I 3 migliori fumetti pubblicati negli ultimi 6 mesi

Boris Battaglia | post-it |

Una cosa che avrei voluto fare, agli inizi di febbraio, era scrivere un divertente reportage dal 52° Festival International de la Bande Dessinée d’Angoulême. Sai, erano 24 anni che non ci tornavo e mi andava proprio di celebrare questo ritorno con una breve serie di articoli.

Poi la vita… no, basta! Sempre la colpa alla vita! La colpa è di quella sorta di morte sociale che chiamiamo lavoro e che ci serve per mantenerla in vita, la vita. Quella merda che ti assorbe 8, 10 ore al giorno, 5 giorni alla settimana… alle volte anche 6. Insomma, per fartela breve: non ho trovato il tempo per scrivere quel divertente reportage. E ce ne sarebbero state di cose da raccontare. Come la cena con i tipi di Futuropolis, durante la quale Paolo (Castaldi) e io conversiamo amichevolmente per tutto il tempo di fumetti e massimi sistemi con il più simpatico della tavolata (forse addirittura più sbronzo di me) e solo alla fine scopriamo che era Jean-Marc Troubet in arte Troubs;

oppure la mia conversazione con un editore di saggistica durante la quale scopro che anche in terra di Francia, gli argomenti che interessano a me sono di nicchia estrema: interessano appunto solo a me; oppure i pranzi al Marché des Halles in compagnia dell’immarcescibile Paolo, di Francesca Benaglia e di Francesco Pelosi, con successivo spostamento al Bar des Arceaux per il caffè corretto bordeaux; oppure il rosè bevuto sotto il gelido sole di una domenica pomeriggio in square George Wolinski;

oppure lo stupore davanti agli originali di Posy Simmonds in una delle mostre meglio allestite in cui mi sia capitato di girellare da anni;

oppure l’ultima birra scolata nel centro sociale più piccolo in cui abbia mai messo piede e la cena finale con il mio fratellino Paolo, al Tire Bouchon.

Ma bando alle ciance. Per il reportage ci rifaremo l’anno prossimo, forse. Voglio invece approfittare di questo breve momento di pausa dagli impegni lavorativi per dirti al volo dei tre fumetti più importanti, a mio avviso, che mi sono portato via dal festival, e che ho letto negli ultimi sei mesi, due dei quali in italiano non li vedrai di sicuro mai. Il terzo forse.

A differenza di quasi tutti quelli che scrivono di fumetti, non reputo che il lavoro del critico consista nel recensire i volumetti usciti ogni settimana o ogni mese per gli editori italici, mantenendo un equilibrato rapporto percentuale tra i vari marchi per non scontentare nessuno. Quello è un lavoro da ufficio stampa che la maggior parte dei siti e delle riviste di critica fa gratuitamente per gli editori, in cambio dell’invio dei libri. Io penso invece che il compito pratico di un critico sia riassumibile così: non dover mai chiedere me lo mandi per favore, e non preoccuparsi di come l’utente finale farà per procurarsi (esistono un sacco di possibilità) e leggere (capisco che alcune lingue possano essere ostiche, ma il fumetto si guarda, non si legge) ciò di cui gli parla. Solo in questo modo si può dire di ciò che veramente ha rilevanza. Quindi.

Nel corso del 2022, Jean-Cristophe Menu decide che è arrivato il momento di svegliare dal sonno criogenico in cui stava sospesa dal 2014 L’Apocalypse, la casa editrice che aveva fondato nel 2011 dopo la sua (burrascosa) uscita da L’Association; e di ridare vita, per l’occasione, a una delle collane più belle mai pensate e realizzate nella storia del fumetto: la 30/40 (la collana prende il nome dalla misura in centimetri dei volumi) che Étienne Robial ideò nel 1974 per pubblicare, dopo un rocambolesco ritrovamento (te ne racconto qui), con la sua Futuropolis il Patamousse di Calvo. A quello di Calvo seguirono 21 volumi dedicati ad autori del calibro di Jean Giraud, Tardi, Vaughn Bodè, Jeff Jones, Rober Crumb, Jacovitti, Forest, Baudoin. Nel 1994, quando Robial lascia Futuropolis, la collana si interrompe.

