Supreme, la città delle idee di Alan Moore: ottavo passo

Francesco Pelosi | Mappaterra del Mago |

Nell’agosto del 1992, sul terzo numero di “Youngblood”, supersquadra ipertrofica di casa Image, Rob Liefeld fa esordire Supreme, la sua versione schizoide e ultraviolenta di Superman. Il personaggio inspiegabilmente, vista la sua palese inconsistenza, dà vita a una testata omonima che dura la bellezza di 40 numeri. A quel punto Liefeld chiede ad Alan Moore di occuparsene e quest’ultimo accetta, a patto di avere totale libertà creativa.
Moore, dopo“1963”, ha scritto qualche altra cosa per Image (fra cui un ciclo di “WildC.A.T.s.” di Jim Lee durato quattordici numeri), ma in generale niente di particolarmente notevole.
Dice al solito George Khoury: «Quando mi hanno affidato “Supreme”, era ovvio che fosse una “scopiazzatura” di Superman basata su un’interpretazione deviata dei fumetti che venivano prodotti a metà anni Ottanta».

In effetti, Liefeld aveva reso il personaggio inspiegabilmente violento e instabile, lasciandogli di Superman solo mantello e poteri, ma nulla del suo codice morale. Come già detto, questo era un vezzo ormai diffuso in tutto il settore, proprio a causa delle due pietre di paragone, Watchmen e Dark Knight Returns.
Guardando oggi quei due capolavori, ci si rende conto che la cosa che colpì davvero il grande pubblico fu la componente tecnica, il modo in cui quelle storie furono raccontate, mentre la decadenza di cui vennero ammantati gli eroi era più una conseguenza dei tempi che gli autori intercettarono.
Le tavole ultra frammentate e dinamiche di Frank Miller per il Cavaliere Oscuro fanno scuola ancora oggi, mentre il meccanismo alla base di Watchmen, il modo in cui l’implacabile trama thriller si fonde con la disamina sulla società e come entrambe le cose vengono rispecchiate e amplificate dalla costruzione delle pagine, rimane un esempio di rara e lucida scrittura. Ciò che salta agli occhi a chiunque prenda in mano le due opere è appunto la straordinarietà tecnica che le muove.
Da lì in poi, si è spinto a fare dei supereroi l’estremizzazione del mondo reale. Il gioco è stato quello di pervertire e portare all’estremo le dinamiche esistenziali, sociali e psicologiche della nostra realtà in continuo e spasmodico progresso, meglio se innestate su concetti scientifici e tecnologici sempre più complessi e al passo coi tempi (gente come Grant Morrison o Mark Millar ci hanno costruito una carriera). I comics della Golden e Silver Age invece, ingenui e per molti versi più limitati, esploravano altre zone dell’immaginario, più vicine al meraviglioso e al folle. Come dice chiaramente Moore, i fumetti di quell’epoca erano «letteratura d’evasione per tredicenni, non spazzatura dura e cupa per quarantenni».
Ritornato al fumetto mainstream quindi, con ormai molti anni d’esperienza alle spalle, Moore ha provato a sovvertire il canone che aveva imposto, mettendo la tecnica -di cui era ormai maestro- al servizio dell’immaginazione.

«Ricordo che al tempo la mia opinione era che la serie regolare di Superman fosse in realtà una brutta copia di Superman almeno quanto Supreme (…) Così ho deciso che preferivo di gran lunga il vecchio Superman, che preferivo la sua gigantesca mitologia e la sua continuity, tutti quegli elementi assurdi ma duraturi come Krypto, il super-cane, tutti quei dettagli datati che tuttavia avevano molto più fascino della moderna incarnazione del personaggio».

E così, all’inizio del numero 41 della sua serie, il primo scritto da Moore, uscito nell’agosto del 1996, Supreme, di ritorno da un lungo esilio spaziale, si ritrova su una terra che ha l’aspetto di una «fotografia sovraesposta», dove le cose fluttuano fra differenti versioni di loro stesse. Questo, come scoprirà l’eroe di lì a poco, è l’effetto dell’imminente revisione a cui la sua linea temporale sta per essere sottoposta.
Lo scrittore stravolge completamente le basi del personaggio, come già aveva fatto in passato con Swamp Thing, scaraventandolo in un meta-universo, la “Supremazia”, dove coesistono tutte le versioni di Supreme mai create. È lì che finiscono i Supreme, insieme a tutti i loro comprimari, una volta che avviene un revamp, una riscrittura delle origini o semplicemente un rilancio del personaggio. In questo modo l’eroe ricomincia le sue avventure, ora in tutto e per tutto simili a quelle del Superman della Silver Age, con la stessa incantata ingenuità -stemperata però da un’ironica consapevolezza- mentre scopre pian piano il suo “nuovo passato” insieme ai lettori.
Gli albi si dividono al loro interno fra il racconto del presente in stile Image anni Novanta (disegnato da Joe Bennet e da altri artisti dal tratto simile), e il racconto del passato, reso magistralmente da Rick Veitch che, esattamente come in 1963, ripropone gli eventi come fossimo in un fumetto Silver Age.

