Heaven Is A Place On Earth (2)

Mabel Morri | Play du jour |

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A Monaco di Baviera la giornata è nuvolosa e grigia. Non minaccia pioggia, è la classica giornata che ci si aspetta dal nord Europa, o almeno dall’Europa oltre le Alpi: temperature secche e miti, le cui massime difficilmente superano i 25 gradi.
L’Olympiastadion, così all’epoca si chiamava lo stadio di Monaco, è una culla ricavata dentro una collina: per arrivarci c’è un lungo viale che porta poi alle varie entrate. In quello stadio non vedrò dal vivo questa finale, ma un’altra, l’ultima di van Basten giocatore. È  uno stadio moderno e bellissimo, sa di Europa e di grandi partite, coperto per gran parte da una struttura di vetro e ferro che sembra gonfiata come una mongolfiera. Una cosa nuova, per noi italiani abituati agli stadi all’aperto, e alla sofferenza di seguire la propria squadra, anche sotto l’acqua e il vento. È una zona completamente riqualificata di Monaco, una delle prime in cui non ci si è limitati alla ristrutturazione dello stadio, ma si è ridisegnato architettonicamente l’intero quartiere: ha un laghetto artificiale a fianco, ha parcheggi ampi, ha queste lingue di asfalto in mezzo al verde dei giardini. È accessibile, la gente la vive come un parco e il comune organizza eventi vari. Quando, un lustro dopo, percorrerò quelle stradine, vedrò tutto questo, alzerò gli occhi al cielo e vedrò la copertura di vetro e ferro, vedrò anche la quadratura tedesca, non una cartaccia in terra, niente pozzanghere e crepe nelle stradine, nulla fuori posto. Quasi irritante.

Ho di nuovo 44 anni.
Non ho più il ghiacciolo all’arancia in mano, e mi rinfresco con una birra. L’atmosfera che mi serve per il fumetto nuovo è quella della partita. Non ho previsto di mostrarla, ma non si sa mai.
Ho di nuovo 44 anni e il quotidiano è fatto di partite con giocatori che sono atleti completi, dai muscoli gonfi e massicci. Scopro che mi mancano terribilmente le treccine di Gullit, la sua falcata fluida, l’esplosività della sua corsa, la sua danza di finte e scatti prima di decidere se verticalizzare o passare lateralmente il pallone.
Quando inquadrano van Basten mi commuovo. Indossa il numero 12, è giovanissimo, sono tutti giovani e con i fisici dei giocatori dell’epoca, filiformi e asciutti, tanto che sono i fisici alla Maradona spesso a stonare.
Me lo godo nelle inquadrature, mi riempio gli occhi del suo modo di correre, le mani mai del tutto a pugno, il modo in cui si volta per osservare il difensore, il modo in cui dribbla trascinando la gamba e il pallone, il modo in cui si oppone al portiere nel lancio lungo, alzando la gamba fino a somigliare a una gru. È lo stesso con cui mi misuravo anche io quando giocavo, ne assorbivo ogni movimento, provavo a rifarlo fino a quando non era come il suo, come il saltello prima di un calcio di rigore. Ha un cerotto sul sopracciglio sinistro ed è concentrato. Ha tutta la vita davanti. La sua carriera esplode in quell’Europeo e, se fosse una sceneggiatura, potremmo definirla “circolare”, inizia come finisce: praticamente con la stessa partita tra Olanda e U.R.S.S.
Quella d’esordio finisce 1 – 0 per i sovietici (li si chiamava così, era uso comune chiamarli così, c’era l’Unione Sovietica e chiamarli russi era come diminuirli).
In quell’esordio van Basten è in panchina, proviene da una stagione nella quale è stato più infortunato che altro, ma Rinus Michels, allenatore delle finali ai Mondiali del 1974 e del 1978, allenatore che ha inventato il “calcio totale” («Veramente è un termine che avete inventato voi», disse un giorno a un giornalista, perché per lui era solo un’idea di calcio da infondere nella testa dei giocatori), dopo averlo lasciato in panchina per tre quarti di quella partita, finalmente lo fa entrare. Non lo toglierà più.
Van Basten e quell’Olanda regalano spettacolo, i tifosi milanisti gongolano e le reti del Cigno di Utrecht trascinano gli olandesi in finale.
La bella Nazionale di Vicini si infrange nella pioggia battente e nelle occasioni sbagliate di Vialli contro il macchinoso muro sovietico. È la semifinale e perdono 2 – 0. L’U.R.S.S. però ne esce sfibrata mentalmente e fisicamente, con uomini ammoniti e infortunati che salteranno la finale.
L’altra semifinale, contro la Germania, la vincono gli Oranje: partita non facile, carica anch’essa di significati che trascendono il rettangolo di gioco, e di situazioni di guerra mai del tutto dimenticate, come l’onta dell’invasione nazista e i successivi furti di biciclette da parte dei tedeschi.

