Elogio del pallone

Mabel Morri | Play du jour |

Mio zio è un ex giocatore di baseball.
Vive negli Stati Uniti e, un giorno, quando ero adolescente e parte della mia vita ruotava intorno al calcio e ai fumetti, avemmo una delle nostre acute conversazioni che durano ancora oggi. Nello specifico, allora, mi disse che gli americani non concepivano per nessuna ragione al mondo lo sport usando i piedi. Per loro era naturale lanciare la palla di qualunque dimensione – oblunga da rugby, piccola da baseball – con le mani mentre io sostenevo che un bambino italiano la stessa naturalezza la trovava nei piedi, che fosse una pallina di carta, una pigna, un pallone di spugna, il gesto di caricare il destro o il sinistro era genetica. Siccome è un uomo molto simpatico e comunque americano, con tutte le accezioni che preferite nell’aggettivo, quando gli chiesi «E allora il tennis, scusa?» che di fatto usa la racchetta e non è come il baseball, mi rispose che la generazione dei vari Agassi e Chang (così come nel femminile delle sorelle Williams in epoca moderna, perché il discorso tra noi non è mai decaduto e si rinnova capello bianco su capello bianco) è stata solo una questione di investimenti. Se si investe in uno sport con i giusti allenatori e la giusta prospettiva, alla lunga il Campione che fa parte della storia scappa fuori. Nelle ultime videochiamate mi sono trattenuta dal ricordargli che anche la Cina ha un progetto sul calcio iniziato un decennio fa, la stessa Cina che oggi nominare è un casino, soprattutto in un certo tipo di America, non necessariamente la loro, ma che nel suo progetto ha: almeno un Mondiale organizzato in casa e uno vinto. Quando, su quello vinto, non è dato sapere.
Nessuno comunque che parli mai di quello, cioè dello strumento che permette il gioco: la palla.

Al mare, nella Rimini di fine anni Ottanta, i ragazzini benestanti, dettaglio che chiaramente non ci riguardava a quell’età, erano anche quelli che portavano il pallone bello. Il pallone bello era il Tango della Mondo che riproduceva fedelmente il modello Tango dell’Adidas, pallone che ha accompagnato due o tre generazioni. Sono legatissima al Tango. È il pallone col quale ho imparato a giocare, specchio e testimone di anni sociali, culturali e politici durante i quali ero piccola ma nei quali, al tempo stesso, ci sono le risposte di ciò che viviamo oggi.
Chi portava il Tango in spiaggia era già acclamato come bambino più rispettato e del quale diventare subito amico. Il più delle volte però, questi amichetti che venivano in vacanza con i genitori ce li avevi per tre settimane al massimo (quando le vacanze erano lunghe). E allora si davano il cambio e, a fine agosto, quando rimanevamo solo noi, noi autoctoni, era più facile rimediare un Super Santos o un Super Tele che non il Tango della Mondo. Insomma, giocare col Tango capitava, ma non sempre.
Io ne avevo uno ovviamente a casa, ma in spiaggia usavamo quello del bagnino. Il bagnino aveva all’epoca la cabina dei giochi: non è come oggi che ha sì la cabina dei giochi, ma di fatto è un magazzino, in quegli anni entrare lì dentro era scegliere il pallone che si preferiva, e il bagnino sapeva perfettamente, nello stesso istante nel quale col pennarello ci scriveva sopra “Bagno 16”, che quel pallone ritornasse in cabina aveva la stessa probabilità che venisse bucato. Ecco perché eravamo noi autoctoni i cui genitori avevano gli ombrelloni da generazioni quelli scelti per metterci la faccia chiedendo il desiderato pallone. Perché tanto anche da adulti ci saremmo ritrovati a fare la stessa cosa: mettere la faccia per i figli o i nipoti. E anche perché un riminese normalmente, tra le altre, ha due cose di proprietà insindacabile, oltre la morte: la tomba di famiglia e l’ombrellone.
Ho conosciuto così tanti bambini nella mia infanzia per via della spiaggia e del pallone che per ognuno di loro potrebbe essere raccontata una storia. Essendo l’unica ragazzina venivo spesso messa da parte. Il problema, per loro, era che quando prendevo palla non la vedevano più. Ma a me piaceva stare dietro, fare l’ultimo passaggio per chi andava a segnare, particolare che faceva innervosire molto più che farsi segnare da una bambina.

