La parafrasi del tempo

Heavy Metal di Gerald Potterton è un film d’animazione del 1981. Mi ci sono imbattuto un po’ dopo. Avevo già letto gli articoli dedicatigli in un numero dell’edizione italiana della rivista “Métal Hurlant” e mi ero perso nei fotogrammi che corredavano quegli interventi. A un certo punto, sul finire degli anni Ottanta, mi sono procurato quel film in videocassetta e ho iniziato a guardarlo e a riguardarlo. Era emozionante. Si apriva con una Corvette del 1960 che attraversava l’atmosfera e atterrava, con dolcezza, nel deserto. E, da lì in avanti, sfere di cristallo verde portatrici di tutti i mali, taxisti cinici con disintegratori laser installati tra i sedili, Den, Sternn, e decine di altri personaggi meravigliosi. Fino al finale con Taarna, bellissima guerriera silenziosa in sella a uno pterodattilo bianco. Quell’episodio mi ha turbato tantissimo.
Dopo aver sorvolato un deserto pieno di picchi rocciosi, lo pterodattilo atterra in un luogo di culto. Tarna, avvolta in una veste marrone e pesante, smonta dalla sua cavalcatura, si scopre il capo, mostrando una stupenda chioma bianca, e si sfila la tunica, rimanendo completamente nuda. Attraversa a nuoto una piscina limpida, per giungere ai piedi dell’enorme statua dedicata a una dea guerriera. Da una cassa antica, raccoglie i pochi elementi di un abito da guerra e inizia a vestirsi. Molto lentamente. Certo, è una donna sessualizzata e oggettificata, ma quella sequenza è potentissima.
A quel punto, ho fatto quello che, nella seconda metà degli anni Ottanta, avrebbe fatto qualsiasi postadolescente con un videoregistratore: ho riguardato la sequenza, in modalità reverse, godendomi lo striptease.
Le bobine di una videocassetta VHS, avvolgibili in entrambi i sensi, mi hanno spiegato, meglio di qualsiasi trattato scientifico, il paradosso della freccia del tempo. Il tempo, a guardare le leggi della fisica con miope sguardo teorico, dovrebbe essere simmetrico e l’applicazione delle forze fisiche dovrebbe essere reversibile. Nel 1927, l’astrofisico Arthur Eddington ha iniziato a descrivere il verso unidirezionale del tempo, che scorre sempre dal passato al futuro e mai viceversa. Come sempre fanno gli scienziati, ha iniziato a descrivere un fenomeno evidente a tutti, stupendoci.
Mentre mi interrogo su questo quesito paradossale e, a oggi, per quanto ne sappiamo io e Wikipedia, ancora irrisolto, mi accorgo che molta interpretazione della storia deriva da un pervertimento di quell’insegnamento. La freccia del tempo, mentre ci raccontiamo il passato, diventa un filo teso in cui infilare fatti sequenziali, con dipendenze evidenti, che ci aiutano a capire relazioni di causa-effetto ineludibili. Il verificarsi di un fatto ha sempre cause e motivazioni chiare.
Poi c’è Carlo Emilio Gadda che ci fa spiegare tutto, ma proprio tutto, dal dottor Ciccio Ingravallo in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana:
«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo.»
Lo gnommero è una matassa di concause, impossibile da dipanare. Eppure, anche se, da umani, trascorriamo le nostre vite a chiederci come abbiamo fatto a infilarci nei casini in cui galleggiamo continuamente, tutte quelle perline infilate in un filo lineare ci affascinano un sacco. Quando leggiamo i fumetti, per esempio, ci piace credere nella freccia del tempo. Ci piace quella definizione un po’ sciocca che ci suggerisce che i fumetti funzionano perché sono “arte sequenziale”. Metti le vignette in fila e inizi a srotolare la storia, da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso.
Febbraio 1978, l’editoriale del primo numero della rivista belga “(À Suivre)” promette «l’irruzione selvaggia del fumetto nella letteratura». E per confutare, fin da subito, la vacuità di questa affermazione, pubblica l’inizio di Ici Même, un lunghissimo fumetto di Jean-Claude Forest e Tardi. Si tratta di una storia straordinaria che scardina la linearità sequenziale del fumetto.

Arthur Même è il custode solitario di un dedalo di mura che attraversano proprietà altrui. Sono confini assurdi, di cui lui possiede le chiavi, che dividono spazi, affetti e potere. Le mura diventano trincee della memoria e del tempo, margini su cui si cammina senza mai appartenere, argini che impediscono al tempo di esondare dallo spazio. Arthur vive sul bordo, esattamente dove la vita si frattura. E in questo modo, col suo muoversi nello spazio bianco, con piglio da funambulo, diventa il padrone del fumetto.
Il 1973 è l’anno in cui un funambulo reale, Philippe Petit, compie una delle sue imprese più grandi. L’Harbour Bridge di Sidney è maestoso: otto corsie, per una cinquantina di metri di larghezza. Petit tira un cavo tra i due piloni nord e, vestito di nero e con un’asta per bilanciarsi, ci passeggia con la tranquillità che impareremo a conoscere.
Il 1973 è anche l’anno in cui vengono inaugurate le torri gemelle del World Trade Center. I due grattacieli più alti del mondo che arrivano a lambire gli dèi con le loro guglie che si spingono fino a 527 metri. Il 7 agosto 1974, Philippe Petit tirerà un cavo a 420 metri di altezza e passeggerà nel vuoto per quarantacinque minuti.

