La monumentale indifferenza del destino

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Protagonista: io, vostro Tradrittore.

Ho detto:

«Il femminismo può essere il motore del cambiamento del mondo.»

Volevo dire:

«Oggi è necessario, anche (specie) per noi uomini, essere femministi. Ma la frase può essere accolta con favore superficiale se letta superficialmente. Può irritare, poi, nel momento in cui viene spiegata, per essere alla fine compresa davvero dopo che la si è assimilata…»

Vediamo di compiere tutti i passaggi. Siediti e pazienta, NON sarò breve. Hai in mente quei tipi di cui dicono «Ecco, quello è uno che va subito dritto al punto!». Beh, di me NON L’HANNO MAI DETTO!


Alla classica domanda «Quali fumetti porteresti su un’isola deserta?» non saprei rispondere. Non è poi così stupida (non è il massimo, ma come gioco ci può stare), il punto è che ogni giorno cambierei risposta. Però so bene come risponderei se mi chiedessero «Fra quelli che hai letto, qual è il fumetto più sottovalutato, quello che ritenevi meritasse maggior fortuna?». Y, the last man, direi, maxi serie di 60 numeri uscita fra il 2002 e il 2007 per DC/Vertigo, e in Italia per Magic Press e completata da Planeta/De Agostini (almeno la versione che ho io, 11 volumi in tutto). Gli autori sono Brian K. Vaughan e Pia Guerra. Il primo ai testi, la seconda, co-creatrice, è la disegnatrice di quasi tutti i numeri. Un fumetto non molto conosciuto, quindi lo spiegone, sempre noiosissimo, è più utile del solito.

Un giorno, senza segnali premonitori, un’epidemia uccide nello stesso istante tutti gli esseri di sesso maschile della terra. Amici e sconosciuti, uomini ed animali…

Tutti, dicevo, tranne Yorick, un giovane appassionato di illusionismo ed escapologia (segnatelo, sarà importante alla fine) e il suo animale da compagnia, la scimmietta Ampersand. Conseguentemente alla tragedia, Yorick diventa l’unica speranza per ripopolare il pianeta. Un peso, questo, che mal sopporta. Alla ricerca della fidanzata Beth, “dispersa” in Australia, e braccato da una gang di amazzoni fondamentaliste, comincia a vivere le sue avventure in un’America allucinata, incredula e sconvolta di fronte al disastro.
Lo sviluppo della storia sembra strizzare l’occhio a Preacher, serie omaggiata espressamente in un albo, ma che in generale Vaughan doveva aver apprezzato. In Y non troviamo le situazioni estreme della serie creata da Garth Ennis e Steve Dillon, ma il viaggio di Yorick e delle sue compagne ha un sapore “on the road” che ricorda quello del Predicatore Jesse Custer, in un’America marginale e periferica. E pure le tavole di Pia Guerra, nel loro tratto essenziale, realistico, scarno, sono accostabili a quelle del disegnatore di Preacher.

Questo per delineare le coordinate essenziali della saga e dirti quale fosse l’idea di base. Un’idea semplice, efficace, non troppo originale. Che non sia originale NON è un difetto, quasi nulla della narrazione post apocalittica lo è. E qui addirittura le radici affondano fin dal titolo parecchio lontano. Non ricordo se Vaughan, che infarcisce il proprio testo con diverse citazioni letterarie, abbia menzionato espressamente questo romanzo fra le sue fonti di ispirazione…

«Si chiederanno forse i miei lettori come potessi trovare sollievo in una narrazione che tratta di miseri e dolorosi cambiamenti. Questo è uno dei misteri della nostra natura che ha totale controllo su di me e alla cui influenza non posso sfuggire. Confesso di non essere rimasta impassibile allo sviluppo di questa storia, e di essermi depressa, anzi di aver sofferto, in alcune parti della narrazione che ho fedelmente trascritto dal materiale in mio possesso. Tuttavia la natura umana è tale che l’eccitazione della mente mi era cara, e che l’immaginazione, pittrice di tempeste e terremoti, o, peggio, le burrascose e rovinose passioni dell’uomo, rendevano più dolci i miei dolori reali e i miei infiniti rimpianti, rivestendo quelli fittizi dell’idealità che toglie al dolore la sua fitta mortale.»

(Mary Shelley, Introduzione a L’Ultimo Uomo, 1826)

Anche nel romanzo della Shelley, ambientato alla fine del XXI secolo (ops…) abbiamo una pestilenza (ri-oops…) che stermina progressivamente l’umanità, lasciando un unico sopravvissuto.