Chi conosce le opere successive di Moore, ritrova in queste pagine la maggior parte delle idee che le costituiscono. Come se il venire a contatto con il suo immaginario bambino, affiancato al percorso magico cominciato pochi anni prima, avesse causato una deflagrazione creativa che ha seminato le pagine di Supreme di straordinarie intuizioni.
Già nel secondo episodio, Secret Origins, facciamo la conoscenza della Lega dell’Infinito, supersquadra proveniente dal XXV secolo che, grazie alla Torre del Tempo (un’immensa scala a chioccola che scende fino al Big-Bang e sale fino alla fine dell’universo), agisce in tutte le linee temporali. Il gruppo ricalca la Legione dei Super-Eroi della DC ma aggiungendo una particolarità: i componenti della Lega arrivano dalle epoche più disparate non solo della realtà, ma anche della letteratura. Oltre alle creazioni originali di Lady Future e Giganthro, troviamo così Wild Bill Hickok, Aladino e Viviana, (l’incantatrice del ciclo arturiano) e più avanti si uniranno alla squadra anche Sigfrido, Mata Hari e persino un giovane Wilhelm Reich (con un cannone che spara energia orgonica). Il parallelo con la futura Lega straordinari Gentlemen che Moore svilupperà insieme a Kevin O’Neill è lampante.

Nel terzo episodio invece, Obscured by clouds, viene mostrata la Cittadella Suprema (corrispettivo della Fortezza della Solitudine di Superman) e veniamo così a conoscenza dei Supremautomi, della Dimensione Specchio in cui sono prigionieri alcuni suoi nemici (creata partendo proprio dallo specchio di Alice nel paese delle Meraviglie), del Mondo-Prisma di Amalynth (pianeta trasformato in luce e intrappolato in una gemma, come la città nella bottiglia di Kandor), del Supremium (la Kryptonite) e soprattutto del serraglio immaginario di Supreme, composto da esseri che vivono nella dimensione denominata Spazio-Mito.
Questo luogo sembra essere un’idea embrionale dell’Idea-Spazio, il reame condiviso in cui vive l’immaginazione che Moore esplorerà a fondo in Promethea ma che sarà alla base anche di Providence, Neonomicon e della Lega.

È interessante come viene descritto questo Spazio: accessibile grazie a un macchinario inventato da Supreme, collegato a un visore ottico, chi vi entra si trova subito a tu per tu con la propria coscienza, composta dai concetti che costituiscono la mente privata di ognuno, i legami personali, i luoghi visitati e le situazioni vissute. Uscendo da essa e addentrandosi più a fondo, si accede poi alla dimensione del pensiero di massa, dominata da immagini archetipiche e simboli culturali, finché, sprofondando ancor di più, si entra in contatto con lo spazio mentale altrui.
Per Moore il reame delle idee è assimilabile a una città dove ognuno di noi ha la propria casa – il suo territorio personale –  e dove, proprio come nel mondo materiale, esiste uno spazio condiviso – la strada – ed è dunque possibile far visita alla casa/spazio mentale degli altri. Così si può attraversare il mondo dei ricordi di qualcun’altro, quello delle sue emozioni, delle sue paure e giungere infine al luogo dove dimora la sua anima.
Allo stesso modo Moore mette in scena lo Spazio-Mente condiviso, una sorta di vero e proprio inconscio collettivo. In questo caso il viaggio parte da una periferia di pensieri superficiali, in cui si librano le considerazioni casuali della gente, quelle riferite alle immagini pubbliche, ai personaggi famosi e così via, per poi accedere allo spazio dei pensieri neurali, adibiti a linguaggio, logica e numeri, fino allo spazio in tempesta delle emozioni collettive. Passato quello, si apre il regno dei simboli e degli archetipi, zona franca in cui ci viene rivelato che è possibile incontrare anche creature “esterne”, forme mentali aliene (raffigurate come le divinità inconcepibili di H. P. Lovecraft).
«Questi strati profondi di coscienza», dice Moore per bocca di Supreme, «sono sempre più svincolati dallo scorrere lineare del tempo. Qui, passato, presente e futuro sono concomitanti».
Se nello Spazio-Mito si può trovare un’analogia con la realtà che ognuno di noi esperisce nel quotidiano, lo Spazio-Mente sembra invece rappresentare il mondo infinitesimale dove si palesano le leggi della relatività.
Sono questi concetti einsteniani che Moore esplora in queste storie, ampliando la concomitanza spaziotemporale anche ai mondi dell’immaginazione e considerandoli a tutti gli effetti parte integrante della realtà. I due luoghi-concetto di Spazio-Mito e Spazio-Mente convergeranno poi nell’Idea-Spazio, territorio allo stesso tempo privato e condiviso, esattamente come la casa di ognuno è parte di una terra in cui vivono tutti.
Non si tratta di meta-letteratura, come viene facile pensare, ma piuttosto di affermare una contemporaneità fra tutte le differenti dimensioni dell’esistenza e di conferire all’immaginazione un potere creativo decisamente pratico e reale.

