Un miserabile amore

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

Non c’è dubbio, Cinquecento catenelle d’oro è la più bella canzone d’amore mai scritta. Di autore anonimo, probabilmente frutto di composizioni e ricomposizioni orali, mutate e confuse nel tempo, la conosciamo soprattutto grazie alla versione di Caterina Bueno, interprete di canzoni popolari toscane e ricercatrice sul campo (il disco è La veglia, ripubblicato nel 2001 da Ala Bianca, insieme a gran parte del catalogo de I Dischi del Sole) .
I versi fondamentali fanno così:

«E cinquecento catenelle d’oro,
hanno legato lo tuo cuore al mio.
E l’hanno stretto tanto stretto i’ nodo,
che non si scioglierà né te né io.
E l’hanno stretto i’ nodo tanto forte,
che non si scioglierà fino alla morte.»

Magari qualcuno ricorda meglio la versione di Ginevra Di Marco, voce straordinaria, ma fin troppo pulita, spoglia di quella voragine popolana che anima la Bueno e che sembra diventare materia, tanto da graffiare il corpo di chi ascolta. Qualcun’altro invece potrebbe ricordare le «cinquecento catenelle che si spezzano in un secondo» cantate da Francesco De Gregori nella sua Caterina, altra canzone d’amore, dedicata proprio alla Bueno di cui De Gregori è stato chitarrista agli inizi della carriera e, si dice, amante.
Queste catenelle preziose che ci legano indissolubilmente e che la volontà umana non può recidere, sono la mappa su cui si muove il canto popolare. Da secoli il racconto, la conta, il canto non conforme, non inscritto in regole precise né prevedibili e la voce non istruita che lo promuove, si evolvono e viaggiano attraverso la concatenazione ripetitiva e intuitiva dei significati e delle melodie. Come la fiaba che lo segue allo stesso passo di danza, macabra o carnevalesca che sia ma di certo non cortese, il canto popolare é fatto di accumulazione e mescolanza, bagnandosi più e più volte in un fiume -quello del sangue e del sudore dei miserabili- che sembra sempre identico ma che mai, come si sa, può esserlo. 

Scrive a proposito di questi miserabili Franco Fortini nel 1964, sulla copertina del disco che raccoglie lo spettacolo Bella ciao del Nuovo Canzoniere Italiano: «Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva. Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile (…)»

Queste catenelle dunque sono diventate d’oro, dalla materia grezza iniziale, grazie a un’alchimia terrestre che di fatica e abitudini fa leggenda e rituale. Così il gioco delle carte all’osteria, i Tarocchi ancora spogli del loro uso divinatorio ma già pregni dell’immaginario grottesco e magico che li rende immortali, insieme al lavoro nei campi e alla guerra che a ondate gira e rigira le zolle della vita del popolo minuto, si inanellano, ineluttabili e inscindibili, nel canto. Tutto fa brodo e non si butta via niente. La composizione é forse spontanea, forse frutto di un qualche studiato animo poetico, ma allo stesso modo arriva a tutti, tutti sanno di cosa si parla, e quel che viene raccontato non è separabile dalla vita reale, che contiene in grembo anche gran parte di ciò che noi oggi giudichiamo infantile e superstizioso. Vita e magia procedono congiunte, sigillate dal canto. Non si scioglieranno fino alla morte.
L’esempio forse più famoso di questo procedimento, potrebbe essere quello di La donnina che semina il grano, altro canto toscano raccolto da Caterina Bueno che poi Fabrizio De Andrè e Massimo Bubola trasformarono in Volta la carta. L’operazione dei due cantautori è la stessa che si è tramandata per secoli: da un dato testo si aggiunge, si toglie, si cambia, si rinnova la melodia o la si altera totalmente e così la catenella d’oro prosegue infinita. Altro discorso poi è l’arrogarsi un diritto d’autore e un copyright su quella composizione che tutto è tranne che proprietà privata. E forse la preziosa catenella si spezza proprio qui, quando molti cantautori del nostro recente passato hanno saccheggiato il canto popolare, firmandolo.

Tutto questo per arrivare a parlare di Una zuppa di sasso della francese Anaïs Vaugelade, libro illustrato per bambini pubblicato nel 2000, molto conosciuto e letto nelle scuole italiane, che perfettamente si inscrive nella catena dorata. Una zuppa di sasso racconta di un vecchio lupo sdentato che vaga per i villaggi con in spalla un grosso sacco. Una notte d’inverno bussa alla porta di una gallina e quando, vinte le prime comprensibili reticenze, lei lo fa entrare, subito il lupo si prodiga per preparare la sua famosa zuppa. La gallina però propone di aggiungere un po’ di sedano per dare sapore, a cui faranno seguito una marea di altre verdure, ognuna proposta da un differente animale del villaggio venuto a curiosare e poi fermatosi per cena. Ma a fine pasto il lupo inspiegabilmente recupera il sasso dalla pentola e riparte per il villaggio successivo, dove proporrà la zuppa a un’altra porta. E così via. La catenella d’oro è lampante.
Questa storia è una diretta discendente di quella tradizione popolare orale di cui abbiamo parlato fin qui. Si sente che è una canzone. Come la piemontese Mia mamma vol ch’j fila o la toscana La leggera, dove i giorni della settimana vengono contati uno a uno, con un’azione o una scusa diversa per ognuno. O come la marchigiana Cioetta cioetta, dove un contadino per farsi ridare il cappello da una civetta che gliel’ha rubato è costretto a ripercorrere tutto il ciclo di creazione del pane, dal grano al concime della vacca al fabbro che forgia la falce per tagliarle l’erba e ritorno.
Anche nella Zuppa di sasso si procede in cerchio per accumulo, con un tono misterioso e ironico che rende il racconto una fiaba senza inizio né fine, che neanche la morte può sciogliere. E poi quel vecchio lupo vagabondo col suo sacco è certo parente del nono Arcano Maggiore dei Tarocchi, L’Eremita, a sua volta discendente diretto di Odino, l’incappucciato Padre Universale e Dio dei Poeti.

Il nodo che lega l’amore degli umani, ci dice il canto toscano di Caterina Bueno, si scioglierà con la morte. Ma non saremo né te né io, né una firma né un copyright, a spezzare invece la catena di amore miserabile, impastato di sangue e terra, la cui trama guida questi canti e queste storie, senza provenienza e destinazione. Senza capo né coda. E che cinquecento catenelle d’oro hanno legato, con irragionevole eternità, al cuore tuo e al cuore mio. 

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