Inconsueta anatomia

Boris Battaglia | Bagatelle per un Alph-Art |

Può darsi che da, qualche parte, esista una qualche dimensione dello spirito nella quale la realtà prescinde dalla materia. Io non lo credo. Ma da ragazzo sono stato un forte lettore di fantascienza (possedevo più di 700 “Urania”) e non mi costerebbe nulla – per il breve tempo di una narrazione – assumere questa cosa come vera.
C’è un problema, però. Per quanto mi sforzi non riesco a farmi venire in mente nessun universo narrativo, nessuna narrazione – neppure quelle fantastiche delle religioni e delle tante avariate spiritualità – che sappia funzionare, non dico a livello strutturale (quello è impossibile e punto), ma nemmeno a livello concettuale, senza immergermi in un mondo di materia.
Non so. Pensa a una punta estrema della narrazione come Blue, il film del 1993 di Derek Jarman, in cui – riprendendo l’idea da Hurlements en faveur de Sade di Debord – per un’ora e un quarto l’autore, ormai cieco a causa dell’Aids, ci propone un’inquadratura blu che fa da sfondo alla colonna sonora composta da Simon Fisher-Turner e alla sua voce narrante, che spiega cos’è la vita secondo la sua “visione”.

Oppure pensa al sublime fumetto di Trondheim, Blue, pubblicato nel 2003 (stesso titolo, strano, no?), in cui due macchie blu confluiscono l’una nell’altra per poi separarsi di nuovo.
Per quanto poco o nulla queste opere ci concedano alla vista, non riescono e non possono farlo senza usare la materia, senza evocare corpi. In fondo, secondo la definizione del vocabolario Treccani, il corpo è una qualsiasi parte limitata di materia. E i colori sono materia.
Possiamo concluderne che il fumetto non può esistere, nemmeno nelle sue forme più estreme, senza narrazione e le narrazioni, le visioni (anche quando cieche), non esistono senza corpi.

Nell’opinione comune il 1977 non ha certo la fama di un anno tranquillo. L’immagine che ne viene data, dalle narrazioni dominanti, è sempre legata al disordine e alla violenza.
A parte il fatto che bisognerebbe dimostrare che un anno scandito in giorni di ordine e pace sociale sia più interessante e preferibile a uno i cui giorni sono ritmati da scontri e disordine, il 1977 è stato un anno molto più complesso di come lo “disegnano”. Un anno ricco di fermento sociale e culturale, l’anno in cui – in qualche modo – dà i suoi frutti quella semina del vento cominciata quasi dieci anni prima. Il 1977 è l’anno della tempesta, delle menti ma anche dei corpi. È da questo momento, il postmoderno è alle porte, che entra in crisi l’idea di corpo plasmata dalla modernità, cioè della fisicità come caratteristica estrinseca del sé e per questo dotata di una precisa e univoca identità sessuale. Crisi che si risolverà nella teorizzazione deleuziana di un corpo privo di organizzazione (senza organi, lo definirà lo stesso Deleuze) e identitariamente libero e fluttuante.

Questo avviene anche perché gli anni Settanta sono anni di coraggio editoriale. Persino i grandi editori, quelli a cui di solito il coraggio manca, ne danno prova. Perché, se è vero che nel ’77 esce “Cannibale” e che su “Alter Alter “ Andrea Pazienza comincia la pubblicazione di Pentothal, un editore non particolarmente attento alle avanguardie come Mondadori dà vita a una originale collana umoristica, la BUM, con la quale – pubblicando autori come Stefano Benni e Antonio Amurri – riesce a conferire riconoscimento letterario al genere umoristico.
Nel 1979 la casa editrice affianca alla BUM una nuova collana, di formato più grande (21×27), chiamata ALBUM in cui pubblica fumetti umoristici. Per dirti il coraggio di questa collana, uno dei primi titoli è Storie Puttanesche di Copi, titolo che oggi farebbe tremare i polsi (e mica solo commercialmente) a qualsiasi editore. L’estate dell’anno dopo Mondadori pubblica in questa collana un libro molto particolare.

Il poco più che trentenne Vincenzo Jannuzzi, la cui carriera di autore completo è cominciata proprio nel ’77, e che aveva all’attivo già una denuncia per oscenità (sarà assolto con formula piena perché “il fatto non costituisce reato”) per la versione illustrata delle 11.000 verghe di Apollinaire, realizza in 135 tavole a penna biro un fumetto tratto da un’opera minore di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, pubblicata nel 1670: Vita mirabile dell’arcitruffatrice e vagabonda Coraggio.

Lo so. Quando si parla di Madre Coraggio il tuo pensiero corre subito a Bertold Brecht. Anche lui aveva tratto liberamente dal romanzo di Grimmelshausen la storia della sua Anna Fielding, ma nell’opera di Jannuzzi non c’è nessuna influenza brechtiana. Come dice lui stesso «niente vi è nei miei disegni che non vi sia anche nel testo di Grimmelshausen».
Le sue influenze si sentono forti nel tratto, che trae sicuramente origine da uno scrittore e illustratore ottocentesco come Albert Robida, il cui segno grottesco è figlio dell’incisore cinquecentesco Agostino Carracci e dal suo contemporaneo Gustave Doré. Il segno grottesco di Jannuzzi è perfettamente in linea con quello che proprio in quegli anni usava Mattotti, in opere come Tram tram Rock o Alice Brum Brum.

Il segno a biro con cui Jannuzzi dà vita alla sua Coraggio riesce a restituire intatto quello che Bacthin definì come il grottesco umorismo dei corpi messo in campo dallo scrittore tedesco. Per Bachtin lo stile umoristico/grottesco di autori come Rabelais e lo stesso Grimmelshausen, rappresentando in modo realistico i corpi e i loro umori, narra con forza superiore ad altre opere l’indissolubile rapporto del corpo stesso con il mondo e con gli altri corpi.

Il corpo grottesco, dice Bacthin, è un corpo in divenire. Non è mai dato e non ha un’identità definita: si costruisce e muta continuamente, ed è esso stesso che costruisce e crea un altro corpo. È un corpo che non ha paura del mondo e degli altri corpi, anzi li inghiotte famelico e ne è inghiottito. In un rito continuo di puro cannibalismo. Allora forse non è un caso che, come ti dicevo, nel 1977 esca una rivista che, fin dalla testata, afferma il proprio cannibalismo. E neppure che, proprio in quello stesso 1980, Tanino Liberatore – sulle pagine di “Frigidaire” – dia un nuovo senso al corpo grottesco di Ranxerox attraverso l’iper-realismo antinaturalista del suo tratto.

ll corpo di Ranxerox è una macchina. È perfettamente equivalente al corpo umano, ma mantiene una profonda ambiguità, diviso tra l’apparenza umana e la realtà artificiale. Un corpo senza carne, solo uno schema, una possibilità di corpo, un’immagine, nevrotica, psicotica, schizoide. Una realtà fatta dall’uomo, che ne ricalca la somatica e la psicosomatica. Un alienato senza corpo che si trova a suo agio nella violenza di una società reificata e senza legge che gli permette di scardinare impunemente i corpi reali. Ranxerox è quello che Deleuze definirebbe come un corpo senza organi. Non un corpo informe, intendiamoci, ma un corpo che è soglia differenziale tra la figura e la struttura. Il corpo nei fumetti è libero da quella fissità delle forme (le strutture) che sta alla base di quella visione del mondo, attualmente così in voga, che ha portato a concepire il corpo umano secondo una visione anatomica e specializzata della vita.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)