(No, non farò il parallelo a cui stai pensando, con la pandemia che ha modificato la nostra vita all’improvviso ecc ecc. Ci stai pensando pure tu, non c’è bisogno di dire altro, procediamo)

Nel corso del racconto vediamo tutto lo strascico di conseguenze: reazioni disperate dei superstiti, conflitti inutili che si innescano, invece di affrontare davvero il dramma la cui soluzione interesserebbe tutti (ri-ri-ooops…) eccetera. Peraltro, neppure il romanzo dell’autrice celebre per Frankenstein sarebbe originale, ma torniamo a noi. O meglio, ad altre analogie…

Mi dà da pensare, pure stavolta non in negativo, questa coincidenza:

A sinistra la tavola d’apertura del terzo episodio di Y confrontata con una scena simile di The Walking Dead. TWD, scritta da Robert Kirkman, puoi trovarla in varie salse. Io ce l’ho completa nel formato bonelliano pubblicato da Saldapress. Ah, di TWD ho scaricato, per mia comodità, un’immagine promozionale dall’insipida serie televisiva, ma il ragionamento fila lo stesso. Seguimi.

TWD comincia le pubblicazioni negli States un anno dopo Y (primo episodio: ottobre 2003), e rispetto a quest’ultima condisce l’apocalisse in salsa zombie. Poco cambia. In entrambe le serie, il mondo come lo si conosceva non esiste più, sconvolto da catastrofi improvvise di cui non si sa il motivo. I sopravvissuti sono minacciati in un caso da un’epidemia misteriosa, nell’altro da fetide carcasse ambulanti e affamate.
Ma dicevo delle due immagini accostate qua sopra. In Y quanto in TWD, seppure in modalità e per cause diverse, gli autori vogliono mostrarci la caduta di certe pratiche quotidiane. La gente crepa anche mentre sta guidando, le strade si intasano e nessuno può intervenire per sgombrarle… Ti metti sulla strada fra mille difficoltà, e lo fai solo se hai una missione. Yorick deve rintracciare la Dott.ssa Allison Mann, genetista ed esperta di clonazione, per ripopolare il mondo. In TWD il protagonista Rick Grimes inizialmente deve cercare la moglie e il figlio. Ma, ripeto, se non hai una missione, ti chiudi in casa.
Guarda questo, ora:

Non deludermi, L’Eternauta lo conosci, dai! E meriterebbe ben altro spazio che non una riflessione incidentale, lo so… Per i quattro cani che non l’avessero letto devo solo ricordare che qui siamo a Buenos Aires e l’apocalisse viene portata da una strana nevicata. Fiocchi di neve fluorescenti, persino affascinanti, non fosse per l’effetto letale che causano istantaneamente a quanti vi entrano in contatto. Ne L’Eternauta la narrazione, rispetto agli altri esempi che stiamo seguendo, vira più verso la fantascienza pura: la nevicata è solo la prima avvisaglia di un tentativo di invasione aliena. E lasciamo stare tutti i sottotesti politici: interessanti, ma ora non è il caso.
Però, prova a badarci, ne L’Eternauta, così come negli altri due fumetti citati, gli autori indicano al nostro sguardo una direzione: la strada. In tutti e tre i casi il mondo, fuori, fa paura. In Y e in TWD i personaggi sono costretti a uscire, nel lavoro di Oesterheld e Solano López si chiudono in casa (più avanti  saranno costretti pure loro a uscire e a combattere, ma ora soprassediamo). In tutti e tre i casi non ci sono supereroi, ma solo persone comuni che, seppure fottutamente spaventate, si ribellano a disastri che, diversamente connotati, preannunciano un’apocalisse definitiva.
Anche stavolta stai pensando a quel parallelo con l’attualità. Anche stavolta passiamo oltre… Non prima di averti detto che il caso vuole che proprio in questi giorni Editoriale Cosmo stia riproponendo L’Eternauta: il redazionale del primo numero porta, en passant, un parallelo fra i sopravvissuti del fumetto by Oesterheld e Solano López con quelli di Kirkman. Ti giuro, me ne sono accorto DOPO aver scritto queste righe.

Torniamo a Y. Nella sua macrotrama è un fumetto fra i più atrocemente belli che io abbia letto. Racconto post apocalittico e critica disincantata al maschilismo e al patriarcato. Persino struggente storia d’amore, fra Yorick e la sua “guardia del corpo”, l’agente 355. E, sottotraccia, disilluso atto d’accusa verso ogni forma di esercizio del potere. O forse questo ce l’ho voluto vedere/leggere io: davvero non lo so…
C’è più di un messaggio inquietante in questa serie. E non si tratta solo dell’incredibile tragedia del primo episodio, la morte della popolazione maschile. Forse qualche secolo segnato dalla gestione del potere in mani quasi esclusivamente maschili ci dovrebbe far domandare cosa sarebbe successo se il potere fosse stato diversamente distribuito e gestito. E magari pensare che le condizioni dell’umanità sarebbero migliori (o potrebbero diventarlo) se il potere fosse stato (o finisse) nelle mani delle donne.
La risposta di Vaughan è pessimista. L’epidemia che uccide tutti gli esseri viventi dotati del cromosoma Y non diventa per le sopravvissute occasione per riplasmare un’umanità diversa, ma solo scintilla per un’ondata di follia. Anche le donne, sembra dire l’autore, non sono interessate a dare al mondo un futuro migliore: sicuramente pensano a Yorick come all’unica speranza per il pianeta, ma si dividono in fazioni che cercano di sfruttare ognuna per propri fini la presenza di un unico uomo sulla terra, in un allucinante gioco di potere per la futura supremazia.

