Paradisi e mattatoi
Publio Ovidio Nasone, imbarattolato nella mia memoria con l’etichetta poeta dell’amore, non l’avevo mai aperto. Quando mi è venuto lo sfizio di leggere le Metamorfosi, cercavo soprattutto storie fantasiose e un ripasso di mitologia per fare bella figura alle prossime cene. Ho trovato invece un fiorito catalogo di stupri. Una parola diversa per quelli che Italo Calvino chiama «innamoramenti a prima vista, un richiamo impellente, senza complicazioni psicologiche, che esige soddisfacimento immediato»: una botta e via senza tanti pensieri. Cito da un suo celebre saggio del 1979, Gli indistinti confini che è, come la stessa poesia di Ovidio, piacevolissimo da leggere. Einaudi ancora oggi lo propone come introduzione alle Metamorfosi.

Dice invece Amy Richlin (poi te la presento): «Like a bow on a slaughterhouse». Che vuol dire: come un fiocco sopra un mattatoio, la bellezza della poesia di Ovidio adorna uno stupro dopo l’altro. Un’immagine che funziona anche per il Calvino commentatore di Ovidio.
Se è ovvio che la letteratura classica, prima di venire smerciata nei licei, venga depurata, sterilizzata e porzionata; che Marziale o Petronio, qualificati di striscio come licenziosi o simili aggettivi sbrindellati, compaiano a stento nelle antologie; che la cultura greca prima, e quella latina poi, debbano fare da asfalto dorato per la luminosa autostrada della nostra civiltà lanciata verso un futuro ancora più splendido; resta più difficile digerire un Calvino estetizzatore di stupri.
Il Calvino raccoglitore e creatore di fiabe; il Calvino visionario e postmoderno che decostruisce il romanzo in una cavalcata di incipit onirici, che riflette il paesaggio in un caleidoscopio di città-miraggio; il Calvino iperrazionale e analitico che rivela la laboriosa impalcatura della leggerezza; il Calvino di Cosimo illuminista radicale, di Agilulfo fatto di sola volontà? Questo Calvino, leggendo Ovidio, si fa irretire del tutto, cade vittima dell’incantamento della creazione poetica, perde di vista la cosa?

A leggerlo con attenzione, Gli indistinti confini, più che un saggio su Ovidio, sembra soprattutto uno studio preliminare alle Lezioni americane. Ci si trovano già tutte le categorie che compariranno nel famoso libro postumo. Leggerezza: «È continuando ad arricchire il quadro che Ovidio raggiunge un risultato di rarefazione e pausa…»; rapidità: «Le Metamorfosi sono il poema della rapidità. Tutto deve succedersi a ritmo serrato… »; esattezza: «La precisione tecnica con cui Ovidio descrive il funzionamento dei telai» nell’episodio di Aracne; visibilità: «Un’avventura umana resa con tale precisione di dettagli da non farci perdere il filo nemmeno per un secondo»; molteplicità: «… la tecnica di moltiplicazione dello spazio interno all’opera… impressione di fitto, di gremito, di intricato… »; coerenza: «la coerenza poetica nel modo che Ovidio ha di rappresentare e raccontare il suo mondo… ».
Calvino non scrive sulle Metamorfosi con la distanza del critico, ma si immerge in Ovidio e lo sviscera da dentro. Ne parla da persona coinvolta, con un’identificazione estetica quasi completa e con l’obiettivo di mettere a nudo, per impossessarsene, quella perizia tecnica del poeta che al lettore può sembrare magia. Apre il suo saggio con la descrizione ovidiana del mondo degli dèi celesti, vi accede lui stesso e da questo paradiso non trova più l’uscita.
Sono possibili altre letture? Chi è autorizzato a tentarle, chi a discuterle?
Si può forse parafrasare Dürrenmatt nella sua riflessione sulla fisica dicendo: «La letteratura riguarda scrittrici e scrittori, ma le sue conseguenze riguardano tutte e tutti»?
Posso allora, sulle conseguenze di Ovidio, anch’io dire la mia?
Parola e immagine
Ovidio, infatti, non resta senza conseguenze. Solo Wikipedia cataloga oltre settanta dipinti del soggetto di Apollo e Dafne, sparsi per tutto il mondo occidentale e in tutte le epoche da Ovidio in poi.








