Tanti colpevoli, tutti colpevoli, nessun colpevole

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Questo mese il tema arriva potente come un urlo, perentorio e incazzato: «Portatemi il responsabile!». Caso vuole che negli stessi giorni la mia bolla social, non propriamente rappresentativa della maggioranza delle bolle, lo so, è occupata da questa notizia…

Dei fatti di Genova ho parlato davvero un sacco di volte. Avevo promesso a me stesso di non farlo più. L’ho detto pure su queste pagine, scusa l’autocitazione. «Sia chiaro che non rinnego nulla di quanto ho scritto sul luglio 2001. Anzi, è una parte della mia vita che rivendico. Semplicemente, parlare di Genova per me ha sempre avuto l’effetto di tormentare una ferita mai rimarginata. Penso di avere fatto quanto potevo, quanto dovevo. È giunto il momento di consegnare quella pagina alla storia, mia privata e generale, senza che questo significhi dimenticare o, peggio, chiamarsi fuori». La promessa l’ho già disattesa in molte occasioni, quella ferita è più forte delle intenzioni e non me ne dolgo. Del resto, la vita è quel che succede mentre progetti di fare altro, diceva il buon Lennon. E il nome di Filippo Ferri sbuca proprio mentre il tema mensile mi interroga, ricambiato, su come affrontarlo. La tentazione di scansarlo, tenendo fede per una volta al vecchio impegno, dura meno di un…

Passata l’insidiosa lusinga, mi trovo a un bivio. Posso dare per scontato che tu sia sufficientemente a conoscenza dei fatti del G8 del 2001, saltando ogni premessa. Oppure posso supporre che tu conosca poco o nulla di quei giorni, costringendomi a una lunga dissertazione. Faccio un mix delle due ipotesi, deludendole entrambe ma non trovo alternative migliori, e ti propongo una sintesi dei soli fatti riguardanti il nome che occupa la mia bolla.

Tavola da Quella notte alla Diaz, di Christian Mirra, Guanda 2010.

Dopo l’omicidio di Carlo Giuliani e la disastrosa gestione dell’ordine pubblico nei giorni precedenti, la notte fra il 21 e il 22 luglio 2001 è quella della perquisizione al complesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli. Il bilancio nell’immediato è di 93 persone arrestate e 62 ferite, alcune gravemente. Ma fermiamoci agli arrestati. Tutti e tutte vengono prosciolti in fase istruttoria nel maggio 2003 dalle accuse a loro carico: associazione a delinquere finalizzata a devastazione e saccheggio e resistenza aggravata.

Le udienze preliminari contro i poliziotti si aprono invece il 26 giugno 2004. Il 13 dicembre il Giudice dell’Udienza Preliminare rinvia a giudizio i 29 indagati, alcuni per l’irruzione alla Scuola Pascoli, durante il G8 sede del Media Center, per tutti i capi di imputazione. Si va dall’abuso di ufficio ai reati di falso e calunnia (in relazione al falso ritrovamento di due bottiglie molotov, raccolte in corso Italia e trasferite nella notte nell’edificio scolastico, per usarle come prova a carico dei manifestanti) fino alle lesioni personali. I 93 arrestati alla Diaz si presentano come parti offese nel procedimento. Tra le parti civili sono ammessi anche il Genoa Social Forum, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, l’Associazione Giuristi Democratici di Genova.

Sulla «perquisizione» al complesso scolastico la sentenza di primo grado viene emessa il 13 novembre 2008. Di fatto condanna, a pene miti e destinate alla prescrizione, la bassa manovalanza, lasciando impuniti i vertici operativi. Il verdetto d’appello rivede radicalmente il primo giudizio, coinvolgendo nelle condanne l’intera catena di comando, dall’irruzione alla redazione dei verbali d’arresto, condanne a cui viene aggiunta l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Il 5 luglio 2012 la Cassazione conferma la sentenza.

Sul processo Diaz, così come sugli altri procedimenti sui fatti di Genova, consiglio L’eclisse della democrazia di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci (Feltrinelli, 2021). Una ricostruzione dell’atto di accusa formulato dai PM a carico dei funzionari imputati per la perquisizione la trovi in Scuola Diaz: vergogna di stato, curato da me assieme a Checchino Antonini e Dario Rossi (edizioni Alegre, 2009).

Ora possiamo tornare a Filippo Ferri.