E questo fin dall’inizio della saga:

Tutto questo come se la donna, da sempre destinata a essere personaggio secondario nella trama di qualche altro protagonista (sposa di, madre di, compagna di), vedesse nel nuovo mondo solo una possibilità di revanscismo. Pensaci, è un po’ la storia di Hedda Gabler. Ossessionata dalla volontà di affermarsi, nella feroce ricerca di autodeterminazione, precipita verso un destino tragico, non prima d’aver confessato «Almeno una volta nella vita voglio avere in mano il destino d’un uomo!». Il dramma di Ibsen ce l’ho in qualche strato geologico inscalfibile della cantina, per la citazione sono andato a memoria, spero di averla imbroccata. E, sì, la ricerca di autodeterminazione di Hedda è sacrosanta ma non per questo meno ossessiva.

Insomma, puoi declinarlo al maschile al femminile o con la schwa, ma il dilemma resta quello che si pone la Dott.ssa Mann:

Se preferisci, possiamo vederlo nelle parole di un’altra protagonista della serie, talmente odiosa che non la nomino neppure ma che, devo riconoscere, qui non spara lontano dal centro:

Ora, un altro salto logico.
Guarda questa:

La tavola è di Fumettibrutti, autrice che sa intercettare il presente come pochi, con stile personale e sguardo acido e acuto. Questa, infatti, è di qualche mese fa ed è stata rilanciata on line nei giorni sanremesi, quando una direttrice d’orchestra ha chiesto di essere chiamata “direttore”. Avrai seguito la querelle, immagino. Non preoccuparti, ora di quella non c’importa nulla.

La tavola, dicevo, l’avevo vista a suo tempo, ma nemmeno la ricordavo. La riscopro nei giorni sanremesi, rilanciata da un’altra artista che ti raccomando di seguire, Roberta Joe1 Muci (tratto spaventosamente originale, talento fuori scala, il suo). La riscopro, dicevo, e stavolta ci trovo qualcosa che non mi quadra. Resta bella ed efficace e acuta, chiaro. Però mi stona quel “capitana” finale, urlato come se una platea dovesse riconoscere (e riconoscersi) in un nuovo capo (o capa). Ne nasce una bella chiacchierata con Roberta, che riprendo e sistemo qua.

Sono anarchico, non ho nulla da spartire col potere, lo ritengo nemico dell’essere umano. Non ho bisogno di capi, o capitani, comunque declinati. Del comandante, del “chiamiamolo come vuoi”, capisco la triste necessità, in certi momenti. Il discorso sarebbe lungo, non voglio virare sui massimi sistemi, ora e qui… Diciamo solo che è un periodo che, sempre chiuso in casa (dannata pandemia!), mi faccio un sacco di paranoie sul rapporto fra l’essere umano e il potere. Sia chiaro: pure io il potere l’ho dovuto persino esercitare. Per il mio lavoro, come padre, per i mille ruoli che la società assegna. In fondo siamo fatti anche delle nostre contraddizioni, non mi spaventa. E mi rendo conto che averlo esercitato con disagio non basta a sistemarmi la coscienza, che non si fa lisciare il pelo fino a quel punto… Però io non mi dipingerei mai come “capo”, manco per scherzare. Nella mia anarchia non è importante tanto il non prendere ordini, quanto il non riconoscere a nessuno l’autorità di darne. Neppure a se stessi, ovvio.
Poi, dico sul serio, sono storto io e ha ragione Roberta: «Le voci sono da intendere come cori, come per dire aaaaah che suono meraviglioso la libertà di una donna di determinarsi professionalmente. Poteva esserci scritto idraulica, ingegnera, meccanica, ecc. Non c’è nessuna folla urlante che inneggia al verticalismo e al potere, tranquillo.»
Resta che quella tavola m’ha fatto venire quella riflessione, e indipendentemente dal rapporto causa-effetto mi è sembrato interessante svilupparla.
Solo pochi giorni prima, infatti, avevo scritto in un’altra discussione (giuro, non ricordo dove/perché): «il femminismo può essere il motore del cambiamento del mondo».

