1. Dove ti racconto perché per nove anni ho odiato Paname e come alla fine ci ho fatto pace. Ma anche dove ti dico di un fumetto che dovresti leggere e della mostra che la Bnf ha dedicato al suo autore.
Il 13 agosto del 2015 pubblicavo, sulle colonne del blog che avevo allora, “Bistrot Babeuf”, questo post:
«Lo spirito più forte tra tutti gli animali ce l’hanno i lupi. Subito dopo vengono i cani. E non dicano niente gli umani che dividono la vita con i gatti. Non c’è proprio storia. Lo spirito di ogni cane segue per sempre le persone con cui ha diviso la strada della propria esistenza. Invidio a chi non ha mai avuto un cane l’ignoranza di quel dolore (che spezza le vene) che causa la scomparsa del proprio compagno a quattro zampe. Non la morte, quella è un fatto biologico cui siamo destinati tutti, ma l’assenza che resta. All’inizio intollerabile. Tollerabile solo dopo, quando vedi (e devi guardare forte, nelle notti più chiare) la presenza dello spirito del tuo cane al tuo fianco.
Il 12 agosto Mirtilla ha deciso di restare per sempre a Paname. Ho uno spirito in più che mi protegge, lo so, ma non riesco a far smettere questo maledetto dolore e non riesco a smettere di piangere.
Brindo con il vino migliore che ho trovato alla mia splendida setter irlandese che ha condiviso con la nostra famiglia zingara 11 intensi e meravigliosi anni.
Non ti dimenticheremo mai piccola!»

Mi perdoneranno tutte le persone che condividono lo stesso affetto per un gatto. Non so se la penso davvero quella cosa, non credo. Ma stavo male e poi a me dei gatti non mi frega niente, non ti camminano di fianco per i boulevard, e poi mi ci sono voluti dieci anni per anestetizzare quel dolore, e poi non è nemmeno vero che l’ho anestetizzato: mentre scrivo sul treno che mi sta riportando a Milano e ripenso ai quattro giorni che ho appena passato su e giù per rue de Tolbiac percependo lo spirito guida di Mirtilla che mi balzellava attorno, mi sento gli occhi lucidi… scusami, so che tu questo – in fondo giustamente – lo trovi sentimentalismo d’accatto e probabilmente ti annoia, ma io non ci posso fare niente. Se non, appunto, chiederti scusa.
Comunque. Adesso lo sai, perché per nove anni non sono più riuscito a tornare nella città in cui andavo per almeno due volte ogni anno. Finalmente, l’anno scorso, con la scusa della più completa, a loro dire, mostra sulla storia dei fumetti mai realizzata e allestita al Beaubourg, mi sono obbligato a tornarci. È stato uno sforzo, ma è andata bene. Tanto che adesso considero il 2024 come l’anno zero del mio ritorno a Parigi. Quest’anno ho deciso di rifarlo, e di considerarlo come l’anno 01. Non avevo scuse valide come quella mostra epocale, allora me ne sono trovata una che potesse andare, e poi sono diventate due, e poi tre: la mostra che la Bnf ha dedicato a Gébé, quella che il Musée Maillol ha dedicato a Robert Doisneau e quella che il MEP ha dedicato a Marie-Laure De Decker. C’era anche quella sull’Art Brut al Grand Palais, ma non me ne fregava niente (come a te dei miei occhi lucidi), l’unico brut che mi entusiasma è l’extra!
A parte gli scherzi e gli occhi lucidi, posso dire di avere fatto definitivamente pace con Paname. Per questo, adesso, qua sul Frecciarossa che mi riporta a casa, sto buttando giù un riassunto della mia deriva debordiana per le strade di Pantin (ognuno ha i suoi vezzi, a me piace chiamarla Paname, a Victor Hugo piaceva chiamarla Pantin e allora, ogni tanto, la chiamo anch’io così), ti potesse magari interessare fare un salto a vederle quelle mostre (Gébé e Doisneau durano fino a ottobre, Decker finisce a settembre, direi che hai ancora abbastanza tempo per organizzarti) ma soprattutto ti andasse di passare almeno un week-end in quello che è il mio arrondissement parigino d’adozione: il XIII. Non ti interessasse, giustamente, nulla di tutto questo, c’è un sacco di altri articoli bellissimi tra cui scegliere su (Quasi).
Sono sempre solidale con gli scioperi. Non nego però, che quello di venerdì 20 giugno 2025 mi ha messo di fronte ad alcune mie contraddizioni. Sono un sostenitore a oltranza dei diritti dei lavoratori (soprattutto di quello di lavorare il meno possibile), ma quando quei diritti intralciano i mei (tipo quello di andare dove voglio quando voglio) mi girano un po’ i coglioni. Ammetto quindi che il fatto che, il Frecciarossa delle 6.20 da Milano Centrale per Paris Gare de Lyon, non fosse tra i treni garantiti (mentre c’erano almeno due treni garantiti per Lecce!) una salva di imprecazioni contro gli scioperanti me l’ha fatta tirare. Ma poi passa. La mia parte illuminista e razionale ha sempre la meglio su quella umorale ed egoista. Davanti alle ragioni di chi sciopera, tutte quelle degli altri e le mie in particolare, passano in secondo piano. Questo disagio – per parafrasare Zerocalcare – non mi renderà cattivo. Quindi: viva lo sciopero!

