diritti, lavoro, stato sociale e pace fra gli Stati. Ora bisogna tornare al «Si vis pacem, para bellum» degli antichi romani.
Però, seppure sentendo le dita prudere sulla tastiera, mi sono trattenuto. Di mettermi a litigare via web su questioni che mi portano solo incertezza e scoramento avevo voglia uguale a zero. Poi, come a Fantozzi quando si rompe una stringa, capita l’imprevisto. Con questo volto.

Una postilla su Michele Serra
Incroci di destini. Il 21 marzo Michele Serra è stato ospite di un locale a me caro, la Cooperativa Popolare Infrangibile di Piacenza, dove ho presentato tutti i miei libri e pure alcuni di cari amici. Io ero assente, NON per evidenziare una presa di distanza – ero semplicemente fuori città. Alcuni giorni dopo Serra ha pubblicato un articolo vagamente altezzoso, prendendo spunto proprio dalla serata a Piacenza. Parla di tre ragazze che lo hanno affrontato nell’occasione. Lo cito, sennò che Tradrittore è mai questo?!
«… avevano elaborato un ripudio così netto, e così frontale, di quel paio di parole – Europa, democrazia – che a me, e a molti dei presenti in quella stessa sala, sembrano invece così importanti, e così messe a repentaglio dal subbuglio del mondo. … voci, così sprezzanti, così drastiche, così sprovviste di pacatezza, neanche l’ombra di un dubbio, di un qualche interesse per il pensiero degli altri, per l’esperienza degli altri … voci non assistite, evidentemente, dall’attenzione e dall’amore di buone maestre, semmai irrigidite dallo sguardo intransigente, ideologicamente militarizzato, di qualche cattiva maestra…»
Insomma, veloce come una pantegana zoppa trovo la volontà (il dovere?) per rispondere a Serra, affrontando l’argomento che avrei potuto (dovuto?) affrontare in aprile, quando su (Quasi) si è parlato degli 80 anni della festa più bella che c’è, sforando tempi di pubblicazione come non si dovrebbe fare ma a volte capita. E capita pure che tu, mio lettore che non esisti e a cui mi rivolgo solitamente, trasfiguri e diventi il celebre autore de L’Amaca, che non mi conosce e non mi legge. Pensa te: uno che non esiste montato su chi non conosco in uno scritto per la rivista “che non legge nessunə”. Paradossale, ma vabbè. Stacce.
Eccoci dunque («Finalmente!» aggiungi tu, non a torto) al cuore di questo articolo. Cosa dici di un titolo del genere?

Ho giocato con il Marchese del Grillo, lasciando il lavoro sporco all’amico Simone Lucciola, perché nelle parole di Scurati e Vecchioni ricorre un Noi elitario e pronunciato con enfasi e orgoglio, che mi ha dato l’effetto stridulo di unghie sulla lavagna. O di coltelli mentre vengono affilati sfregandoli l’un l’altro come usava mia madre – metafora più adatta al contesto e ai tempi correnti. Noi europei, dicono, non so se con la debole scusa della faciloneria o dell’ingenuità, «Non bombardiamo, torturiamo o invadiamo» (Scurati) e «Abbiamo avuto Socrate, Shakespeare e altri ancora» (Vecchioni). Parole adatte a perimetrare quel che vorremmo essere e non ciò che siamo. E qui, credimi, non si tratta di sentirmi colpevole di tutto il male del mondo in quanto figlio dell’opulenta Europa, madre di Socrate quanto di Mengele. Semplicemente, sentirsi innocente e superiore è la base di ogni crimine. Solo io in quel «Noi non torturiamo, non deportiamo» sento l’eco dell’«Italiani, brava gente» che cancella il retaggio delle violenze commesse dall’Italia colonialista, per dire?
Peggio del ritenere l’Europa colpevole di ogni nefandezza è, mi sembra, inventarsi un’arrogante e autoassolutoria superiorità morale per crearsi un’identità fittizia, ripulita attraverso la rimozione di quanto è scomodo nel nostro passato. E se giochiamo a tirare in ballo Socrate, come ha fatto pure Serra, è bene ricordare che la sua condanna a morte avvenne nel 399 a.C., in quello che può essere ricordato come il primo processo per reati di opinione, o almeno il primo a noi giunto ben documentato (Platone può piacere o meno, ma era un valido addetto stampa). Quella condanna, molto politica sebbene ufficialmente ammantata di altre ragioni, su cui non è il caso di dilungarsi, toglie alla democrazia ateniese quell’aura idealistica di perfezione che ancora la circonda. Senza discutere l’importanza del modello ateniese, il processo a Socrate racconta come la più grande democrazia possa aver condannato a morte il migliore dei propri cittadini. E lascia un messaggio inquietante: un intellettuale libero e rigoroso è sempre scomodo per chi detiene il potere, in qualsiasi forma venga esercitato.