«È sempre stato questo che ha rappresentato Superman per me quando ero bambino. Non rappresentava il potere o il senso di sicurezza, nient’affatto… Rappresentava idee piene di meraviglia, idee che per me, a quell’età, erano davvero magiche. Mi offrivano la chiave d’accesso alla mia immaginazione».

Ma, pur se colma di idee interessanti e mossa da ottimi intenti, la storia editoriale del Supreme di Moore è travagliata e purtroppo incompiuta.
Come detto, la sua run comincia sul numero 41 della testata che già dopo il 42 non viene più pubblicata da Image. Liefeld infatti, per incomprensioni con gli altri soci, lascia l’etichetta che aveva contribuito a fondare, pubblicando per un po’ sotto il marchio Maximum Press, suo progetto collaterale. Pochi mesi dopo, nel maggio del 1997, Maximum cambia nome e diventa Awesome e Supreme continua così a uscire fino al numero 56, quando viene bruscamente interrotto per mancanza di fondi nel mezzo di una saga in due parti. Ritrovato qualche soldo, nel maggio del 1999, dopo più di un anno, ecco apparire sugli scaffali Supreme: The Return, con la storia che riprende da dov’era stata interrotta per proseguire altri sei numeri, prima di fermarsi nuovamente, sempre per ragioni economiche, e questa volta per sempre. Da quel che sappiamo, mancavano solo due episodi alla conclusione del ciclo previsto da Moore.
Supreme: The Return 6 (il sessantaduesimo della numerazione originale) è dunque l’ultimo episodio dello scrittore inglese e proprio in quella storia, con un gesto che in retrospettiva non può non apparire simbolico, Moore fa incontrare Supreme, il “suo” Superman, con un essere chiamato “il Creatore” o più semplicemente “il Re”: nientemeno che Jack Kirby. Involontariamente, Moore lascia il fumetto che per sua stessa affermazione gli ha fatto riscoprire i motivi per cui cominciò a scriverli, facendo incontrare i suoi due eroi d’infanzia.
Nel 2000, quando Khoury lo intervista per “The Jack Kirby Collector”, chiedendogli dell’unica volta che incontrò il Re, la sua ammirazione traspare immediatamente dalla risposta:

«Mi ricordo solo che scambiò due chiacchiere con me e Frank Miller e con la sua voce profonda ci disse: “Ragazzi, siete grandi. Ragazzi, avete fatto un lavoro fantastico! Voglio davvero ringraziarvi.” Fu quasi imbarazzante sentire Kirby che ci ringraziava. Lo rassicurai dicendogli che ero io a doverlo ringraziare perché aveva fatto così tanto perché potessi diventare un autore di fumetti. Aveva una luce attorno a sé, Jack Kirby. Era una persona davvero speciale, molto speciale».

Per questo incontro epocale, Moore manda Supreme a indagare su una misteriosa città apparsa improvvisamente in una vallata dell’Hymalaya, New Jack City, e attraversando una serie di luoghi immaginari che riprendono le tipiche situazioni kirbyane, dai sobborghi di New York fino a imponenti mondi interstellari, l’eroe si ritrova faccia a faccia col Re.
Fortunatamente la storia è disegnata quasi tutta da Veitch (il vero punto debole della serie – fatto salvo Chris Sprouse che si aggiunge però alla fine – sono sempre stati i rozzi e muscolari disegnatori) con il solo personaggio di Supreme lasciato alle chine di Liefeld, così da estremizzare il contrasto tra fumetti di oggi e di ieri, lo stesso tentato in 1963.
Il Re, morto ormai da alcuni anni, viene rappresentato come un essere multidimensionale la cui faccia cambia continuamente, passando da essere Kirby a essere come disegnato da Kirby, e dice all’eroe di essere felice ora, essendo diventato completamente immaginario e potendo così creare in continuazione tutti i mondi che vuole, senza trovarsi più prigioniero della materia.
Poi, con un  breve scambio di battute, Moore mette in prospettiva l’intera storia dei comics, vera protagonista della serie, facendo risalire tutto a tre archetipi provenienti dalla letteratura pulp.