Al di là della “bella frase” (non ho autocompiacimento quando me ne capita una, se capita…) intendevo proprio: se il femminismo si unisce alla critica verso il capitalismo, capendo che il patriarcato è un pilastro dell’attuale sistema oppressivo, sarà il motore del cambiamento del mondo; altrimenti rischia di essere un’altra forma di esercizio del potere. Magari più equa, non discuto, ma perderebbe quella che, ai miei occhi è la sua forza essenziale. E cesserebbe d’interessarmi.

Ma parliamo del finale di Y.

Sul finire della saga, l’agente 355 rivela a Yorick il proprio nome, fino a quel momento tenuto segreto. La vicenda sembra potersi aprire a un nuovo futuro, per l’umanità e per la coppia. Vaughan e Guerra spostano il punto di vista, la voce della donna non viene udita, il suo nome resta un segreto per tutti tranne che per lei e Yorick, che hanno camminato assieme sul filo di una relazione che il lettore, esattamente come loro, vorrebbe vedere trasformata in un happy end.
Invece, un cecchino uccide la donna. E da qui in poi la vicenda cambia ancora tono. Il mondo sta davvero per rinascere, ma quello del protagonista precipita, stavolta definitivamente, nel dramma.
Nell’ultimo numero ci spostiamo nel futuro e assistiamo a una veloce carrellata degli ultimi anni di vita di Yorick. Ora lui di anni ne ha 85, il mondo è rinato grazie ai suoi cloni e finalmente nei posti chiave ci sono delle donne. Sembra essere davvero un mondo un po’ meno atroce di quello precedente, ma non per lui, che ha visto morire tutti i suoi affetti. Non tutti in modo tragico, chiaro: li ha visti morire perché è quello che accade a tutti.
Miracoli della clonazione e potenza della narrazione a fumetti ci consentono di assistere a un incontro fra Yorick vecchio e una versione giovane di se stesso:

Poco dopo, ricorre per l’ultima volta ai suoi talenti da Houdini (te l’avevo detto che l’escapologia sarebbe tornata fra queste righe) e fugge dalla prigione, seppur “dorata”, in cui è stato rinchiuso per timore di suoi “insani gesti”. Un ultimo numero da illusionista, per morire da uomo libero.


Bene. Ho scritto fin qui 15mila battute. Le ho scritte seguendo un’intuizione per nulla razionale, un filo che si era annodato nel cervello e ho provato a sbrogliare. Insomma, un pezzo del Tradrittore si è trasformato in uno Strano Anello… Ma mica perché lo volevo! Ho solo visto la tavola di Fumettibrutti e ho pensato a come potrebbe essere un mondo diverso. E ho pensato che quella tavola parla di una rivoluzione, quella del linguaggio, che secondo molti, troppi, «è importante MA» (fammi rovesciare Lenin, parafrasandolo: «il benaltrismo, malattia senile del progressismo»). Ho pensato poi che, invece, quella del linguaggio è una rivoluzione importante, sicuramente la più attuale, forse l’unica che si potrebbe vincere.

Poi il mio sguardo si è incupito. Proprio mentre continuavo a pensare a come potrebbe essere un mondo diverso.
Già quando ero giovane e guardavo ai miei simili vedevo poche persone che non mi facessero provare stizza del far parte anch’io dell’umanità. Questo non è mai dipeso dal sesso o dall’inclinazione di genere. Ora, più vicino all’esser vecchio che maturo e più malato che acciaccato, quella stizza è mutata in un amaro disincanto, sempre indipendente da sfumature di genere. Credimi: l’importanza di ciò che abbiamo in mezzo alle gambe e di come lo adoperiamo è estremamente sopravvalutata.
Dunque quel pensiero verso un mondo diverso mi ha ricordato la storia di Yorick. E quella ci dice che la rivoluzione, ogni rivoluzione, può anche riuscire, ma non esiste forma di potere che garantisca la felicità dell’individuo. Anzi, è il destino, con la sua monumentale indifferenza a ciò che siamo, a segnare il nostro percorso. Meglio sarebbe, per la nostra felicità, conservare verso l’umanità quello sguardo stupito che all’inizio de L’Eternauta uno degli alieni (un “invasore secondario”, per la precisione) dimostra verso una caffettiera:

Complice una bottiglia di Passito di Pantelleria mi sono trovato quindi sull’orlo dell’abisso, e ti ci ho pure accompagnato.
Ora basta. Se davvero mi hai seguito finora, hai capito che è meglio non spingersi oltre, fermarsi qui, tornare ognuno alle proprie faccende quotidiane come se davvero contassero qualcosa. Dopotutto, anche sul Titanic riordinavano le sdraio. Che è occupazione priva di senso, certo, ma non più di qualsiasi altra.

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