Il calcio, al cinema

Mabel Morri | Play du jour |

All’ombrellone numero 105 del bagno Oasi di Rimini, io e le mie amiche appena trentenni siamo splendide e sorprendentemente libere, libere di divertirci dopo storie finite male e storie zoppicanti il cui strascico iniziava a essere logorante.
Il nostro 105, oggi debellato nel rendere larga la distanza tra gli ombrelloni nel dpcm dell’estate, confinava con il bagno 14. E proprio lì, al 14, un altro gruppo di ragazzi aveva fatto come noi: l’ombrellone di gruppo, un luogo dove trovarsi con gli amici nel fine settimana, un posto dove rifugiarsi nelle pause pranzo, una sdraio dove immergersi in letture o scottature ustionanti sotto il sole cocente.
Uno di quei ragazzi, filiforme e allampanato sotto un casco di capelli mediamente mossi dalla salsedine e dall’asciugatura veloce della doccia, arrotolava una metà di libro e stendeva l’altra favorevole alla lettura. In una pausa – l’ennesima doccia – poggiava il volume sulla sdraio allontanandosi e io ne approfittavo per prendere l’accendino nello zaino appeso mentre fumavo una Camel già accesa e scrutavo il titolo.
Erano gli anni delle mode letterarie tra gli universitari che si affacciavano al mondo del lavoro, prima dei matrimoni e dei figli, quando si viveva ancora con i genitori, per cui c’era ancora il tempo per leggere e fare fintamente gli intellettuali. Il ragazzo, puntato da una di noi, in quanto amante dei giocatori di beach volley, essendone lui un esemplare per vezzo da spiaggia, con mia sorpresa leggeva Nick Hornby, in inglese. Dopo Pennac degli anni di studi, Hornby era lo scrittore che dovevi leggere per far parte del gruppo. Un gruppo qualsiasi in realtà ma che, durante un aperitivo in mezzo alla strada pedonale, poteva aiutare nelle chiacchiere di cultura generale di cui Hornby all’epoca faceva parte. Un po’ come le mode delle scarpe, tutti con lo stesso modello ai piedi fino a che non ne arrivava una nuova. Il libro era About a Boy ma quelli erano anche anni nei quali si instaurava una fiducia tra lettore e letture, presumibile per cui pensare che il ragazzo avesse letto anche Febbre a 90 e non avesse iniziato a seguire l’autore inglese proprio da quel titolo.
A ogni modo, l’amica lo puntò il tempo di uno spritz e tutte tornammo alle nostre vite da spiaggia. Con gli anni, quasi subito dopo a dire il vero, con la trasposizione cinematografica di Alta fedeltà, Hornby iniziò a provocare in me un effetto pruriginoso, un’antipatia e mal sopportazione difficilmente digeribili. Mi innervosiva l’egoismo che ogni suo personaggio, evidentemente una proiezione nemmeno troppo velata dell’autore, maschio alfa di pelle bianca, avesse nei confronti delle donne, del calcio, dei dischi. Insomma, iniziò a starmi sulle palle e abbandonai la lettura dei suoi romanzi e, per estensione, la visione dei film tratti dai suddetti.

Quando “Febbre a 90” uscì al cinema nel 1997, molti, sapendo della mia passione per il calcio, mi domandavano se l’avessi visto.

I film sul calcio non sono mai stati belli, è sempre stato difficile realizzare pellicole che raccontavano vite comuni come la mia nell’intreccio della propria passione per il tifo di una squadra: un po’ perché è sempre molto soggettivo il perché si tifa una squadra, ha radici familiari o radici epocali (Maradona al Napoli, per me van Basten al Milan, per Davide Reviati Gigi Riva al Cagliari), un po’ perché il sistema calcio è inflazionato e vedere scene di una partita che si è vista in televisione cozzava sempre molto sull’immediatezza del risultato della Coppa o del campionato. È sempre stato complicato rendere interessanti e accattivanti storie che non serviva vedere al cinema, perché bastava indossare tuta e scarpe e scendere in strada con gli amici, e lì sì che c’erano le storie, quelle delle nostre partite, quelle che ci insegnavano a crescere.
Ci sono riusciti abbastanza gli inglesi, da Hooligans a Il mio amico Eric di Ken Loach, ma gli inglesi sono riusciti a rendere straordinario anche Trainspotting, il film per eccellenza sull’eroina, che non so voi, ma nella Rimini della mia infanzia ha spazzato via intere generazioni. Non aiutava poi il cinema italiano in sé che ha sempre cercato la storia sociale rispetto al pop all’americana; ci hanno anche provato, sorvolando sui classici con Lino Banfi, persino Paolo Sorrentino nel suo primo lungometraggio L’uomo in più del 2001, ultimamente con Il campione del 2019 e oggi film come Ultrà diventano cult.
Febbre a 90 non si discosta molto dalle trame di Hornby: c’è lui, ci sono le sue passioni e poi c’è il resto, c’è l’Inghilterra di fine anni Ottanta e tutto ciò che esso comportava, dal punk alle birre, alle Doctor Martin’s. Ma fu il tifo per l’Arsenal, quell’Arsenal, che confesso fu d’effetto per me, oltre a capire, negli anni delle tragedie allo stadio, dall’Heysel del 1985 all’Hillsborough del 1989, la dinamica del tifo inglese e come accadevano quelle tragedie.
Non foss’altro che quell’Arsenal, quello di Tony «Don’t call me donkey» Adams difensore centrale, John Lukic il peggior portiere della storia del mondo, Lee Dixon biondo terzino destro, Paul Davies, Perry Groves, Paul Merson e Naill Quinn tra gli altri mi fecero una gran compagnia, appassionandomi alla squadra inglese, al suo stadio Highbury e alla maglia storica con lo sponsor JVC nell’anno in cui mi beccai la varicella e, nelle lunghe giornate a casa a cavallo dell’estate, sulla vecchia emittente Tele Capodistria diventata Tele+2 mi guardai molte delle loro partite.