Guardiamone alcune: si parte dall’abbraccio forzato di due figure rigide in un affresco pompeiano, si progredisce a una versione fantasy-horror in luce verdognola di Pontormo, poi a una del Tintoretto, vertiginosa, che tende quasi all’astratto (niente concilianti paesaggi veneziani), di seguito in Felice Albani troviamo Dafne con le caviglie gonfie e il passo pesante, il livello successivo la vede come una ballerina impacciata, coi rotoli di grasso nella schiena, inseguita da Apollo con la pancetta molle in Rubens, e infine, saltando la fin troppo celebre statua del Bernini, non posso tacere il mio disprezzo per Waterhouse, sempre pornografico e reazionario, adatto per una locandina di Laguna Blu o una pubblicità de L’Oréal. Ai dipinti, Wikipedia aggiunge una decina di statue (che saranno certamente molte di più: in un museo a caso ne ho trovata subito all’ingresso una di tale Schülter mediamente sconosciuto), qualche arazzo, una manciata di mosaici, un numero imprecisato di incisioni, piatti e piastrelle. Si trova almeno un webcomic. La Dafne di Ovidio è molto rappresentata, più che l’alloro, sembra il prezzemolo della storia dell’arte.


Dafne e Apollo sono leggenda, emblema, incubo ricorrente, la parte per il tutto che sono le Metamorfosi e che contengono anche altro. Cosa? Per scoprirlo ho seguito le due tracce che avevo: la traccia stupro e la traccia Calvino.
Amy e Italo
«A woman reading Ovid faces difficulties» è l’apertura lapidaria del saggio di Amy Richlin citato sopra («Una donna che legge Ovidio incontra delle difficoltà»). Scritto nel 1992, si trova in rete – provate a indovinare seguendo quale delle due piste. Se avesse vissuto abbastanza a lungo da leggerlo, cosa ne avrebbe detto Calvino?

Questo saggio non offre solo un altro sguardo: leggere Richlin è affacciarsi su un mondo. E qui devo fare una confessione: non mi aspettavo che una ricercatrice americana mi mostrasse la Roma antica con una concretezza e vivacità che mi erano sconosciute. Nel mio cervello – che si considera aperto, illuminato! – gli europei, gli italiani in particolare, avevano la prerogativa del contatto diretto col mondo classico, le chiavi di lettura istintive, la dimestichezza innata per conoscerlo. Questa simpatica signora del New Jersey con i lunghi capelli rossi, capitana di canottaggio femminile a Princeton nel 1970, ha spalancato la porta sullo sgabuzzino dei miei pregiudizi, illuminando impietosamente le nozioni ammuffite sui ripiani. E mi ha servito un Ovidio caldo e croccante in una Roma piena di ombre e luci, puzze e profumi.
Ma quindi, questo libro di poesia che tengo in mano, cos’è? Amy Richlin risponde con una precisione disarmante: «Il racconto di uno stupro può essere anche qualcos’altro, ma resta il racconto di uno stupro». Riga dopo riga, fa cadere i veli della mistificazione culturale, mettendo a nudo le Metamorfosi come un libro bellissimo e, insieme, orrendo. Possiamo ammirare, dice, «l’isocolo, il chiasmo e l’asindeto» inanellati nel minor spazio possibile, fare onore a «Ovidio prestigiatore» della parola, eppure «l’analisi stilistica non sostituisce l’analisi dei contenuti e anzi ci impone di spiegare quale sia l’effetto di quello stile su quel contenuto».

