La responsabilità è una danza: perché da grandi poteri…

Paolo Interdonato | Disegnetti per perditempo |

Mah… quella di dedicare un intero mese di (Quasi) alla responsabilità mica è stata una grande idea. Mi chiedo di chi sia stata. Certo, o mia o di Boris. Mica voglio dare la colpa ad altre persone. Già è bello avere qualcuno con cui smezzarsi la responsabilità per tutte le cose che faccio. Invidio molto tutte le persone così tanto autoindulgenti da trovare fuori da sé colpe per tutto quello che di male accade loro. C’è una canzone di Anna Castiglia, Ghali, che a un certo punto fa: «Se ottengo qualcosa è merito mio / Ma se la perdo è colpa di Dio». Due barre scritte per tirare in giro la trap che, con noncuranza, dicono tutto. La responsabilità come mascheramento del narcisismo.

Ho un problema con le colpe. Sono un grande semplificatore: ripongo le pulsioni metafisico o spirituali e le superstizioni nello stesso scantinato mentale, umido e muffo. Quando grido «Portatemi il responsabile!», mi ritrovo sempre ammanettato, pur non avendo alcuna intenzione di scappare, e pronto per un giudizio sommario, in assenza di processo.

Forse è anche per questo che mi piacciono così tanto i fumetti: costruiscono personaggi da reiterare. Devono funzionare in contesti ciclici e seriali. Così si muovono in pagina come figurine di carta semplici e stereotipate. Personaggi che, nella maggior parte dei casi, indossano sempre gli stessi vestiti, devono avere delle caratteristiche facili da riconoscere, presentano un narcisismo esuberante e una volontà di ripetere sempre le stesse azioni che può sembrare un banale, per quanto articolato, sistema di disturbi ossessivo-compulsivi. Il fumetto ha un modo tutto suo di incarnare la responsabilità. Lo fa nel senso più letterale possibile: mette in pagina corpi di eroi disegnati migliaia di volte che devono dire, con il loro agire di pupazzetti sulla pagina, anche la tensione morale: figure, gesti, muscoli, abiti, pose, code, orecchie, ripetizioni, variazioni minime, prosecuzioni, riscritture e cliffhanger.

La responsabilità, nei fumetti, si scrive nei gesti. È una questione di tensioni trattenute, di inquadrature che si ripetono e insistono. Parlare di responsabilità in un fumetto non può prescindere dalla pagina (o dalla striscia, certo): una forma architettonica che scandisce il ritmo e il tempo; un ritmo che si incarna nella figura. La responsabilità nei fumetti è un corpo che si muove al ritmo della pagina: la responsabilità è una danza.

Iniziamo con Spider-man, un eroe reticente. L’idea è semplice: Peter Parker, il più sfigato di tutti, viene morso da un ragno e diventa fortissimo. Appena scopre di poter rivalersi su un mondo che lo ha sempre maltrattato, fa una bassezza che produce la morte dell’amato zio Ben. Da quel momento, «da grandi poteri derivano grandi responsabilità» e i sensi di colpa lo macereranno per sempre e blablablà. Ma non basta. In lui la responsabilità è legata all’ineludibilità del fallimento. Ogni gesto eroico è insufficiente e Peter Parker, Spider-man, è condannato a non bastare mai. È il soggetto moderno che scopre l’inadeguatezza strutturale del bene. E la sua incapacità di farlo. Guarda come lo disegna Steve Ditko e come lo hanno disegnato tutti quelli bravi: un corpo esile, scomposto e flessuoso che si inarca appeso a un filo tra i grattacieli della città.  Non è mai abbastanza saldo, sempre in bilico tra il volo e la caduta. Come fa a essere responsabile uno che non sa tenere i piedi per terra? Quando Gil Kane e John Romita disegnano Gwen che muore per lo strappo letale causato dalla ragnatela, l’immagine accusa Spider-man: la responsabilità è anche fare il gesto giusto nel momento sbagliato. O, anche, il gesto sbagliato nel momento sbagliato.

Batman ha il potere. A che ti serve essere responsabile se sei ricco, potente e armato meglio di chiunque altro? Già, a niente. Infatti, leggiamo quotidianamente di governi assassini presieduti da carogne ricche, potenti e armate meglio di chiunque altro. Ti ha infastidito quello che ho detto di religioni e superstizioni? Lascia che provi a rimediare, citando il Vangelo di Marco: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio». E infatti, le persone ricche, potenti e ben armate sono inevitabilmente delle carogne schifose. Batman è quella roba lì. È il poliziotto, il giudice e il boia. È un padrone psicopatico che gestisce la sua città (con abitanti annessi) come una proprietà. Decide per gli altri, impone un ordine. Dopo Frank Miller, tutti hanno imparato a disegnarlo enorme: sempre ingombrante, troppo grande per le vignette, troppo scuro, troppo rigido. Il suo corpo è armatura, postura rigida, contenimento. Ti osserva e ti punisce quasi avesse studiato Michel Foucault per capire come usare al meglio il controllo per esercitare il potere: Gotham City è il suo Panopticon. E questa è responsabilità: non poter mai abbassare la guardia, nemmeno dormire, per esercitare il potere.

Superman è un irresponsabile. Ha rinunciato al dominio. È un dio e potrebbe tutto. Ma proprio perché potrebbe tutto, sceglie di non farlo. La sua responsabilità è nella misura. Non è un sovrano, è un contadino del Midwest. La sua forza non sta nell’intervenire, ma nel trattenersi. È il dio che si fa borghese per rispetto verso gli umani. Indossa gli occhiali e un completo tre pezzi e va a svolgere un lavoro impiegatizio. E quando si svela, coi muscoli e il mantello, diventa istituzione. Vola con un elegante pugno davanti a sé, si ferma a mezz’aria con le mani sui fianchi: è sempre composto. Ma tutto il male del mondo è colpa di chi non lo ha fermato.

E Topolino e Paperino? Si presentano con un assurdo dualismo.
Topolino è il cittadino modello: educato, curioso, aiuta la polizia, è ottimista. La sua responsabilità è civica: sa che la società dipende dalla somma dei piccoli gesti corretti. Non è un eroe, è un cittadino in azione. E se ci sono le forze dell’ordine, lascia che a occuparsi dei criminali siano loro: in fondo ACAB: All Cops Are Basettoni.
Paperino, al contrario, incarna la fuga dalla responsabilità: scansafatiche, polemico, iracondo, sempre sopraffatto dalle angherie altrui. Ma non è solo pigro: è il soggetto proletario che sa che ogni responsabilità imposta è sfruttamento mascherato. Tuttavia, quando l’occasione è fantastica (dalle grandi avventure barksiane a Paperinik e PK), ecco che accetta il peso. La responsabilità, per lui, vale solo se promette un altrove. E allora diventa un avventuriero, che compensa il fallimento con l’invenzione di sé.

Potrei continuare a lungo: con Dylan Dog, Valentina, Berserk, One Piece, Buddy Bradley, Tank Girl… ma preferirei proseguissi tu questo esercizio, con i tuoi personaggi preferiti.

Alla fine, mi pare che la responsabilità, nei fumetti, non sia solo un tema. È una forza che deforma i corpi dei personaggi e la struttura delle pagine: costringe, protegge, spezza, espone. A volte è un peso che schiaccia. Altre volte, un gesto di cura. Sempre, è un modo per stare nel mondo attraverso il disegno.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)