Nel 2020 si celebrano i 50 anni della cosiddetta Partita del Secolo.
Lo spiega bene Enrico Deaglio nel suo Patria: non fu solo una partita, fu un momento di gioia oltre il risultato perché raccontava lo stato degli italiani dell’epoca, il loro essere immigrati in Germania, il loro essere sempre ultimi nell’educazione, nell’economia, nella cultura. A guardarla dall’Europa la nostra bella Italia sembrava un paese bello e ignorante e contadino nonostante si venisse dai ruggenti anni del boom economico che, va da sé, non fu uniforme nella penisola. Fa specie pensare che quando si giocò la partita la data della fine della Seconda Guerra Mondiale era più vicina di quando, per esempio, oggi sia la Strage di Capaci; le ferite della guerra non erano poi così lontane se appena nel 1961 ci fu il processo a Eichmann in Israele e i debiti non ancora del tutto saldati. Fa specie pensare che quella generazione che festeggiò scendendo per strada, tra cui, per la prima volta nella storia, le donne, quelle stesse donne che permisero alla mia generazione di iniziare a pensare di poter essere libere e indipendenti, quella generazione che oggi è quella che ha permesso la ricostruzione e lo slancio, le riforme e quei cambiamenti che ogni tanto ancora oggi ricordiamo, aborto e divorzio su tutti. Ma soprattutto fa specie pensare che quella stessa generazione oggi sia falcidiata dal Covid-19, come i nostri partigiani, che vanno via uno a uno e la cui storia così importante da raccontare inizi a essere appunti di diari da ricercare e sfogliare invece che sentiti dalle loro voci, seppur tremanti e malandate ma vive, sempre vive.
Nel 1990 il filone dei film generazionali (gli adulti di quegli anni che hanno fatto il ‘68 per intenderci) è in piena espansione e il film Italia-Germania 4-3 non ne è esente. Gabriele Salvatores è, con la sua trilogia della fuga che culmina con l’Oscar di Mediterraneo, tra i registi che hanno maggiormente indagato questi temi. Aveva già iniziato con quel gran bel film che era Turnè, del quale è mattatore Fabrizio Bentivoglio, che appare in moltissime produzioni di inizio decennio, anche in “Italia-Germania 4-3” girato lo stesso anno. Anche Carlo Verdone, qualche anno prima, nel 1986, ci prova con un film intensissimo, Compagni di scuola, che a sua volta vede Nancy Brilli. In fondo, gli attori di quegli anni sono quelli, sono sempre loro come oggi nelle produzioni mainstream troviamo gli Accorsi, i Favino, i Santamaria alternati alle Trinca, Mezzogiorno, Impacciatore.
Mi sorprese, quando ragazzina lessi uno dei fumetti che hanno cambiato la mia vita El Gaucho scritto da Hugo Pratt e disegnato da Milo Manara, scoprire che la Molly del fumetto graficamente era Nancy Brilli.
La trama si dirama in un incontro vent’anni dopo quel famoso Italia – Germania per l’occasione trasmessa nuovamente dalla RAI di coloro, gruppo di amici comunisti – chi marxista leninista e diventato pubblicitario della Milano da bere, chi comunista intellettuale e diventato forzatamente professore che gira con un Ciao e che oggi chiameremmo radical chic nonostante i sogni spezzati, chi semplicemente benestante –, che si ritrova faccia a faccia con scorie non ancora del tutto passate. Ma erano anche tempi nei quali persone che avevano la mia età adesso sembravano i miei nonni, vecchi a quarant’anni. Durante l’infinita partita emergono gli equilibri precari e il senso di incompletezza che pervade i protagonisti.