Il mito di Dafne e Apollo raccontato da Ovidio si può tranquillamente leggere per intero, è infatti lungo giusto un centinaio di versi, meno di tre pagine, e vale la pena farsene un’idea di persona. Volendo riassumere: Apollo, colpito per vendetta dalla freccia dorata di Eros, desidera sessualmente la naiade Dafne, la quale invece, dedita ad Artemide e alla caccia nonché a sua volta bersaglio della freccia di piombo dell’odio, lo rifiuta e scappa. Il dio sfoggia il repertorio classico: parte dalle dichiarazioni amorose, passa alle suppliche e culmina nelle minacce, insomma la vuole a ogni costo, e la insegue come un cane la preda (parola di Ovidio). Quando sta per acchiapparla, lei, pur di non farsi violentare, rivolge una preghiera a suo padre, un dio fluviale dotato di poteri magici, e questa preghiera è la richiesta precisa di essere sfigurata per non piacere più. Diventa quindi un albero di alloro, e qui compattissimamente Ovidio descrive in cinque versi magistrali la trasformazione che fa sdilinquire tutti i commentatori e ispira dipinti e statue per millenni a venire.
Cosa ci fa notare Calvino? Che Ovidio è un maestro dell’«economia della metamorfosi: le nuove forme recuperano i materiali delle vecchie», i piedi diventano radici, le braccia rami, i capelli la chioma, e che Dafne, in particolare, era già «predisposta dalle sue linee flessuose alla metamorfosi vegetale». Ammira quindi acriticamente questa perversa ottimizzazione delle risorse operata sul corpo della vittima.
Cosa ci fa notare Richlin? Che Ovidio guida il nostro sguardo sulla donna in corsa, su come il vento della fuga che le scuote i capelli e le toglie i vestiti la renda ancora più bella. Richlin lo collega poi ad altri passaggi ovidiani in cui è ancora più esplicitamente la paura a far apparire attraente una vittima di stupro. Ci dimostra, testo alla mano, che stiamo assistendo con gusto allo spettacolo di una donna terrorizzata.
Calvino è completamente invischiato, soggiogato dal virtuosismo della parola. Richlin è così vigile da metterci in guardia perfino contro sé stessa, categorizza la propria lettura come metapornografia, ci dice: attenzione, io qua riproduco quello sguardo che cerco di analizzare e decostruire. Eppure, dei due, la filologa classica per formazione è Richlin.
In questa sua mancanza di distacco, il nostro critico scrittore cade in più di una trappola, anche se mi fa fatica ammetterlo. Per esempio parlando di Medea. Se Calvino avesse opinato che dare fuoco ai propri figli per vendicarsi del marito è moralmente eccepibile, saremmo ben sollevate nel dargli ragione. Ma lui, per Medea, non ha che due parole: «scellerata gelosia», manco fosse una che ha scatenato l’inferno per qualche sciocchezza. Medea, ricordiamolo, per Giasone ha sterminato tutta la sua famiglia di origine, ha sparso in mare i pezzi del fratello e si è lasciata deportare lontano dalla sua terra dove non conosce nessuno e tutti la odiano. Ora viene lasciata per un’altra donna, figlia di un re, che Giasone intende sposare per assicurarsi il potere politico. Se spaventosa è la sua vendetta, chiamarla gelosa di certo rende scarsa giustizia alla sua storia. Ma questa sfortunata scelta lessicale serve a Calvino come esempio per un suo deplorevole argomento: è intento a mostrarci che in Ovidio, quando sono le donne a prendere l’iniziativa, troviamo «amori più complessi, non capricci estemporanei ma passioni, che comportano una ricchezza psicologica maggiore». Ecco qua! Con le donne dolcemente complicate, cervellotiche e passionali abbiamo davvero completato il desolante quadro.

Di nuovo, la chiave di lettura di Richlin è enormemente più produttiva. Dice, citando Angela Carter che interpreta Sade: «Anche la dominazione femminile, quando è inscritta nella sceneggiatura, non serve che a dare un fremito in più». La femmina-soggetto nelle Metamorfosi è rara, ed è una dilettevole variazione sul tema che conferisce un po’ di variabilità alla carrellata di scempi. Altrimenti qualche centinaio di stupri e omicidi tutti identici rischiavano francamente di diventare noiosi.
Insomma, Calvino se la beve tutta! Proietta su Ovidio una stereotipica caratterizzazione del femminile (sensibilità, passionalità, problematicità) in contrapposizione allo scontato profilo maschile «senza complicazioni psicologiche», intesse questa non-analisi all’interno di un gioioso elenco di costanti e variabili negli episodi ovidiani, ammira la maestria dei cliffhanger al finale di ogni libro e conclude in bellezza il suo saggio sull’episodio di Eco e Narciso.
Per Richlin invece le femmine predatrici in Ovidio sono l’occasione di ragionare su un’ulteriore forma di estetizzazione della violenza nonché sul legame tra genere e potere. Entrano così nel quadro altre tipologie di vittime: schiavi, danzatori, mimi, gli interpreti degli «stupri di Ovidio in 3D», a loro volta reificati e abusati da personaggi ricchi e famosi.
Ma vogliamo tutti bene a Calvino ed Einaudi lo sa. Quindi è suo il saggio che troviamo in apertura e suo è il nome in copertina delle Metamorfosi ancora nel 2025. Tirerebbe altrettanto, in Italia, una professoressa statunitense con una prospettiva femminista sui classici?
Nella seconda parte osiamo affondare le mani nel ricco bottino di domande che il confronto di queste due prospettive ci regala.
[Continua]