Okay, l’ho detto prima. Se il gioco è «Comunque sia, noi abbiamo Socrate e loro no, gnegnegne!» (“loro” chi?! Russi? Cinesi? Marziani? Gli stronzi in generale?) posso accettarlo come auspicio di chi vorremmo essere. Senza però rimuovere Anito e Meleto che lo denunciarono. La contrapposizione fra umani, «Noi» e «Loro», la pensavo già superata da Terenzio, pure lui visto dai pennelli di Simone.

Resta il vero nodo sollevato dalle recenti manifestazioni e dal grande casino in cui stiamo vivendo. Quello riportato alla ribalta dalle parole di Von Der Leyen citate prima, sintesi di un vecchio dilemma. Armi ed eserciti possono avere funzione deterrente, nell’ottica di mantenere la pace? Mi viene in soccorso un fumetto, in modo inatteso.
La soluzione di Popeye
Nel 1963, presumibilmente ispirato dalle tensioni della guerra fredda, Bud Sagendorf ti racconta una storia atipica del suo Braccio di Ferro.
Re Blozo, sovrano dell’isola di Spinachovia, sta subendo strani bombardamenti dalla vicina Muckovia (“strani” in quanto fra i due stati non sembrano esserci ruggini). Chiede quindi aiuto al suo amico marinaio, dandogli l’incarico di ambasciatore per trattare con il primo ministro di Muckovia. Non proprio l’incarico adatto a un tipino come Popeye, mica per niente noto come “l’irascibile”. E infatti, dopo un primo approccio prudente, al marinaio saltano i nervi e dichiara guerra allo stato nemico. Una svolta repentina che non rende felice Re Blozo.

Lungo la storia, Popeye mangia pochi spinaci e si limita a un solo cartone sul muso del ministro muckoviano. Dopo la dichiarazione di guerra il suo atteggiamento è ancora più inconsueto. Forza il proprio carattere fumantino e lavora di cervello. Apparentemente nella piena adesione al «Si vis pacem» citato prima, lui «para bellum» e predispone l’arma definitiva come semplice deterrente.

Peccato che il mite e pusillanime sovrano di Spinachovia, alla vista di cotanto bellico ben di dio, si ingolosisca…


In realtà nello spazio di poche vignette scopri che il missile è solo un enorme bluff. È sempre un Popeye insolitamente saggio e pacato a rivelarlo all’amico…

… e Sagendorf chiude la storia con parole in cui sento risuonare il Pertini di «Si svuotino gli arsenali, si colmino i granai». Guarda tu stesso. Magari, chissà, Pertini leggeva Braccio di Ferro.

Però, non c’è niente da fare, è ciclico. Ogni volta succede e ogni volta la cosa che mi secca di più (in mezzo ad altre, of course) è che i pacifisti, nella migliore delle ipotesi, vengano dipinti come imbecilli. Sognatori che non si piegano a un pragmatismo rinnovato con una mano di vernice ma che, gratta gratta, si limita a ripetere il si vis pacem eccetera. Volete davvero essere pragmatici? Va bene, armatevi pure, troverete sempre qualcuno più armato, più forte, che mena de più. E magari pure brutto incazzoso e cattivo. Uno che minaccia razzi (o dazi) e dice «Baciatemi il culo!».

Prova a pensarci. A chi dice «Le armi servirebbero solo a dissuadere un potenziale aggressore» potrebbe rispondere un aforisma di Anton Čechov,da me già usato in passato: «Se in un romanzo compare una pistola, prima o poi deve sparare!».
Analogamente, se nella realtà viene minacciato l’uso di un esercito, prima o poi a qualcuno verrà la tentazione di usarlo. E in giro non vedo, tra i governanti attuali, gente con la saggezza di Re Blozo. Può essere che io stesso stia cedendo alla trappola del cinismo, ma credo davvero che armarsi serva solo a trovare, prima o poi, qualcuno più armato e feroce. Ad alimentare un mercato, quello delle armi, in cui gli europei sono ottimi acquirenti. In definitiva, a ridare ossigeno all’economia bellica made in USA, relegando l’Europa al ruolo di perfetto cliente nel grande war business, come sembra da questi dati…