Ecco. Menu decide di riprenderla esattamente da dove si era interrotta, e chiede a Robial di dirigerla. Robial accetta e propone a Menu di essere l’autore a inaugurare questo secondo corso. Menu è spiazzato: la vocazione di una collana simile è la consacrazione di un autore e della sua opera, e lui non sa se è pronto a essere consacrato. Per un anno non riesce nemmeno più a disegnare, tali sono l’ansia e la tensione. Poi, lo fa. E a fine novembre 2024, in occasione della 14° edizione del SoBD (il Salon de la Bande Dessinée di Parigi), L’Apocalypse presenta al pubblico il 23esimo volume della collana 30/40.

Sai, e se non lo sai ti rimando alla monografia che sto preparando su di lui, che Menu è, probabilmente, uno dei più lucidi teorici della Bande Dessinée degli ultimi decenni. In questo volume, intitolato in modo eponimo Menu e che ha la forma di un’antologia in cui ricorrono tutti i suoi personaggi feticcio (lui stesso, Lapot, i Monaci del Monte Verità) e tutti i temi della sua opera (l’autobiografismo, la musica, la riflessione teorica, il lettering) e che è tenuta insieme da un potentissimo nucleo centrale, nel quale racconta l’elaborazione del lutto per la morte dei suoi genitori (scomparsi rispettivamente nel 2022 e nel 2023), Menu intavola una imprescindibile teorizzazione dello spazio/tempo e di come lo attraversiamo ogni volta che ci poniamo davanti a un fumetto.

Se anche ci fosse un editore italiano così pazzo da volere proporre, in un mercato dominato da raccolte di brutte barzellette e autobiografismi consolatori, questo volume, si troverebbe nell’impossibilità di tradurlo, perché – proprio per una questione teorica – la parte verbale (il lettering) è parte integrale del disegno e dell’architettura delle tavole. Dovrebbe chiedere a Menu di rifarlo in italiano. Cosa evidentemente impossibile.

Probabilmente, data l’inesistente visibilità di cui hanno goduto da noi i suoi unici due fumetti pubblicati in italiano (e te lo assicuro Catarsi e Testosterrore – a prescindere dalle mie perplessità sull’edizione italiana del primo – sono due dannati capolavori) se sai chi è Renald Luzier, in arte Luz è solo per i fatti del 7 gennaio 2015 e la strage di “Charlie Hebdo”. Potrai recuperare il giorno che scriverò il capitolo a lui dedicato in Ce ne sarà per tutti, intanto vatti a leggere i due volumi che trovi in italiano e poi procurati Deux filles nues, a cui i giurati di Angouleme quest’anno hanno conferito il massimo riconoscimento: il Fauve d’Or.

Da quando Winsor McCay ha pubblicato domenica 25 febbraio 1905 sul “New York World Telegram” quella famosisisma tavola di Dream of a Rarebit Fiend, di fumetti raccontati tutti in soggettiva ne abbiamo visti anche troppi. Ma in nessuno lo sguardo con cui si identifica quello di chi guarda il fumetto, è lo sguardo di un’immagine. Un quadro: Zwei Mädchenakte di Otto Mueller.

In Deux filles nues (Albin Michel), Luz ci racconta la storia di questo quadro, dalla sua realizzazione nel 1919, attraverso la repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo, passando per la mostra del 1937 dedicata all’Arte Degenerata, fino alla restituzione ai legittimi proprietari e all’attuale conservazione presso il museo Ludwig di Colonia. Tutto questo è mostrato attraverso lo sguardo impassibile del quadro (le tavole iniziali, in cui il suo sguardo si apre lentamente sul mondo a ogni successiva pennellata di Mueller, fanno piangere di bellezza) che si appropria del nostro chiamandoci a diventare (alla faccia di chi ha cantato la fine del postmoderno!) non parte, ma la storia stessa. Come Luz che è scampato, per caso, al delirio omicida islamista, il quadro è un sopravvissuto, scampato al delirio omicida nazista. Valuta da te le implicazioni teoriche ed etiche che questa lettura ti obbliga a mettere in campo.

