Memorie di un mancato spettatore di calcio da cucciolo

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

A me, del calcio, non importa proprio nulla. E, credimi, non è snobismo. Non riesco a capire cosa succeda in campo. Sono ben intenzionato, tutte le volte: guardo cinque minuti di azioni; mi faccio spiegare un paio di cose; mi scandaglio dentro alla ricerca di un’emozione; poi, arriva la noia e mi distraggo; mi dimentico lo scopo del gioco. Quale fosse lo scopo del mio guardare lo schermo o il campo, ecco, quello non l’ho mai saputo.
L’11 luglio 1982 avevo quasi quattordici anni. Non ho visto la partita. O, meglio, ne ho visti cinque minuti e, poi, mi sono messo a fare altro. Di quel pomeriggio, ricordo bene il silenzio nel caldo estivo, le grida di esultanza o delusione che esplodevano nel quartiere, e le macchine stipate all’inverosimile di corpi e bandiere, che avrebbero festeggiato per tutta la notte. È stata quella la volta in cui ho imparato che a me i mondiali piacciono. E mica perché ci sia uno sport – sicuramente meraviglioso, ma che io proprio non riesco a capire – in azione. Mi piacciono perché in occasione delle partite dell’Italia, tutti si chiudono in casa e guardano la tv: per un paio d’ore, posso godere di una città che è finalmente solo mia. Di solito, durante le partite dei mondiali, faccio la spesa in un posto che, in condizioni normali, devo evitare perché troppo affollato, vado in un museo saltando le lunghissime code, vado a cena in un posto che richiede prenotazione con largo anticipo. Oppure, niente: resto sulla mia poltrona a guardare le figure, quelle stampate.

A me, del calcio, non importa proprio nulla. E non è snobismo. Penso sia molto più snob chi afferma di seguire quelle vicende per capire la società e i propri contemporanei. Analisi sociologiche mirate, condotte guardando una ventina di uomini in calzoncini e tacchetti che sbuffano, si strattonano e sgambettano, rincorrono una palla. Non mi è chiaro cosa si possa analizzare. I sogni di gloria e quelli di rivalsa? Il desiderio di potere o le veline in sposa? La ricchezza che uccide i sogni nell’incubo del calciomercato o il potere mediatico dei presidenti? Le regole che diventano metafora di vita? Il sistema di gioco? Il confronto economico e politico? Il pane e i circensi? Diego Armando Maradona, Zico, Pelè? Zoff, Gentile, Collovati, Scirea, Cabrini, Conti, Oriali, Bergomi, Tardelli, Rossi, Graziani? Ecco… mi sto già annoiando. Che palle!

Sono cresciuto in un quartiere periferico, di povertà e immigrazione. Il campo da calcio era erba sgangherata che lasciava la terra polverosa ben in vista, righe disegnate male con il gesso scaricato da una minibitumiera su ruote, le reti buone fissate all’intelaiatura di metallo e ruggine pochi minuti prima che cominciasse la partita, ragazzini a correre nel campo atteggiandosi a grancampioni, genitori a sbraitare e litigarsi dietro una rete verde… Il campo da calcio rappresentava il confine del nostro spazio. Insulti e bestemmie che sentivano di sud Italia e sfociavano in frequenti risse. Le partite, giocate quasi sempre nel fine settimana, erano la base ritmica sulla quale si articolava la quotidianità povera e violenta nella quale ero immerso. Su quel campo duro, di sassi e caviglie doloranti, si definivano le regole della convivenza, più o meno civile, tra i migranti che si erano insediati nei palazzi del Lazzaretto di Senago.

Mi metto in testa che rivedere la finale dei mondiali del 1982 potrebbe aiutarmi a capire chi eravamo. La cerco su YouTube e, fortunatamente, mi imbatto in una sintesi che dura appena dieci minuti: solo cinque più del limite contro cui mi schianto quando guardo il calcio. E niente… A parte notare l’assenza di crani rasati e tatuaggi, mi accorgo che c’erano le magliette infilate nei pantaloni, i baffi folti e alcuni giocatori con pettinature rubate al cinema di blacksploitation. Paolo Rossi sembra minutissimo e Zoff, che ricordavo con aspetto altero da unico adulto in una squadra di ragazzi, era un ragazzo pure lui. Sandro Pertini aveva 86 anni, la stessa età di mio padre oggi, e la sua esultanza, tutto sommato contenuta, è un bello spettacolo. Bearzot aveva un profilo meraviglioso, fatto apposta per solcare la memoria.