Lontano dalle classiche storie di famiglie da dopo guerra sotto i portici bolognesi, Pupi Avati se ne esce nel 1987 con uno dei suoi film decisamente meno conosciuti e ricordati, Ultimo minuto, interpretato dal grande Ugo Tognazzi.
Poco sopra scrivevo della complessità di un film sul calcio. Ecco, credo che questo bellissimo film sia l’esempio perfetto. È una storia largamente marcia, nella misura in cui è lo specchio di quei tempi, quelli di un calcio pregno di scommesse, di illegalità da spogliatoi, di uomini potenti che hanno appunto un potere decisionale tale da avere le mani in pasta ovunque, dagli stipendi ai contratti, dal menù degli atleti durante il ritiro di inizio stagione (altro che i nutrizionisti di oggi e le isole in mezzo ai monti, chiusi e sigillati come roccaforti impenetrabili) alla scelta degli alberghi di amici a prezzo buono. Il tutto condito da un Ugo Tognazzi grandioso, che, come suo solito, ruba la scena e riesce a catturare qualunque istante, anche solo con una battuta.
Scrivevo dell’immediatezza del risultato della partita. In questo film c’è un esempio perfetto di ciò che intendo dire: la partita della squadra biancorossa della quale non viene mai detto il nome (ma lo stadio è il Menti di Vicenza e li colori sociali il bianco e il rosso) si gioca contro l’Avellino. A riguardare quei campionati erano spesso questo genere di partite quelle favorevoli a brogli o a punti salvezza, quelle tra squadre piccole di media classifica o da retrocessione, classicissime negli anni Ottanta del catenaccio, motivo per il quale era molto difficile segnare loro.
Quelle immagini mi ricordano un altro film, c’entra nulla col calcio, ma in Volver a empezar di Josè Luis Garci, vincitore del Premio Oscar del 1982 come miglior film straniero, si racconta del ritorno dell’esiliato Premio Nobel per la letteratura Antonio Miguel Albajara, diventato scrittore e professore a Berkley, scappato negli anni Trenta dalla Spagna franchista (il film è un omaggio, dice il regista Garci, a quella “generazione interrotta” a causa del regime di Franco). Sulle note del Canone di Pachelbel in D maggiore, nei primi cinque minuti del film Albajara girovaga per la sua Gijon e va a visitare i luoghi della resistenza e lo stadio Molinon (era anche centrocampista dello Sporting) che nelle immagini girate nel 1981 è in parte in costruzione nell’attesa del Mondiale spagnolo, quello dell’Italia di Bearzot e dell’urlo di Tardelli per capirci. Nel film, che in realtà racconta dell’incontro con l’amore giovanile spezzato per via della dittatura, nella sua celebrazione da Nobel Albajara viene invitato ad assistere a Sporting Gijon – Atletico Madrid: le immagini sono vere, i gol veri (si giocò il 23 marzo 1981 e vinse lo Sporting 3-0 con reti di Cundi, Maceda ed Enzo Ferreiro) ed è vera anche la fotografia da figurina con la squadra e il regista accovacciato tra centrocampisti e difensori, tanto da essere definita “El partido di Garci”.
Il film di Avati ha lo stesso sapore maccheronico della cucina della nonna, un gusto sgranato che però appena lo riassapori lo riconosci subito come qualcosa che fa parte di te, per sempre.
Peccato per i ruoli delle donne, ma d’altronde è il 1987, non si può sperare in rivoluzionarie combattenti, per cui c’è la moglie del nuovo Presidente della squadra di cui Tognazzi è quella figura a metà tra Italo Allodi e Luciano Moggi (notevoli cameo del “Guerin Sportivo”, di Aldo Biscardi, Enrico Mentana, Enrico Ameri e Ferruccio Gard su sceneggiatura aiutata da Italo Cucci e Michele Plastino), gatta morta ingioiellata e con le calze velate come solo le signore dell’epoca potevano essere e il personaggio della figlia di Tognazzi, interpretato da una giovanissima Elena Sofia Ricci, che però sembra una Titti Pecci Scialoia senza eroina ma che fa tanto fratelli maggiori di fine anni Ottanta, cascamorti, insofferenti e inconcludenti.

Nel 2002 per fortuna arrivò Sognando Beckham. Moderno, veloce, tanto inglese con tutto ciò che , nel bene e nel male, significa. Ma soprattutto parlava, per la prima volta, di calcio femminile in un modo nuovo, simpatico e privo di pregiudizi.

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