Né al cielo

Boris e Paolo | Strani anelli |

DIO, per come la vedeva San Tommaso, non avrebbe potuto non esistere. Aveva escogitato, se non ricordiamo male, almeno cinque modi logici per provarne l’esistenza. Il secondo, quello che preferiamo, lo aveva definito ex causa, e funzionava più o meno così: dato che ogni cosa, nell’universo, è causata da un’altra cosa ed è a propria volta causa di qualcosa d’altro, se noi si volesse risalire nella ricerca di codeste cause, arriveremmo – non potendo essere questa catena causale infinita (il perché di questa necessaria finitezza della catena causale, Tommaso non è che la spieghi molto bene: prendiamola per buona e tanti saluti!) – a un punto iniziale, a una causa prima universale che all’aquinate garbava, appunto, chiamare Dio.
Oggi, se abbiamo capito bene le ultime teorie delle neuroscienze, sembrerebbe che quella della causalità sia una necessità narrativa cui, per questioni biologico-evolutive, dà forma l’emisfero sinistro del nostro cervello per interpretare il mondo, la cui struttura sembrerebbe invece retta dalla più sfrenata casualità.

Attenendoci però, per comodità interpretativa e perché una causa ci serve a spiegarci e tollerare ciò che ci accade, alla teoria di Tommaso, possiamo considerare Dio, o con qualunque nome si voglia chiamare questa causa prima, il responsabile delle nostre esistenze. Assolutamente logico e legittimo quindi chiamarlo in causa: con la preghiera per ottenerne qualcosa, con la bestemmia per rinfacciargli un danno.

Vanni Fucci sapeva bene chi era il diretto responsabile della sua eterna collocazione in Malebolge, ed è per questo che Dante gli fa rivolgere a Dio una delle bestemmie più in voga a quel tempo:

«al fine delle sue parole, il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli Dio, che a te le squadro!”»

Squadrare le fiche era un gesto volgare, in voga ai tempi di Dante fino a quelli di Rabelais, che consisteva nel mostrare violentemente a qualcuno il pugno chiuso con il pollice infilato tra il medio e l’indice. Oggi sostituito dal pugno chiuso con il medio alzato. Una specie di vaffanculo. Per questo, ogni volta che leggiamo i canti 24 e 25 dell’Inferno dantesco, ci viene in mente la sequenza finale del film che consideriamo come la più alta e sublime bestemmia contro Dio.

The Truman Show di Peter Weir, infatti, non è un film sulla società dello spettacolo (cioè non solo), ma è un film contro la vita da scemi a cui Dio ci ha condannato. E l’uscita di scena con cui Jim Carrey/Truman Burbank sorprende il suo “creatore” che gli sta rivolgendo parole di amore e di dolcezza per farlo restare, e se ne va da quel set dipinto come il Paradiso, ha la stessa forza e lo stesso sapore del vaffanculo di Vanni Fucci. E scuote le nostre coscienze come aveva fatto Wendell P. Bloyd, quella volta che dalla sua tomba sulla collina ci raccontò di essere stato ucciso perché aveva svelato che

«God lied to Adam and destined him
To lead the life of a fool.»

Versi importanti, cui De André aggiunse questa chiosa:

«e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato.»

Quel giardino incantato da cui Truman fugge. Ma da cui fugge anche Dio, appena può. Come accade in Preacher, di Garth Ennis e Steve Dillon. E fugge perché il reverendo Jessie Custer (per motivi che non stiamo a raccontarti per non farti spoiler, ma che, se ancora non lo hai fatto, meritano assolutamente di essere letti) ha la precisa intenzione di ucciderlo. Uccidere Dio, che bestemmia!

La stessa bestemmia che, tutti i giorni della sua vita vissuta nell’ipocrisia, ha sorretto l’abate Jean Meslier. Curato della parrocchia di Étrépigny, Meslier si comportò per tutta la vita in modo insospettabile dai suoi correligionari, ma sotto la superficialità dei riti quotidiani, covava – come lasciò scritto sul suo splendido Testamento che sconvolse la Francia prerivoluzionaria, un’anima blasfema, che avrebbe voluto impiccare Dio con le budella del suo primo rappresentante in terra, il Papa o il Re.

Sono trascorsi più di tre secoli tra il Testamento di Meslier e le blasfemie che sono costate la vita ai ragazzi di “Charlie”. Come dice Caroline Fourest, non dobbiamo avere paura, nonostante quello che può costarci, di questo paradosso: la cosa più sacra che abbiamo è il nostro diritto di dare il sacro in pasto al CANE.

Questo strano anello è composto da:

  • Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, un’edizione vale l’altra tanto è una noia mortale e non lo leggerai mai.
  • Dante Alighieri, i canti 24 e 25 dell’Inferno, un’edizione qualsiasi della Divina Commedia
  • The Truman Show di Peter Weir, 1994
  • Edgard Lee Master, Antologia di Spoon River, la stessa edizione che l’Einaudi ci propina senza le necessarie modifiche da ottantadue anni
  • Un blasfemo di De Andrè, dall’album Non all’amore né al denaro né al cielo, 1971
  • I 66 numeri di Preacher di Garth Ennis e Steve Dillon (editi in Italia da Magic Press)
  • Jean Meslier, Testament, una qualsiasi edizione francese. Evita come la peste le traduzioni italiane.
  • Caroline Fourest, Eloge du blaspheme, Grasset, 2015 (ne auspichiamo presto una traduzione italiana)

Abbiamo accompagnato questo giro blasfemo con un rosso toscano del 1999 (sauvignon e merlot) della cantina Ciacci Piccolomini che, non a caso, si chiama ATEO.

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