A Parigi però io voglio arrivarci. Per effetto della legge 146/1990 (non l’ho letta e non ne so i motivi, mi interessavano gli effetti) anche in caso di sciopero tutti i voli schedulati nella fascia oraria tra le 7.00 e le 10.00 sono sostanzialmente garantiti. Non ci penso due volte. Faccio il biglietto del primo volo per Orly e alle 8.15 di venerdì 20 giugno sono già sulla M14 quella che collega l’aeroporto a Saint Denis. Comme d’habitude (un’habitude ripresa esattamente da un anno), scendo alla Bibliothèque Nationale François Mitterand. Lascio il bagaglio al mio hotel (mi daranno la stanza dopo le 15.00, quindi ci vediamo stanotte) e per prima cosa, (sono circa le 9.00, ha aperto da mezz’ora) vado a bermi un caffè lungo al bar della bibliothéque. Poi mi godo con la lentezza di chi ha tutto il tempo che gli serve (non so a te, ma a me non capita spesso… devo ritagliarmeli su misura questi momenti) la mostra dedicata a «un génie du dessin de presse». Dessinateur de presse in francese, a seconda del contesto, ha almeno tre possibili significati: disegnatore, vignettista e fumettista. Beh! Georges Blondeaux, conosciuto come GéBé, li è stati tutti e tre. La mostra in 16 pannelli allestita nel corridoio principale della biblioteca nazionale, quello che porta a tutte le sale di consultazione, fino a quella di ricerca e dalla quale tutti devono passare (certo, mi tornano in mente quelli là che avevano il chiostro di Brera e ci hanno allestito un servizio arretrati, ma non ho voglia più di incazzarmi) questi tre stadi della sua produzione li racconta tutti. Dagli inizi come disegnatore progettista per la SNCF (le ferrovie francesi), dove viene assunto nel 1947 dopo essersi diplomato presso quello che possiamo considerare come il corrispettivo del nostro istituto tecnico per geometri; passando per il momento in cui, ventiseienne, molla la noia del posto fisso per iniziare una carriera da vignettista umoristico prima (per la rivista delle stesse ferrovie, “La Vie du rail”, ma anche e soprattutto per “Paris-Match”, “Radar” e “Bizarre”) e satirico poi (quando nel 1960 incontra la banda di “Hara-Kiri” entrando a farne parte in pianta stabile dal numero 3 e diventando il redattore capo di “Charlie Hebdo” quando la testata sostituirà quella di “Hara-Kiri hebdo” morta per censura, ma anche nell’ultima parte della sua vita, tra gli anni Ottanta e i Novanta, quando collabora a “L’idiot international”, a “La Grosse Bertha” diretta da Cabu e al rinato “Charlie Hebdo”); per focalizzarsi sul periodo centrale della sua vita, quando tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, si dedica a un tipo di narrazione più articolato e disteso (approdando a “Pilote” ma soprattutto realizzando quell’unicum imprescindibile che è L’An 01 su almeno tre testate, cominciando da “Politique Hebdo”).

Percorrendo con lentezza i pannelli esposti, risulta evidente come il suo segno, inizialmente ispirato ad autori come Maurice Henry, Chaval, Alfons Mucha (disegnatori a cui in quel periodo guardano tutti, persino Fred, o il François Cavanna che si firma Sepia, almeno finché metterà da parte ogni velleità grafica), assuma una precisa personalità proprio a partire da quando comincia a fare fumetti.