Ho di nuovo 44 anni. Sarà per i filmati negli anni, sarà forse l’amore per quei momenti che me la resero indimenticabile, quella finale la so a memoria. Quando i difensori sovietici ribattono fuori dall’area un cross olandese che finisce sui piedi del numero 7 Vanenburg, (il Donadoni oranje), mentre Gullit danza avanti e indietro a centro area, anticipo Pizzul e bisbiglio “Eccolo”: Vanenburg crossa, van Basten migliora e Gullit sempre di testa supera Dasaev.
È 1 – 0 per l’Olanda.
La voce di Pizzul è una musica dolce che nel suo “Tutto molto bello” porta con sé ricordi e sapore di Big Babol.
Quando l’U.R.S.S. nel secondo tempo, prende un palo e sbaglia un rigore con cui avrebbe accorciato la distanza, van Basten ha già segnato l’arcobaleno che lo consacrerà nella leggenda. Diventerà un modo di dire, lo è ancora oggi: con gol alla van Basten si intende sempre e solo questo arcobaleno.
Persino Pizzul è evidentemente sorpreso mentre annuncia la rete del 2 – 0, raccontando quell’incredibile gesto tecnico. Un passaggio di van Tiggelen a Mueren, che avanza sulla sinistra e decide un traversone troppo lungo. Non è l’ideale per un colpo di testa e nemmeno per una rovesciata, è a metà strada da tutto, tanto che Dasaev calcola l’uscita, salvo poi fare due passi indietro, ma è un tiro buono per quello che farà van Basten: coordinarsi, calciare di destro al volo un tiro né forte né debole ma preciso, nell’altro lato della porta dove Dasaev non riuscirà mai ad arrivare.
Il braccio destro alzato per festeggiare la rete diventerà talmente comune che sarà anche il mio: un codice che i tifosi milanisti daranno per scontato, e sarà lo stesso con cui, vestito di una camicia rosa e una giacca di renna, saluterà il pubblico nel suo addio al calcio nell’agosto del 1995 dopo due anni di tentativi per tornare in forma in seguito all’ennesima operazione alla caviglia.
Ma in questo momento van Basten è ancora attorniato dai compagni, sorride, incredulo lui stesso del suo gesto. Adesso è impossibile pensare che, dopo questo felice pomeriggio di luglio, gli resteranno appena altri cinque anni di carriera. Sembra impossibile pensare che nel maggio del 1993, un lustro dopo, io sarò in quello stesso stadio a vedere Olympique Marsiglia – Milan, e che van Basten giocherà la sua ultima finale.
Ora siamo all’ottantanovesimo minuto e Pizzul annuncia l’Olanda Campione d’Europa.
Le immagini scorrono sui festeggiamenti degli olandesi e sulla sfilata delle medaglie. Attimi di felicità e rilassatezza.
Ne assaporo ogni fotogramma: conosco tutto quel mondo, quel contesto l’ho vissuto, io c’ero.
Rieccheggia in qualche anfratto della memoria Belinda Carlisle che canta ancora, in loop, Heaven is a place on earth, e come le canzoni di quel tempo che sfumano sul finale, si spegne lentamente, molto lentamente.
Per un attimo, come in un filmato mandato avanti col REC, corrono veloci un tripudio di pensieri, occasioni, possibilità ed eventi oggettivi. Penso a come sono andate le cose, penso alle risposte alle mie domande, alle interviste a van Basten trent’anni dopo quella rete, sulla depressione che gli venne e alle stampelle con cui ha convissuto fino a un paio d’anni fa, prima di una drastica ennesima e definitiva operazione che gli ha risolto per sempre i dolori.
Penso che non ci sono risposte sensate, anche se da qualche parte l’heaven continua a esserci perché Belinda canta ancora. E va bene così.

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