Non lo potrai mai leggere in italiano perché valutando come sono andati gli altri due, se nessun editore è disposto a farsi male sapendo da principio di andare a farsi male, lo si può capire.

Sabato primo febbraio, tardo pomeriggio, quando la gente comincia a diradarsi scivolando verso casa, e ci si può muovere senza districarsi nella folla come un contorsionista, lascio il mio tavolino del Latitude (dove mi sono gustato un ottimo Macon Village) e mi infilo nella gigantesca tensostruttura che occupa tutta Place du Champ-de- Mars e che chiamano Le Monde des Bulles. Vado dritto allo stand Glénat. Cerco un libro. Non lo trovo. Chiedo a un commesso gentilissimo. Lo hanno finito, l’autrice era in dedicace ed è andato esaurito. Penso a voce alta: Merde! allora faccio un salto alla libreria La Citè, ho visto che ce l’hanno. Se vuoi, mi risponde il commesso, domani ce ne arriva un altro bancale. Ha ragione. Domenica mattina ne hanno lì una nuova montagna. Lo prendo al volo. A sera è di nuovo finito. Il libro che volevo assolutamente è Sibylline di Sixtine Dano.

A differenza di quasi tutta la redazione di (Quasi) a me Manuele Fior non piace neanche un po’. Delle storie che racconta, studiate per piacere alle lettrici romantiche dei libri Adelphi, non me ne frega un cazzo e l’acquarellosa superficialità del suo segno, che declina al grado zero la tecnica di Ferenc Pinter (quando La Nave di Teseo gli ha affidato le copertine di Scerbanenco mi hanno sanguinato gli occhi!) per renderla funzionale alla costruzione di quelle storie, mi irrita lo sguardo.

Fior in Francia è amato (non sopravvalutarli mai, anche la maggior parte dei francesi non capisce un cazzo come gli italiani) e Sixtine Dano è decisamente sua discepola, il suo segno furbetto si è formato a quella scuola. E allora perché Sibylline è un libro importante? Beh, per spiegartelo devo prima dirti cosa racconta: Raphaëlle ha 19 anni e si è appena trasferita a Parigi, in quello che definire un monolocale sarebbe un eufemismo, per studiare architettura. Per vivere a Parigi i soldi che le arrivano da casa non bastano proprio, così trova lavoro come barista in un pub. Poi, un giorno, per un caso un po’ fortuito, un po’ no, si ritrova a gestire un appuntamento con un uomo molto più anziano in un locale deputato a questi incontri. Da questo momento, valutata la facilità di guadagno, Raphaëlle decide di fare la escort con il nickname di Sibylline. È molto determinata in questo e la sua consapevolezza e il suo controllo sui meccanismi di una tale attività sono totali. Tutto è messo in conto e raccontato senza nessun giudizio morale: i pericoli per la propria incolumità, le umiliazioni e lo stress psicologico, le motivazioni dei clienti, ma soprattutto il rischio del prosciugamento dei sentimenti. Il finale è rischiarante e sereno, ma non te lo racconto.

Sostanzialmente questo fumetto è un bildungsroman, quindi collocabile in quella tematica narrativa tutta mitteleuropea in cui si muove Fior, ma è assolutamente privo di ogni sdilinquimento romantico. Quel segno ruffianamente innocente, che nelle storie di Fior mi irrita, qui l’ho trovato necessario per portare in primo piano il paradosso tra la delicatezza dell’aspetto (che rende Sibylline desiderabile allo sguardo degli uomini più anziani) e la crudezza delle azioni e delle situazioni. Se è stato un caso o se Dano ha la stessa consapevolezza del suo personaggio, ce lo diranno i suoi lavori futuri.

Questo è un volume che editori come Bao, Oblomov o Coconino potrebbero anche decidere di proporti in italiano. Non amo (è un eufemismo, lo so) i tipi di Bao, quindi tifo Oblomov o Coconino che probabilmente farebbero anche una scelta migliore della carta usata da Glénat, una patinata che proprio non si può vedere.

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(Quasi)