Prima di arrivare alla fine della mostra, fermiamoci qui, un attimo. Vorrei dirti due cose su un’opera così fondamentale della storia del fumetto e così ignorata (come d’altra parte il suo autore, non mi risulta infatti– a parte qualcosa pubblicata sul numero di “Linus” del agosto 1968 – ci sia niente di suo pubblicato in italiano) in Italia.

Il 7 giugno 1971 sul numero 29 di “Charlie Hebdo”, Gébé pubblica questa pagina.

È l’invito ai lettori del settimanale di mandargli le loro idee per costruire un film insieme, quello che sarà (sull’idea programmatica che ti dico tra un attimo) «l’ultimo spettacolo a pagamento degli anni Settanta». L’idea era nata l’anno prima sulle pagine di “Politique Hebdo” e poi ripresa, qualche mese dopo su “Charlie Mensuel”. Ma è da questo momento che il progetto a fumetti più situazionista mai pensato, comincia ad avere una vera prospettiva di realizzazione. L’idea è semplicissima e al contempo complessa. Immaginati che l’umanità abbia deciso di comune utopico accordo di abbandonare l’economia di mercato e di fermare tutto. Non sarà la fine del mondo, anzi sarà un nuovo inizio, l’anno uno. Come vedi si tratta di un anarchismo ingenuo e gentile (Gébé era un anarchico gentile). Roba che a noi anarchici cinici e maleducati ci fa sorridere. Quello che è veramente rivoluzionario però non l’idea politica che ne sta alla base, ma è come Gébé realizza la costruzione di questa storia. Mette insieme una squadra: Jaques Doillon (l’uomo che dal 1980 sarà il compagno di Jane Birkin e dal 1982 il padre di Lou Doillon– ti do un consiglio spassionato, recupera i suoi dischi!) alla regia, con la collaborazione di Alain Resnais e Jean Rouch; come attori Gérard Depardieu alla sua prima interpretazione assoluta, Miou-Miou, Coluche e tutta la redazione di “Charlie Hebdo”, con la partecipazione straordinaria di Gotlib. Il finanziamento è ridicolo ma se lo fanno bastare. Il film viene scritto da Gébè e dai lettori della rivista attraverso le loro lettere di settimana in settimana. Ogni settimana, seguendo le indicazioni dei lettori, Gébè realizza uno storyboard, pubblicato sulla rivista, e poi la troupe gira la sequenza progettata. Per quasi due anni girano la Francia per completare il film. Nel 1973, a settembre, il film esce nelle sale. A Parigi resta in programmazione per 17 settimane. Nei primi giorni incassa 500.000 nuovi franchi. Uno sacco di soldi rispetto ai 17 milioni di vecchi franchi che era costato.
(puoi vederlo qui)
Sulla scia del successo del film anche la raccolta delle tavole di Gébé, uscita a marzo per le Éditions du Square, va esaurita.
Sei anni prima che Jean-François Lyotard teorizzasse, nel suo La condizione postmoderna, che ogni narrazione è il prodotto di una collaborazione di saperi, nella cui gerarchia quello del lettore/spettatore non è certo l’ultimo, Gébé dimostrava quella teoria con un atto pratico la cui prassi era durata due anni.
Non voglio sostenere sia un motivo valido per venire a Parigi a vederti la mostra (al limite può essere una valida scusa), ma è valido almeno, se mastichi il francese, per leggerti il volume.

Esco dalla Bibliothèque Nationale che è ancora presto. Posso andare a pranzare in boulevard Saint-Germain in un bistrot defilato, alla fine del viale, quasi arrivati alla Senna, che mi piace molto e in cui non incontri turisti. Prima riesco anche a passare in rue Serpente, dove c’è una libreria di fumetti su due piani che sembra un solaio, ma dove trovi assolutamente tutto: Aaapoum Bapoum.

Tra le altre mille cose, prendo Chacal Hebdo (alle volte Amazon non funziona – non capisco perché continuava a rimandarmene l’invio al punto che ho dovuto annullare l’ordine e venire a Parigi a comprarlo – scherzo: a Parigi ci venivo lo stesso) il volume che Dominique Ziegler e Alex Baladi hanno dedicato alla storia della seconda vita di “Charlie Hebdo”, quello diretto dal controverso Philippe Val. Sono dubbioso, ma la loro sfida mi piace. Decido che stasera, dopocena, me lo leggo.
(1 di 3 – continua)
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.