Genealogia mitica di Jacovitti

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

Lo stile di Benito Jacovitti, da quando esplode pienamente alla fine degli anni Cinquanta, sembra l’impatto di una meteora: modifica completamente la superficie dell’occhio di chi guarda.
La gommosità delle sue forme, le linee cinetiche fluide e spesse che governano dittatorialmente la lettura delle sue vignette, la miriade di oggetti e corpi che le infestano e che tappano ogni buco, fisico e geometrico, sono ancora oggi una secchiata d’acqua gelata in faccia al sonnolento ritmo omologato delle narrazioni a fumetti.
Le sue tavole non hanno bisogno di esser lette, basta guardarle. Anzi, leggendole, spesso quella secchiata d’acqua rischia di perdere la potenza dell’impatto. Ma se gli occhi si fanno agganciare dalla girandola meccanica delle forme, ecco che l’esperienza è lisergica, quasi vicina a un trip iniziatico.
Jacovitti sembra davvero un Ufo, sceso giù da chissà dove, con uno stile e una visione completamente unici, e per tracciare una labile linea di discendenza del suo lavoro occorre spingersi fino alle prime origini del fumetto.

Nel suo saggio Le origini del fumetto, Thierry Smolderen propone una tesi per cui quest’ultimo non abbia un’unica nascita all’interno di un contesto storico lineare che affastella tecniche e stili in evoluzione coatta, ma piuttosto una “rinascita” ogni qualvolta un autore ne propone una nuova interpretazione così potente da venire poi condivisa da tutti gli altri. E in effetti, come fa notare anche Boris Battaglia in un suo pezzo dedicato al libro di Smolderen, il titolo originale del saggio è Naissances de la bande dessinée, ovvero “Nascite del fumetto”, al plurale.
Due sono le principali di queste nascite che Smolderen identifica nel libro: la prima attribuita al pittore e incisore inglese William Hogarth, che opera nella prima metà del XVIII secolo, e la seconda, cento anni dopo, al disegnatore ginevrino Rodolphe Töpffer. Questi due autori rappresentano anche una dicotomia ideale all’interno della quale il fumetto da sempre si muove.
Intorno agli anni Trenta del Settecento Hogarth realizza alcune incisioni che, secondo molti, contengono in nuce un’idea di protofumetto e una possibile ispirazione per l’americano Richard Felton Outcault e il suo Hogan’s Alley/Yellow Kid, il primo fumetto commerciale della storia.
Per Smolderen, la serie di sei incisioni di Hogarth intitolate A Harlot’s Progress (La carriera di una cortigiana, 1732) e quella di otto, A Rake’s Progress (La carriera di un libertino, 1735) sono così importanti perché mettono a punto una nuova modalità di lettura.

L’occhio di chi le guarda è invitato, se non costretto, a un costante zig-zag fra i molteplici e confusionari elementi che Hogarth incide sulla tavola. Lo stesso tipo di sguardo a zig-zag, sempre in movimento fra tutti gli elementi della pagina, è quello che viene richiesto ancora oggi ai lettori di fumetto.
Però, sottolinea ancora Smolderen, le incisioni di Hogarth, sviluppate in un ambiente prefotografico e quindi avvezzo a rappresentazioni il più efficaci e simboliche possibili, includendo nei quadri solo gli elementi necessari alla narrazione, suggeriscono ai futuri fumetti il linguaggio schematico del diagramma come compromesso grafico ideale per arrivare a una rappresentazione della realtà simbolica, veloce e sintetica, pur facendolo con un tratto e uno stile profondamente descrittivi e realistici.
Altra definizione che Smolderen suggerisce relativa al lavoro di Hogarth (ma da allargare al fumetto tutto), è quella di “poligrafia”, ovvero l’uso di molteplici tecniche illustrative. Fatto salvo il fumetto seriale, le cui necessità di chiarezza immediata e costante riproducibilità hanno sempre imposto uno stile tutto sommato univoco, tutto il resto dell’universo fumetto si muove in un marasma continuo di tecniche, formati e stili differenti, in una poligrafia che fa dell’irriconoscibilità stilistica il suo punto di forza. Il fumetto è arte mutevole, indefinibile e imprendibile, costantemente mascherata e fondamentalmente caotica.
A sottolineare queste qualità, Rodolphe Töpffer aggiunge poi idealmente la stilizzazione delle forme, la caricatura, teorizzando e mettendo in atto un disegno ispirato agli “scarabocchi” della storia dell’arte (dai gargoyles delle cattedrali, alle maschere rituali delle isole del pacifico, ai graffiti rupestri).