Giocavamo in uno spazio che, oggi, adulta, guardo ogni volta che porto i giochi di mio nipote in cabina e penso che in quei tre metri di sabbia che divide le due ali di cabine le nostre partite erano la finale mondiale, quella che ci consegnava i due punti che ci avrebbero permesso di superare la squadra avversaria in classifica, quella che ci faceva vincere la Coppa dei Campioni, come si chiamava una volta, quella che ci regalava l’immortalità. Da qualche parte, nella vernice seccata dalla salsedine, nelle rughe della scartavetratura delle porte in legno ridipinte nei decenni, nei corridoi dietro le cabine ormai chiusi e nei quali ci infilavamo per giocare a nascondino, le urla dei nostri gol echeggiano ancora.
Le porte erano ovviamente due cumuli di sabbia tirati su alla bell’e meglio che si rovinavano subito appena sfiorati.
Oltre, in una prospettiva angolare che vede il cumulo che guarda verso l’osservatore, obliquo da quello che va verso il punto di fuga, rotolano, rimbalzano, si stoppano palloni verdi, gialli, arancioni, bianchi da volley, azzurri, in un continuo loop e un ragazzino che corre oltre quella stessa linea immaginaria di porta.
Traiettorie improbabili e aliti di vento che bastavano a deviare tiri che sembravano autentici capolavori, il Super Santos e il Super Tele avevano la consistenza di un gavettone scoppiato. Le immancabili lamentele di quello più prepotente che pensa di essere il più forte e poi perde sempre continuano nel vento a dire che lui non ci va a riprendere il pallone, mentre il bambino biondo che ha subìto il gol supera quell’immaginario stargate e, di anno in anno, ha dieci anni, poi dodici, poi quindici, fino a che quella lingua di sabbia non la oltrepassa più, per un bel pezzo, per molti anni, e quando ritorna a farlo c’è un altro bambino biondo vicino a lui, simile, una fotocopia in miniatura praticamente, che sorride come sorrideva lui decenni prima.

Quando uscì l’Etrusco dell’Adidas fu come se una parte dell’infanzia fosse stata spazzata via per fare posto a quell’adolescenza che era già arrivata ma alla quale non si imputavano i turbamenti e i cambiamenti fisici ma solo l’insofferenza, il malumore e la felicità assoluta e inspiegabile. Bellissimo pallone, l’Etrusco, a differenza del Tango, nei triangoli che componevano la grafica del pallone, accenni a disegni appunto etruschi. Il cuoio duro era uno spettacolo da calciare. Lo ricordo ancora nella sua versione mini: un pallone piccolo piccolo, ma erano gli anni di Maradona e van Basten, dovevi saper dimostrare di palleggiare anche un’arancia.
Quel pomeriggio eravamo pochi in spiaggia.

Chiudo gli occhi.

Potrei indicarla a occhi chiusi la zona di spiaggia, un quadrato racchiuso da passerelle che come uniche vie portavano al Bar del 18. Il juke-box suonava nella sua moneta da 500 lire, canzoni dell’estate e vecchi eterni successi, Bella d’estate di Mango o Domino Dancing. Sembrava una bolla, ogni estate sembra una bolla la vita serafica e pacifica dei riminesi che alla spiaggia non rinunciano mai, nemmeno nelle pausa pranzo. In quel quadrato ci ritroviamo in tre: io, il figlio dell’architetto e il figlio del farmacista. Ho con me l’Etrusco mini. Il figlio dell’architetto dice: «uno contro uno e io sto in porta».
Faceva un gran caldo.
Ricordo ancora il fiatone, alla fine.
Un gran concentrazione e nemmeno una palla persa.
Diagonale di sinistro, piattone a spiazzare il figlio dell’architetto, segno persino di esterno destro, lato opposto: 3 – 0 e a casa.
Me la ricordo ancora, quella giornata.
Anche oggi che non esiste più niente di quella spiaggia, nemmeno le cabine hanno lo stesso colore, nemmeno l’ingresso è lo stesso modificato dalla ristrutturazione di questo 2020 nel Parco del Mare, fiore all’occhiello dell’amministrazione Gnassi insieme al Teatro Galli.

