Una voce (o QUASI)

Francesco Pelosi | Ritratti |
disegno de La Came

Ho sentito la parola perturbante per la prima volta alle superiori. Si dissertava con un amico, uno di quelli con cui ti formi il pensare e le passioni nell’adolescenza, su Eyes wide shut, l’incompiuto capolavoro di Kubrick che lo vide morirne in sala di montaggio. Non ricordo se da qualche parte avevamo letto questo termine riferito al film o alla “Traumnovelle” di Schnitzler, il Doppio sogno da cui fu tratto. Di certo giungemmo a Freud e alla sua analisi dei racconti del terrore di E.T.A. Hoffmann, e in particolare di quello intitolato Der Sandmann, L’uomo della sabbia.  

In quel racconto di inizio ‘800, Hoffmann metteva in scena, un secolo prima della nascita della psicanalisi, attraverso i deliri del povero Nathaniel vittima dell’alchimista luciferino Coppelius, i  concetti di inconscio e di rimosso che ritorna. Il perturbante, appunto.

Per la Treccani, perturbare è «turbare profondamente, sconvolgere, portare agitazione o alterazione», mentre su Wikipedia viene aggiunto che il perturbante «si sviluppa quando una cosa (o una persona, un’impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo».

Quando Freud ne scrive, nel 1919, usa la parola tedesca unheimliche, ovvero l’inconsueto, il non-familiare, l’estraneo, contrario semantico di heimlich, l’intimo, il fidato, il confortevole. Entrambi i  termini contengono in sé la parola heim, casa. Perturbante allora è qualcosa di estraneo e spaventoso, che risale però a ciò che ci è familiare.

Le fiabe popolari tramandate dai fratelli Grimm e prima ancora da Perrault, incarnano pienamente questo terrore che ritorna risalendo dalla sua sede nelle profondità dell’inconscio collettivo. Si potrebbe dire che gli archetipi universali di quelle narrazioni hanno fatto breccia nel nostro immaginario bambino e vi si sono impiantate stabilmente, forse anche perché già si trovavano lì, nelle profondità della nostra casa.

Neil Gaiman, che di queste antiche e fertili suggestioni ha fatto una carriera di scrittore, quando ha immaginato il suo “uomo della sabbia” a fumetti, è andato certamente in cerca di quell’inconscio allo stesso tempo estraneo e familiare che popola le fiabe e le leggende di tradizione orale.

Nel ciclo di Sandman intitolato Casa di bambola, lo scrittore inglese riporta addirittura una versione antica della favola di Cappuccetto Rosso, dove il lupo fa a fette la nonna e ne mette il sangue in una bottiglia, per farla poi mangiare e bere alla nipotina. Dopodiché, consigliando alla bambina di spogliarsi prima di entrare nel letto con lui, il lupo-nonna divora Cappuccetto, cannibale e discinta, senza che nessun cacciatore arrivi a salvarla.

Il perturbante è dunque il terrore perfetto, poiché originario del privato e dell’intimo. Cappuccetto Rosso viene mangiata e uccisa da un lupo con le sembianze di sua nonna: qualcosa di familiare ed estraneo allo stesso tempo.

Dopo molti anni, finite le superiori e separatomi ormai dal compagno di bevute e riflessioni, avrei ritrovato quello stesso concetto nel libro Der Waldgang (1951) di Ernst Jünger. Il traduttore dell’edizione Adelphi avverte che il termine tedesco waldgänger, in  mancanza di un buon equivalente nella nostra lingua, è reso con ribelle, e da qui la conseguente traduzione del titolo in Trattato del ribelle. Per Jünger il waldgänger è colui che “passa al bosco”, che si ritira nella foresta, si da’ alla macchia, in aperto contrasto con la società. Come Thoreau, o come I briganti di Magnus.

Sempre nelle note al libro, viene specificato che il termine risale all’Islanda dell’Alto Medioevo, dove fuorilegge e proscritti venivano mandati al confino, in luoghi remoti e selvaggi. Nel bosco,  appunto, luogo d’elezione di tutte le fiabe, dove l’inconscio si manifesta.

Scrive Jünger: «Il bosco è segreto. Heimlich, segreto, è una di quelle parole della lingua tedesca che racchiudono in sé anche il proprio contrario. Segreto è l’intimo e ben protetto focolare, baluardo di sicurezza. Ma nello stesso tempo è anche ciò che è clandestino, assai prossimo in quest’accezione all’unheimliche, l’inquietante, il perturbante. Quando ci imbattiamo in radici simili a questa, possiamo essere certi che vi risuona un’eco della grande antitesi e dell’equazione ancora più grande di vita e morte, alla cui soluzione si dedicano i misteri».

Mi accorsi allora che già da bambino avevo sperimentato, in maniera più o meno conscia, il perturbante. Seduto su una poltrona di casa dei miei nonni materni, mentre fuori un freddo pomeriggio del gennaio 1991 mutava in sera, leggevo su “Topolino” numero 1834 la prima parte della storia di Silvano Mezzavilla e Giorgio Cavazzano, Topolino e il mistero della voce spezzata.

Fra quelle pagine provai per la prima volta una paura remota e straniante che mi fece improvvisamente sentire solo. L’atmosfera che i disegni di Cavazzano avevano creato, era totalmente diversa da quella solitamente rassicurante della rivista. O meglio: era simile, ma anche completamente altra.

Molti particolari, a cominciare dal cappello di Topolino (quello a tesa larga, con l’ala davanti alzata, che poi sarebbe diventato il suo cappello iconico “da detective” sulle copertine di “Topomistery”), per finire con la giacca di feltro e il tranch che indossava, sembravano parlare una lingua differente, quasi per adulti. E poi la tempesta sulla città, le lattine che rotolavano a terra, la pioggia lugubre e incessante e infine il fulmine e la telefonata interrotta, con le urla del professore rapito che si perdevano nella notte.

Un brivido mi attraversò. Probabilmente chiamai mia nonna per accertarmi che fosse ancora lì con me. Avevo sette anni e non avevo mai avuto un contatto con l’horror o il thriller, fino ad allora. “Topolino”, inaspettatamente, assolse per me quella funzione. Il bosco era venuto a visitarmi. L’estraneo si palesava, e l’inquietudine era risalita da un luogo sconosciuto dell’anima, come la voce spezzata della storia che riappare un anno dopo, grazie allo stesso fulmine che l’aveva imprigionata nell’etere.

Quella voce, quasi fosse la stessa che per secoli e secoli ha tramandato le favole che ci fanno paura, una voce antica, rauca e interrotta da un colpo di tosse o da un fulmine,  mi stava parlando  in quel gennaio d’inizio anni ‘90. E io, fervente discepolo, ascoltavo, completamente avvinto e perturbato, con le mie improbabili orecchie da topo.

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