Scrive Töpffer a tal proposito e andando a centrare pienamente una questione cruciale per il fumetto:

«Se disegnassi di fronte a te, in modo molto imperfetto, un animale con quattro arti affusolati, una pancia rotonda, una coda sottile, due orecchie lunghe, diresti, in effetti avresti già detto, è un asino; ma è già così simile all’idea che si ha di esso che immediatamente, all’istante, ricorda distintamente un vero asino.»

Un segno può essere ridotto senza limiti e più si riduce, più si avvicina all’idea del suo autore: questo sostiene Töpffer con la sua opera.
I personaggi delle sue storie, caricaturali e quindi già rappresentazioni meccaniche dell’umano, sono coinvolti in situazioni assurde e grottesche che scivolano sempre in un umorismo slapstick ante litteram, con il susseguirsi delle vignette che non fa altro che sottolineare ancor più chiaramente la meccanicità delle azioni. Töpffer mette in scena una continua azione progressiva mostrando l’umanità come una pantomima: esseri caricaturali costretti a muoversi secondo le leggi causali dell’esistenza industriale (all’epoca nel pieno della sua rivoluzione), senza più possibilità di scelta. Allo stesso tempo le situazioni assurde in cui questa umanità viene immersa, mostrano il tentativo dell’autore di scardinare il meccanismo che sta denunciando.
Hogart e Töpffer, visti in prospettiva e alla luce di ciò che è venuto dopo di loro, sembrano rappresentare due ideali strade parallele sulle quali si è mosso poi il fumetto: una realistico-razionale-avventurosa, derivante da Hogarth, e una anarco-lunatico-schizofrenica, derivante fa Töpffer.
Se agli albori del XX secolo è quella che potremmo chiamare “corrente Töpffer ” ad avere più diffusione e interpreti, con il lavoro imprendibile e geniale di Winsor McCay e George Herriman, dalla fine degli anni Venti si impone marcatamente l’altra, la “corrente Hogarth”, grazie soprattutto a tre grandi autori, Hal Foster, Alex Raymond e Milton Caniff, che realizzano a puntate sui quotidiani avventure fantastiche che monopolizzano l’attenzione dei lettori. Certo, le strip di Krazy Kat  continuano, così come le tavole di Little Nemo, ma sono Tarzan e Flash Gordon prima e Terry e i pirati poi, a imporsi nettamente sul mercato.

Il fumetto, dal punto di vista dell’invenzione formale e delle svisate stilistiche e concettuali, nelle pagine di Foster e Raymond sembra quasi subire un’involuzione, andandosi a cristallizzare nella forma narrativa più classica del “semplice” raccontare una storia, mentre la critica sociale, il guizzo immaginativo, la follia malinconica e turbinante lasciano il posto ai mondi fantastici ma realistici derivati dal romanzo d’appendice ottocentesco. Fra le pagine di Caniff invece il piglio romanzesco si fonde pienamente con la narrazione cinematografica, in un’operazione di grande modernità e bellezza che però in certo modo contribuisce anche a una normalizzazione e a un depotenziamento del fumetto, presentandolo in definitiva come una “copia povera” del cinema.
La grande qualità di queste e altre storie e l’efficacia e bravura di alcuni autori, capaci di catturare pienamente l’attenzione e l’immaginario dei lettori – da Floyd Gottfredson e Carl Barks fino ad alcune vette del fumetto supereroistico – ha fatto sì che da lì in poi la forma realistico-narrativa sia stata la più usata dai fumettisti e la più seguita dal pubblico.
La via di Töpffer, pur se minoritaria, non è stata però abbandonata e ha continuato a fiorire. Lo ha fatto in America con una serie di autori come Robert Crumb e Basil Wolverton che avrebbero dato il via al movimento underground, riconciliando idealmente Töpffer con Hogarth, e ancor prima l’ha fatto in Italia con alcuni autori del primo Corriere dei piccoli fino, appunto, a Benito Jacovitti.
Come un setaccio – istintivo o meno non importa – il fumetto di Jacovitti ha raccolto tutto quel che i decenni hanno sedimentato sulla strada anarchica, sognante e schizofrenica tracciata dalle histories di Töpffer, andandolo a far esplodere sulla tavola come un meteorite e in faccia a noi come una secchiata d’acqua gelata.

Se i padri di Jacovitti sono così lontani e rarefatti, i figli lo sono attualmente ancor di più (se si esclude ovviamente l’allievo di bottega Luca Salvagno).
Gli unici fumettisti la cui follia plastica delle forme, dei personaggi come della tavola, sembra prendere dallo stesso calderone immaginifico e il cui stile è abbastanza isolato da assomigliargli per estremismo, sono forse, anni addietro, il grande Massimo Mattioli e oggi Hurricane Ivan.

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