Nel quartiere di Riquier a Nizza, all’angolo tra Boulevard de Riquier e Boulevard du Mont-Boron, proprio lì, dove c’era la macelleria di Marcel che dopo l’incidente ha dovuto chiudere, bisogna percorrere tutto Boulevard du Mont-Boron incrociando la Corniche Andrè de Joly per arrivare al Parc Castel des Deux Rois. Lì, appena fuori dal cancello, dal portabagagli della familiare di una marca d’auto francese, il pallone che prendo per giocare coi nipoti nizzardi è un finto Brazuca da supermercato.
Il Brazuca è il pallone ufficiale del Mondiale di Brasile 2014, primo pallone nella storia ad avere un account Twitter. Decenni dopo il Tango e, nelle sue declinazioni Atzeca Mexico (Messico 1986), Etrusco Unico (Italia ‘90) e Tricolore (Francia 1998), dal 2002 Adidas decide di mandare in pensione il buon vecchio Tango e inizia a sperimentare altri modelli. Il calcio cambia, le maglie e i suoi tessuti cambiano e anche il pallone non è esente dal cambiamento. Via il cuoio e le cuciture, il design e la tecnologia prendono il posto dei punti a macchina, il pallone si trasforma e diventa più piccolo, più leggero, più dinamico anche nella grafica. Lo Jabulani, il pallone di Sud Africa 2010 è forse l’esempio perfetto che racchiude nel comunque gran tiro dell’uruguaiano Diego Forlan nella semifinale contro l’Olandam che permette il momentaneo pareggio dei sudamericani, l’imperfezione e l’esagerazione degli esperimenti sul pallone. Non a caso, col Brazuca e col successivo Telstar 18 si torna alle cuciture di un tempo.
Nella distesa verde dell’erba sopra le due piste mi diletto in palleggi, biciclette, rabone e tiri. Sono comunque una zia, per cui, col nipote in porta, gli tiro robe goffe e parabili. Giochiamo con Antonì, con la cui madre mi fermo spesso a parlare, soprattutto col padre di lei, ex ciclista della BIC e gregario di Luis Ocaña ai tempi di Eddy Merkcx e Raymond Poulidor.
Antonì mi guarda e dice a mio cognato che, «però non vale», si vede che giocavo.
È una bellissima giornata di luglio, gruppi di anziani con tavolette e tele si disperdono sotto gli alberi e li dipingono, il finto Brazuca rimbalza dietro il muro della casetta magazzino degli operatori del parco e usata come nostra porta, in un ultimo tiro, un po’ troppo potente e imparabile per il nipote, calciato insaziabilmente da me.

Da adulta gli ultimi palloni avuti sono stati un Super Tele rosso e nero che ha avuto vita brevissima essendo finito tra le fauci del cane di un’amica e un Super Santos, bellissimo nel suo arancione brillante, che si sta lentamente sgonfiando in un’agonia che non merita appoggiato nella libreria del mio studio, abbracciato da Ghinelli, Shakesperare, Fior e Biondi.
Ha visto la spiaggia un sabato di luglio di qualche anno fa, all’ombra del lettino coperto dal telo del Milan – un’amica bolognese con cui praticamente sono cresciuta, tra figli e nipoti che giocavano con la sabbia sotto l’ombrellone, lo ha intercettato nell’estate dei miei 45 anni, si è girata dubbiosa e ha accennato un’espressione eloquente, incredula che fosse lo stesso telo dal 1990 – , mentre riprendevo le infradito e mi avviavo in edicola a comprare il “Guerin Sportivo”.
Ci tornerà, gonfio, in quel cerchio della vita che, nella stessa spiaggia nella quale giocavo io, altri bambini e uno, col mio stesso sangue, ci giocherà con quella spensieratezza e felicità che ricordo di quelle estati.
A casa, mi arrampico a prendere una scatola di quelle morbide dell’Ikea.
Dentro, sgonfio e graffiato, l’Etrusco mini che oggi riesco a tenere nel palmo di una mano mi vede sorridere per quella ragazzina che non c’è più.

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