Nonostante questo, ci sarà sempre chi ribatte: abolire la guerra è irrealistico e antistorico!
Ora. Fosse pure utopia, l’idea di eliminare la guerra ha valore proprio in quanto utopia. Gli ideali, anche nella consapevolezza della loro irrealizzabilità, servono eccome! Sono assai pratici, lontani dal semplicistico «mettersi a posto la coscienza» sentenziato dai pragmatici (il pragmatismo ha spesso il ruolo di killer di filosofia e ideali “alti”). Servono a indicarti un obbiettivo verso cui tendere.
Però, riconoscilo con me, fra queste critiche ne esiste una sensata:
«Va bene, ma in certi momenti la violenza è stata necessaria. I partigiani sparavano, non coltivavano violette!»
Da queste parti è già passata Ginevra a spiegarti quanto la cosa fosse più complessa e quanto la scelta di imbracciare un fucile fosse, per tanti e tante, una extrema ratio. L’osservazione però resta ragionevole. Grazie a lei, questo articolo può tornare al titolo e arrivare alla sua conclusione. Perché già da un po’ ti starai chiedendo…
Ma chi diavolo era il partigiano Gion?
Tempo fa scrissi un racconto, sintetizzato poi in un breve fumetto disegnato da Manuel De Carli per “La Lettura”. Parlavo di mio padre, della sua esperienza come partigiano e altre cose.
La vita spesso inciampa in imprevisti, a volte positivi. Uno di questi mi portò successivamente a questo link e a una foto. Sapevo del suo pseudonimo. Avevo sempre pensato a John: invece era stato “italianizzato”: mi ha intenerito e fatto sorridere…
Non so esprimere l’emozione che mi ha dato trovare la sua “fototessera”. Avrà avuto 17 anni. Il Partigiano Gion. Esatto, con la “GI”.

Da bambino gli chiesi tante volte se avesse ucciso qualcuno, fra i fascisti, fra i nazisti. Rispondeva solo che, sì, qualche volta aveva sparato e forse qualcuno l’aveva beccato. Ma se ho ammazzato qualcuno, diceva, l’ho fatto perché andava fatto, non perché fosse bello.
Io, bambino, restavo deluso. Avrei voluto vederlo come un eroe con in braccio il suo fucile ad ammazzare i cattivi. Quella risposta mi sembrava persino un po’ codarda. Meglio, era contraria al mito che volevo riconoscere in lui. Recentemente, leggendo I solchi del destino, ho scoperto che Paco Roca ha immaginato una risposta analoga da parte di Miguel Ruiz, vecchio antifascista spagnolo fuggito in Francia. Ancora incroci del destino. Fa riflettere pensare che le parole di mio padre e quelle dell’anziano combattente spagnolo siano tanto simili.

Da adulto avevo capito che la frase del partigiano Gion era nobile, faticosa e bellissima. Dice che la violenza può essere necessaria, ma a due condizioni: che la usi solo perché non hai altre soluzioni e che, soprattutto, dopo averla usata tu ti senta comunque un po’ più schifoso di prima. Perché noi uomini facciamo sempre schifo, è bene ricordarlo. Lo facciamo di più dopo aver usato violenza, anche se magari era necessaria. Quando a volte vorrei essere più manicheo penso a quella frase. Non mi capita spesso – desiderare di essere manicheo, intendo – ma a volte sì. La vita è più semplice da decifrare se dentro di te poni un netto contrasto fra bene e male. Ma in quel modo so rimediare alla tentazione.
Vabbè ti ho annoiato… No, non ho soluzioni. Vedo solo la fragilità di quelle proposte e sorrido amaramente di fronte a chi si sente rassicurato da esse. Nella follia del periodo che stiamo vivendo mi preoccupa maggiormente chi arriva e sentenzia «Ma non vedete com’è semplice?! È necessario armarsi. Non c’è alternativa!». E preoccupa quel certo compiacimento, verso la parola guerriero, verso la retorica della guerra necessaria, inconsapevole richiamo al mito della “bella morte” senza riconoscerlo. Una retorica sempre accompagnata dal disprezzo verso quei giovani, trattati da imbelli o codardi, che sanno ancora opporre un coraggioso (sì, coraggioso) rifiuto.
Ti deludo. No, non so cosa direbbe il partigiano Gion. Forse si sentirebbe spaesato. Per nulla rassicurato al pensiero che la guerra sia tornata a essere un orizzonte concreto e possibile. Probabilmente guarderebbe fuori, alla finestra. Vedrebbe uno splendido sole, i gatti se lo godono e fanno le fusa, erba da tagliare in giardino. Solo qualcosa che nasconde la spaventosa normalità dell’inferno dei viventi. A cui si può sfuggire, insegna Calvino, solo cercando ciò che non è inferno. Facendolo durare, dandogli spazio, proteggendolo fin dove è possibile.

Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.