Ecco… la memoria, proprio lei. Basta menzionarla e mi viene in mente come trascorrevo quei mesi di caldo e scuola finita, scanditi da discorsi intorno, prima, all’incompetenza di Bearzot e, dopo, all’impenetrabilità di Gentile e all’infallibilità di Rossi. Facevo quello che ho sempre fatto: leggevo fumetti.

Era un momento di passaggio. Finite le scuole medie, con quegli esami un po’ farseschi, e in attesa di infilarmi in quel liceo scientifico da cui sarei uscito, cinque anni dopo, indenne, impermeabile a qualsiasi sapere avessero potuto inculcarmi. Indolente come ero e sono, riuscivo a conquistare l’invisibilità. Non sentivo, allora come oggi, il bisogno di appartenere a nulla, neanche alla tifoseria di una squadra, foss’anche Nazionale. L’unico momento in cui mi sentivo bene era quando naufragavo tra le pagine disegnate.

Era un momento di passaggio. I supereroi Marvel Corno avevano esaurito la loro carica propulsiva e in edicola c’era solo “Il settimanale dell’Uomo Ragno”; non ero un lettore di “Topolino” o “Diabolik”; avevo abbandonato “Il Giornalino”; “Corrier Boy Music” era inguardabile e “Lanciostory” e “Skorpio” li leggevo solo a casa della zia Nuccia a Messina; le riviste del fumetto adulto, quelle che negli anni successivi avrei chiamato “d’autore” e avrei letto famelico, ancora non erano entrate nel mio radar di ragazzo di provincia…

Era un momento di passaggio. Maturavo ossessioni per gli X-Men, pubblicati negli anni precedenti su “Capitan America”; sfogliavo assiduamente i numeri degli “Eterni” che avevo in casa, impazzendo per Mister Macchina, Omega, Cybernus e per quell’unica storia proprio degli X-Men, pubblicata nell’ultimo numero della testata, che sembrava proprio l’ultima; compulsavo la serie completa del “Grande Mazinga” pubblicata in formato comic book e a colori da Fabbri; leggevo e rileggevo due volumi dei Puffi di Peyo pubblicati da Salani (I puffi olimpici e I puffi neri); guardavo con ammirazione i pochi numeri usciti fino a quel momento di “Martin Mystère”, la più recente testata Bonelli…

Parlando con i miei coetanei, ho scoperto che, nella stragrande maggioranza dei casi, nel passaggio tra scuole medie e scuole superiori hanno smesso di leggere fumetti. Altri interessi, sicuramente più maturi, li hanno allontanati da quelle pulsioni di infantilismo. Pochissimi, dopo alcuni anni, di solito alla fine dell’università (ma il mio campione è veramente poco significativo), si sono riavvicinati ai fumetti, di solito sedotti dalla rinascita del comic book statunitense o dal manga.
Non ho mai smesso di leggere fumetti, neanche in quell’anno così  difficile. Mi era concesso pochissimo spazio per conservare i fumetti in casa: non mi potevo permettere di essere un collezionista e avevo albi, libri e riviste quasi casuali. Lo spazio in cui potevo tenere la mia carta era piccolo e, ogni volta che arrivava un nuovo albo, dovevo fare delle scelte.
Mentre Rossi, Tardelli e Altobelli infilavano la palla nella rete degli avversari, leggevo fumetti. Mi rifiutavo di partecipare al rito collettivo del calcio, un po’ per limiti personali, un po’ per evidente snobismo incipiente. Fremere, esultare, spaventarsi, saltare sul divano, insultare l’arbitro… All’unisono, come un corpo solo. Quasi tutti gli italiani stavano godendo di un momento epocale per la loro unità nazionale. Per ancora qualche giorno, il primo governo Spadolini – composto da Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Repubblicano Italiano e Partito Liberale Italiano, e stabilizzato dall’appoggio esterno di Südtiroler Volkspartei e Union Valdôtaine – avrebbe rappresentato un popolo incapace di trovare unità su alcun fronte. La nazionale che aveva sconfitto Argentina, Brasile e Polonia e si confrontava con la Germania dell’Ovest (ché, nel 1982, il muro definiva con chiarezza l’esistenza di due stati distinti) era uno dei pochi veri valori di appartenenza del popolo.

Prima di scoprire le riviste di Luigi Bernardi, prima di trovare quel libro di Rand Holmes, prima di impazzire per Richard Corben e per il suo Mondo Mutante, prima di piangere Quando soffia il vento… Ecco, prima di tutti quei momenti per me seminali, la scelta di guardare le pagine di Cybernus è stata l’espressione della volontà di non aderire a nulla. Così anarchico e libertario da non appartenere né a dio né allo stato, e neanche all’anarchia stessa e alla nazionale di calcio.

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