Figlio di Enrico, ministro in anni lontani e segretario di un partito da tempo inghiottito dalla sabbia del tempo (il suo acronimo, PSDI, non ti dirà nulla) nel 2001 Filippo Ferri è capo della squadra mobile di La Spezia. Oggi è ricordato come uno dei condannati per la faccenda della Diaz, NON per le violenze (è bene precisarlo, si fa sempre confusione su questo punto) ma per falso e calunnia. Molti quotidiani hanno citato la sentenza e da buon Tradrittore non posso evitare di fare altrettanto. Sottolineando che ai condannati viene contestata…

«… … l’odiosità del comportamento di chi, in posizione di comando a diversi livelli come i funzionari, una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola … avevano scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze, funzionali a sostenere così gravi accuse…»

La pena per Ferri è di tre anni e otto mesi, con l’aggiunta di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Ma non pensare che il condannato, fino alla recente nomina su cui mi soffermo fra poco, sia stato ridotto nel frattempo a vendere collanine sulla spiaggia per sbarcare il lunario. È stato assunto dal Milan come addetto alla sicurezza e, sembra, come tutor di Mario Balotelli. Discreta gatta da pelare, penso possa essere considerata «pena accessoria», non lo invidio.

Nessuno scandalo, beninteso. Il Milan è una società privata e può assumere chi gli pare, liberissimo di farlo, io manco sono milanista, figurati. Successivamente è stato dirigente della polizia ferroviaria lombarda. Dai primi di giugno dovrebbe diventare (condizionale d’obbligo viste le polemiche conseguenti l’ufficializzazione dell’incarico) questore di Monza, massima autorità di pubblica sicurezza nell’area.

E qui torniamo all’inizio, alla miccia che accende la mia bolla e riaccende la luce («di lampadina fioca, quella da trenta candele»: è passato quasi un quarto di secolo, sai?) sui fatti di Genova del 2001. E partono le doglianze di chi ritiene offensiva la nomina. Dico «offensiva» e non «ingiusta», perché chi ha scontato la condanna riacquista i propri diritti, secondo il principio della natura rieducativa e riabilitativa della pena. In realtà la Corte europea per i diritti umani ha più volte osservato che se un agente di polizia viene imputato per maltrattamenti dovrebbe essere sospeso nell’attesa del giudizio (da noi mai, o quasi mai, successo) e, in caso di condanna, RIMOSSO, impedendo quindi un reintegro. Un gesto ordinario quanto impossibile da noi, dove l’ansia repressiva produce cose come il recente «decreto sicurezza».

Diamo dunque per normale la nomina di Ferri. E qui scatta il…

Un «però» importante, direi. Ma davero davero è opportuno che chi è stato condannato per (cito ancora la sentenza) «Una condotta che aveva gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero» si veda affidata la sicurezza di una città? Davvero non si capisce quanto questo dimostri il disprezzo verso le sentenze emesse per i fatti di Genova, dopo anni di battaglie per ottenerle?

E, pensa, quello su cui vorrei soffermarmi con te è qualcosa di persino più inquietante. Te l’ho detto, prendiamo pure come normale, per quanto tristissimo e inopportuno, il reintegro di un condannato in funzioni di pubblica sicurezza. Anormale è dimenticare che la cultura dell’impunità per le forze dell’ordine parte da lontano.

Da subito, con il governo in carica dal 2001 al 2006 così come con quelli seguenti, sono state riservate nomine di altissimo livello a dirigenti o funzionari inquisiti (alcuni successivamente condannati) per i fatti di Genova o che comunque seguirono la gestione dell’ordine pubblico in quelle giornate. Nomine o promozioni che negli anni hanno dimostrato la totale mancanza di quella valutazione critica dell’operato delle forze dell’ordine che sarebbe stata necessaria fin dai giorni immediatamente successivi al G8 del 2001.

Il punto è che in un paese civile…

[DISCLAIMER. Mi viene l’orticaria ogni volta che sento «in un paese civile» o «in un paese normale» si farebbe così o cosà. Poi lo cerchi, il paese in cui si è fatto così o cosà e non lo trovi. Il concetto stesso di civiltà e normalità è scivoloso e sopravvalutato. Già Blaise Pascal denunciava come la forza possa sostituirsi al diritto: «Non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto». Meglio dunque che io dica «In un paese che sappia fare tesoro dell’aforisma di Pascal, in cui logica e ragione, e non i rapporti di forza, siano alla base del vivere comune». FINE DISCLAIMER]

In un paese civile, e hai capito cosa intendo, dopo quanto successo il 20 e il 21 luglio 2001 i vertici delle forze dell’ordine sarebbero saltati come tappi di spumante il giorno dopo. E il mantra «Attendiamo gli esiti della magistratura» lascialo perdere, che un conto è il garantismo, un conto è l’essere draconiani, e ben altra faccenda è rifiutare di capire che l’accertamento delle responsabilità penali e personali è cosa diversa dalle misure da attuare amministrativamente per rimediare a quella che Amnesty International definì «La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

Tu pensa solo a questo signore…

Gianni De Gennaro, all’epoca capo della polizia, a malapena è stato sfiorato dalle indagini penali (indagato per induzione alla falsa testimonianza dell’ex questore di Genova, Francesco Colucci, è stato poi assolto). I fatti di Genova hanno prodotto il paradosso di lasciare intatta la carriera dell’uomo che, indipendentemente dall’assenza di addebiti penali, era la massima autorità in materia di pubblica sicurezza. In un elenco veloce e non necessariamente cronologico De Gennaro è diventato direttore del dipartimento informazioni per la sicurezza, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania e, fino a pochi anni fa, presidente di Finmeccanica, da qualche anno nota come Leonardo Spa. Una bella carriera, direi. Il luglio 2001 non gli ha sporcato il curriculum.

