Cent’anni di salamitudine

Paolo Interdonato | QUASI |
Disegno di Tonio Vinci

Pare strano dirlo ora, ma per chi, come me, è nato alla fine degli anni Sessanta, leggere fumetti durante l’infanzia era la normalità. Durante gli anni Settanta, li trovavamo dappertutto: li scambiavamo con i compagni di classe, li rubavamo agli zii che li lasciavano incustoditi, fiorivano rigogliosi nelle numerose edicole straripanti carta che si trovavano più o meno ovunque, ce li portavano a casa i genitori… Molto spesso erano brutti (esattamente come oggi, non credere mai ai collezionisti nostalgici con gli occhi luccicanti), qualche volta capitava il miracolo.

Ho incontrato per la prima volta Jacovitti nel 1977: ero in quarta elementare. Certo, negli anni precedenti, qualche volta avevo visto il “Diario Vitt”, tra le mani paffute di compagnucci ciccioni (non lo erano, ma la recente censura – operata da Netflix e da una masnada di eredi immeritevoli – ai danni di Roald Dahl mi induce a definirli così), ma c’era qualcosa di strano in quelle pagine stampate che ti invitavano a scriverci sopra. Forse, addirittura, peccaminoso. Non ero riuscito a godere di quei fumetti. Poi, nel 1977, non ricordo per quale occasione, mi è stato regalato Jacovitti Show, un cofanetto contenente tre Oscar Mondadori. Su quelle pagine ho conosciuto i tre P, L’arcipoliziotto Cip, Zagar, la signora Carlomagno, Jack Mandolino… Ho conosciuto quel segno preciso, pieno, capace di disegnare corpi elastici e flessibili, quelle situazioni paradossali, quelle prospettive che raccolgono cubi di omini disposti con cura, quei quadretti fittissimi di personaggi, animali e oggetti, quel lettering bellissimo, quelle onomatopee assurde e divertentissime («SCHIAFFO»), quell’insistente presenza di salami e serpenti, … Da quel momento, Jacovitti è diventato una presenza costante nelle mie letture.

Quasi come Dumas… Ventun anni dopo, nel 1998, all’inizio di maggio sono a Cremona per una manifestazione. Si chiama, apoditticamente, “Nuvole a Cremona”. Di quell’occasione ricordo Aleksandar Zograf, accompagnato da Gordana Basta, e la sua mostra di originali disegnati sul retro di locandine e poster, Stefano Ricci e Giovanna Anceschi che presentano “Mano” (il terzo numero, mi pare), Massimiliano De Giovanni che disquisisce di adolescenza a proposito del progetto di Kappa edizioni, e una mostra di originali di Jacovitti di cui ricordo solo che lo spazio era poco luminoso e c’era la sponsorizzazione dei salami Negroni.

Altro salto… Undici anni dopo, in ritardo rispetto ai festeggiamenti per un secolo di “Corriere dei Piccoli”, la Fondazione “Corriere della Sera” organizza a Milano, presso la Rotonda della Besana, una mostra dal titolo Corriere dei Piccoli: Storie, fumetto e illustrazione per ragazzi. Di quella mostra ricordo gli originali di Grazia Nidasio, le pagine colorate sul retro, per dare indicazioni ai tipografi, e quasi nient’altro. Sono sicuro che mi avrebbe molto deluso, se non mi fossi imbattuto in uno spettacolo meraviglioso. In una stanza ben illuminata, appoggiato su un tavolo, c’è, protetto da una lastra di plexiglass, l’originale – enorme – di un gioco dell’oca firmato Jacovitti.

L’oca che dà il nome al famigerato gioco è, con ogni evidenza, il giocatore: non gli viene richiesta alcuna competenza oltre al saper contare fino a sei. Tira un dato e avanza progressivamente, in una spirale o in un serpentone, da una casella iniziale, posta normalmente in basso a destra, fino a un punto d’arrivo, in alto a destra (nel caso del serpentone) o al centro (se si è mosso su una spirale). Nessuna abilità: solo fortuna. Nella mia personalissima esperienza, i tabelloni del gioco dell’oca sono sempre stati oggetti di poco conto. Quello di Jacovitti è maestoso: un unico disegno, privo di sbavature e correzioni, peccette o tracce di biacca, in cui tutto è disegnato con un inchiostro nero che il tempo non intacca con una precisione che lascia a bocca aperta. Quella cascata di caselle, perfettamente riquadrate e corredate da un numero che pare disegnato da uno di quei calligrafi che guardo sbavante su Instagram, presenta disegni senza interruzione. Cazzeggio e improvvisazione, senza mai sbagliare. E – guardando da vicino – si vede l’insieme di tratti minuscoli, affiancati, affastellati e intrecciati, per ottenere quell’unico segno perfetto.

Dopo quel tabellone, la mia percezione dei fumetti di Jacovitti è cambiata radicalmente. Lontanissimo da tutto quello che normalmente mi piace, trovo che il suo disegno e il suo racconto, apparentemente così istintivi e improvvisati, siano cultura e progettazione. Per anni l’ho considerato un comico sublime, capace di parodiare le forme e i generi senza paura. Da subito, mi sono lasciato stupire dal suo bestiario: un campionario di uomini, animali strani e oggetti animati. Poi ho scoperto il suo lato erotico e divertito, e ho continuato a ridere di gusto. Il fatto che mi facesse ridere da bambino (e che mi faccia ridere ancora), mi ha distratto: ho capito tardi di essere di fronte a uno sperimentatore grafico che ha la medesima potenza, e visione progettuale, di Chris Ware, ma si diverte molto di più; a un innovatore narrativo del calibro di Fred, Frank King, Gianni De Luca, Guido Crepax; a uno dei pochissimi giocolieri dei generi letterari, capace di muoversi tra western, fantascienza, poliziesco, erotismo, giallo… senza mai prendersi troppo sul serio.

Benito Jacovitti nasce a Termoli il 19 marzo 1923. Esattamente un secolo fa.
Cent’anni di salamitudine.

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