Dal vaso di cristallo al castello di Moulinsart

Paolo Interdonato | Una pietra sopra |

Originariamente apparso du “Scuola di fumetto”, marzo 2014

I generi narrativi sono severe maestre. Per aderirvi, gli autori devono rispettare poche regole ferree. Poi, certo, possono illudersi di violarle, sperimentando e facendone commistione, ma i vincoli del genere non possono essere messi in discussione.

Il giallo, per esempio, è stato codificato in più occasioni. Ci ha pensato, per primo, Edgar Allan Poe, nell’aprile del 1841, quando ne ha definite le regole nei Delitti della Rue Morgue. Poi, nel 1887, Arthur Conan Doyle, in Uno studio in rosso, ha lasciato che Sherlock Holmes chiarisse all’inebetito dottor Watson i meccanismi dell’indagine e dell’abduzione. Fino ad arrivare al settembre del 1928, quando S. S. Van Dine ha definito le sue Venti regole per scrivere romanzi polizieschi. Da quel momento, quelle regole sono state piegate per consentire al narratore di mascherare le proprie colpe, alterate perché l’assassino si nascondesse meglio fingendosi morto, trasformate perché il crimine fosse tolto dal vaso di cristallo e gettato nei vicoli… Ciò nonostante, la ricostruzione indiziaria di una realtà crudele è rimasta la base fondante della letteratura poliziesca.

Le violazioni più violente e sistematiche delle regole del giallo sono venute da narratori lontanissimi dalle pubblicazioni più facilmente ascrivibili al genere. Carlo Emilio Gadda, già nel 1946 in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, progetta per il commissario Ingravallo un metodo analitico che si infrange contro l’inconoscibilità del mondo:

«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo.»

Il gomitolo di concause rende irrisolvibili i misteri e, infatti, il Pasticciaccio non si risolve né si conclude.

Lo svizzero Friedrich Dürrenmatt, nel 1958, pubblica il romanzo La promessa, il cui sottotitolo recita Un requiem per il romanzo giallo. Nella costruzione poliziesca dello scrittore emerge quanto il caso domini il mondo, rendendo impossibile la soluzione degli enigmi, se ci si basa unicamente su un metodo indiziario.

«Voi costruite le vostre trame con logica: tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente e là la vittima, qui il complice e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. […] Mandate al diavolo una buona volta queste regole. Un fatto non può “tornare” come torna un conto perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma solo pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile, ha una parte troppo grande.»

Il più potente tra i tradimenti alle regole del giallo è uscito, a fumetti, nel 1963: si tratta del ventunesimo episodio delle Avventure di Tintin di HergéI gioielli della Castafiore. Il giovane reporter, per una volta, non parte all’avventura per il paese dei Soviet, l’America, il Congo, la Cina, l’Inghilterra, la Jugoslavia, la Luna… Vive una vicenda domestica, spingendosi al massimo fino al giardino della casa in cui ha scelto di abitare con i suoi amici: il capitano Haddock, il professore Trifone Girasole e il maggiordomo Nestore. Il gruppo, immobilizzato da un incidente, resta imprigionato nel castello di Moulinsart, costretto alla convivenza coatta con la cantante Bianca Castafiore, l’usignolo di Milano, e il suo entourage, mentre nel giardino si sono accampati degli zingari sospetti, sicuramente dediti al latrocinio.

Un furto più volte annunciato e mai commesso è l’occasione per sviluppare un racconto d’indagine senza vie d’uscita. La coppia di poliziotti più scalcagnata della storia del fumetto, Dupond e Dupont, si lancia in un’investigazione che si muove minuziosa in luoghi sempre più comuni. Il fumetto di Tintin è il regno della linea chiara, in cui tutto deve essere semplificato senza cedere alla faciloneria: il segno privo di tratteggi e tessiture, il colore mai sfumato, la forma geometrica dei balloon, il lettering alto-basso, la storia dall’incedere lineare. Nei Gioielli della Castafiore, Herge è al massimo della propria forma autoriale e racconta, con ritmo serratissimo e comicità folgorante, una storia in cui succede molto poco. Eppure, in quel racconto, tutto salta: l’ossessione per l’inseguimento dell’avventura, la quiete domestica appena conquistata, chiunque metta piede sullo scalino sbagliato, le valvole, il rispetto, il sospetto, l’intolleranza, …

Hergé, che conoscevamo come autore reazionario e colonialista, getta la maschera e, mettendo a nudo i meccanismi dell’indagine poliziesca, ci mostra l’impossibilità del giallo: la ricerca del colpevole non può che muovere da discriminazioni e preconcetti. La linea chiara, con la semplicità con cui ricopre tutto, non permette spiegazioni banali: l’assassino non può essere il maggiordomo e il ladro non è lo zingaro.

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