In un paese civile (aridaje) sarebbero stati adottati provvedimenti tesi davvero a non far ripetere più quanto accaduto a Genova. Per citarne alcuni:

  • la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell’ordine;
  • il varo di una legge che preveda il reato di tortura (lo so, adesso esiste, poi ci torno…);
  • l’istituzione di un organismo «terzo» che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
  • l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
  • l’impegno alla esclusione dell’utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l’impegno circa una moratoria nell’utilizzo dei GAS CS.

Al contrario, Genova ha testimoniato l’accentuarsi delle chiusure corporative. Le forze dell’ordine hanno addirittura ingaggiato un braccio di ferro con la magistratura. Le sentenze su Diaz e Bolzaneto (il fatto più grave e irrimediabile, l’omicidio di Carlo, non è neppure arrivato in un’aula di tribunale) sono giunte nonostante molti ostacoli posti lungo il corso della giustizia, sul piano pratico come su quello simbolico e politico. E l’atteggiamento autoassolutorio e di scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine è stato stigmatizzato dalla magistratura in tutti i gradi di giudizio. Inutile aggiungere che la politica ci ha messo del suo per supportare queste azioni. E l’ha fatto da subito, il «pacchetto sicurezza» non spunta dal nulla.

La vita è bastarda e intreccia coincidenze di date. Giusto un anno fa, il 20 giugno mi arriva un messaggio di Paolo (ne faccio solo il nome, non so se vuole essere menzionato; lui scampò la Diaz, fu arrestato il 20 luglio e incarcerato a Pavia): «Arnaldo non è più con noi». Mi aveva anticipato che stava male, ma per me era immortale. Sta parlando di questo signore.

Arnaldo Cestaro è stato uno dei volti-simbolo della «macelleria messicana». Credo fosse il più anziano a voler passare la notte alla Diaz. Sicuramente a 62 anni era il più anziano fra i feriti (fratture a gamba braccio e costole, oltre a lesioni permanenti) e fra gli arrestati. Perché, già detto ma è bene ripeterlo, in un primo tempo le vittime dell’irruzione furono messe sotto accusa, come dicevo nel paragrafo sulle vicende processuali. E il buon Arnaldo consideriamolo pure una sorta di surreale mente grigia del black bloc! Una cosa che adesso fa sorridere. Una semplice persona di buon senso si sarebbe domandata quello che, già nel processo di primo grado, scrisse il giudice: «Quale resistenza attiva e violenta avrebbe potuto porre in essere per costringere gli operatori a reagire, provocandogli la frattura dell’ulna e del perone?».

Era un uomo orgoglioso della propria militanza politica. In Rifondazione, nel movimento No Tav o in quello pacifista. Dotato di una vitalità e di una simpatia disarmante, fino a quando la salute lo ha sostenuto non è mai mancato a una sola occasione in cui, negli anni successivi, ci si trovava a luglio per ricordare i fatti del 2001. Mi salutava con quell’energico idioma, miscuglio di italiano e dialetto veneto, sempre gentile e sorridente. Davvero, lo ritenevo immortale.

Arnaldo presentò un ricorso alla Corte europea di Strasburgo, imperniato sull’assenza nella nostra legislazione del reato di tortura. Nel 2015, la Corte condannò lo Stato Italiano a risarcire Cestaro per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo («Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti») stabilendo che l’operato della polizia «deve essere qualificato come tortura». La sentenza ebbe conseguenze analoghe per altre vittime, anch’esse risarcite.

In parte proprio grazie a quella sentenza si è arrivati all’inserimento nel codice penale del reato di tortura, dopo anni in cui tutti i nostri governi avevano fatto spallucce. Purtroppo il reato è stato introdotto come fattispecie generica, ossia eludendo lo spirito della normativa internazionale, che vorrebbe individuarlo come specifico sopruso commesso da funzionari dello Stato. Però quella di Arnaldo resta una vittoria storica. A me fa sorridere di tenerezza pensare che tutto sia nato da un procedimento noto come «Cestaro Vs. Italy».

Non so cosa avrebbe detto Arnaldo della nomina di Ferri a questore di Monza, incontrandomi a luglio come sempre in Piazza Alimonda. Forse avrebbe commentato davvero «Tanti colpevoli, tutti colpevoli, nessun colpevole», mescolando italiano e vicentino, regalandomi un sorriso e suggerendomi il titolo di questo articolo, dedicato alla sua memoria.

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