KIRBY: «Sei un Wylie, giusto?»
SUPREME: «Un Wylie? Cos’è un Wylie?»
KIRBY: «Ah, viene da questo tipo, Phil Wylie. Ha scritto un libro, “Gladiator”. Ha un po’ introdotto tutto l’archetipo del superuomo. Che poi saresti tu, guarda caso. E poi, i tipi alla investigatore tenebroso, li chiamiamo i Gibson. Le principesse guerriere sono le Moulton. Io non ho mai creato un Wylie. Ma ne ho maneggiati alcuni».

Phillip Wylie, scrittore americano della prima metà del Novecento, pubblicò il suo romanzo Gladiator nel 1930. Nel libro il protagonista inventa un siero per acquisire la forza proporzionale di una formica e la capacità di salto di una cavalletta, diventando di fatto un super-uomo. Gli stessi due esempi su formica e cavalletta vengono riportati poi da Jerry Siegel nella prima tavola di Superman del 1938, per dare una «spiegazione scientifica dell’incredibile forza di Clark». Gladiator è stato probabilmente il diretto ispiratore di Superman (creato da Siegel nella sua forma embrionale nel 1933), così come un altro romanzo di Wylie, The Savage Gentlemen del 1932, sembra aver ispirato il Doc Savage di Lester Dent.
Walter B. Gibson, in attività negli stessi anni di Wylie, fu invece fu il creatore delle avventure di The Shadow, “investigatore tenebroso” con cappello, mantello e sciarpa a coprirgli il volto e progenitore di Batman, nato inizialmente come sola voce radiofonica e poi protagonista di svariate novelle e fumetti, mentre lo psicologo William Moulton Marston insieme alla moglie Elizabeth Holloway Marston e alla reciproca amante Olive Byrne, fu il creatore di Wonder Woman.
Due dei personaggi di punta della America’s Best Comics, l’etichetta che Moore fonderà di lì a poco, saranno proprio un “Wylie” e una “Moulton”: Tom Strong e Promethea, i cui tratti fondamentali si ispirano direttamente a Doc Savage e Wonder Woman.

La storia di Supreme resta così sospesa, vaga e spesso raffazzonata nei disegni, come nessun’altra opera di Moore. In più, per la ristampa in volume che Checker Books ne fa a inizio anni 2000 vengono utilizzate le scansioni degli albi e non le pellicole originali, penalizzando notevolmente la qualità delle pagine di tutte le (rare) riedizioni successive. L’omissione dalle ristampe di alcune storie brevi che completavano il quadro ironico-filologico pensato da Moore e la perdita dei diritti sul personaggio da parte di Liefeld, non hanno fatto altro che decretare ancor più precisamente la graduale caduta nel limbo di queste storie.
Da una parte Supreme rimane un episodio minore nella bibliografia di Moore, un testo di difficile accessibilità per chi non abbia già confidenza con il mondo dei supereroi e la sua interminabile letteratura, ma da un’altra continua a splendere come una pietra grezza di creatività, un immaginifico magma ribollente da cui sono partite tutte le strade future dei suoi lavori.

«Quello che volevo dire con Supreme e 1963 era che si possono fare supereroi oscuri, ma c’è grande divertimento anche con i supereroi che non lo sono. Anche senza psicosi o ulteriori motivazioni simili. I supereroi sono ancora un eccellente veicolo per l’immaginazione», dirà a suggello dell’esperienza.

Resteremo fra le mura della cittadella dorata di Supreme ancora per un po’, in attesa che passi la calura. Ritorneremo a esplorare la Mappaterra appena la stagione lo permetterà.

[Continua]

Arnesi del cartografo

Il volume Supreme: The Story of the Year, pubblicato da ReNoir nel 2012, comprende i numeri dal 41 al 52 della serie, contenenti la saga completa che da’ il titolo al volume. I restanti episodi, quelli dal 53 al 62, sono stati pubblicati in Italia solo da Free Books in tre brossurati intitolati Supreme: The Return, la cui cura editoriale è piuttosto scadente e che hanno però due appendici redazionali scritte da Lorenzo Corti molto interessanti e ben fatte che descrivono le vicende di Moore alla Image/Awesome.

Un paio di anni fa smokyman ha ripubblicato sul suo blog un suo pezzo risalente al 1997 dove parla diffusamente di Supreme,

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