Il 1973 è l’anno in cui il filo viene teso nel vuoto. Non ce ne accorgiamo, perché, se nessuno ci cammina sopra, è quasi invisibile.
Didididiciannove
Nel 1985 si balla al ritmo del massacro. Paul Hardcastle, un musicista londinese, incide 19, un singolo che scala le classifiche un po’ ovunque. La base elettronica costringe chiunque l’ascolti a scuotere il culo e, dopo un po’, la voce narrante, resa ossessiva dai campioni, inizia a riverberarti in testa:
«Nel 1965 il Vietnam sembrava solo una guerra in territorio straniero come tutte le altre. Ma non lo era. Era diversa in molti modi, così come lo erano quelli che si battevano. Nella Seconda guerra mondiale l’età media dei soldati era di ventisei anni. In Vietnam era diciannove. In Vietnam era diciannove. Diciannove. Didididiciannove.»
Proprio come Philippe Petit, anche la guerra in Vietnam, nel 1973, sembra sospesa sul vuoto. Gli accordi di pace di Parigi, firmati il 27 gennaio, sanciscono un ritiro ordinato delle forze statunitensi. I soldati possono tornare a casa, per partecipare inconsapevoli a ritualità statistiche. Il Vietnam è stato anche uno straordinario laboratorio nel quale studiare gli effetti del PTSD, Post Traumatic Stress Disorder. Lasciamo che sia ancora la canzone di Hardcastle a dircelo:
«Centinaia di migliaia di uomini che videro i combattimenti dopo il concedo sono stati arrestati. La probabilità che finissero in carcere era almeno doppia rispetto a quella dei non veterani della stessa età. Non esiste una stima accurata di quanti di questi uomini siano finiti in prigione. Uno studio della “Veteran Administration” dimostra che più a lungo i veterani sono stati al fronte, più è alta la probabilità che siano stati arrestati o condannati.»
Quell’accordo di pace è una messinscena. L’uomo che cammina su un filo invisibile sa che i punti di appiglio sono solidi, saldi, reali. Gli Stati Uniti, invece, stanno cercando di convincere il mondo che sotto i loro piedi non c’è il vuoto. E ci riescono abbastanza bene: in novembre, Henry Kissinger viene insignito del premio Nobel per la Pace e, mostrando insospettabile buon gusto (ché le motivazioni del premio sono disattese dai fatti e Lê Đức Thọ, premiato a sua volta, rifiuta la targhetta), non si presenta al ritiro.
La guerra in Vietnam è un precipizio scavato con perseveranza inconsapevole. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, ogni singolo Paese – in particolar modo nel Sudest asiatico – che precipita nel comunismo diventa una tessera del puzzle di quello che si configura come l’Impero del Male. Se cadesse l’Indocina, con un effetto domino, potrebbe cadere tutta l’Asia. Così, dopo la ritirata dei francesi nel 1954 (umiliati a Ðiện Biên Phủ), gli Stati Uniti riempiono il vuoto con armi, dollari e consiglieri militari. Il Vietnam del Sud diventa una vetrina del capitalismo da salvare a ogni costo, come la Corea del Sud pochi anni prima.
Ma questa vetrina è instabile, in continuo riallestimento. I manichini sono spesso vestiti di stracci. Il presidente sudvietnamita Ngô Đình Diệm viene assassinato nel 1963, la guerriglia del Nord si infiltra ovunque, e la giungla inghiotte ogni idea di guerra tradizionale. L’invenzione dell’incidente del Golfo del Tonchino del 1964 permette al presidente Lyndon B. Johnson di iniziare un’escalation militare devastante. Più di mezzo milione di soldati americani finiscono invischiati in un conflitto che non capiscono, contro un nemico che non si vede, per un alleato che non si regge in piedi.

Gli Stati Uniti si illudono di poter vincere una guerra popolare con mezzi imperiali. Bombardano il Nord, distruggono villaggi, irrorano la giungla con il napalm, mentre i soldati vengono ammazzati nella giungla da nemici invisibili. Intanto, a casa, i giovani cominciano a rifiutare la leva. I caduti tornano in patria in sacchi di plastica, con la targhetta di riconoscimento sotto la lingua. Ma la patria ha smesso di applaudire. I movimenti per i diritti civili, la controcultura, il rock psichedelico e la protesta universitaria si muovono all’unisono sotto la bandiera dell’antimilitarismo. Ce lo dice anche Hardcastle:
«Forse la più drammatica differenza tra la Seconda guerra mondiale e il Vietnam è stato il ritorno a casa. Nessuno dei veterani del Vietnam ha ricevuto un benvenuto da eroe. Secondo uno studio della “Veteran Administration” la metà dei veterani ha sofferto di quello che gli psichiatri chiamano Disturbo da Stress Post Traumatico. Molti veterani lamentano alienazione, rabbia o sensi di colpa. Alcuni soccombono a pensieri suicidi. Decine di anni dopo il ritorno a casa quasi ottocentomila uomini stanno ancora combattendo la guerra del Vietnam.»
Una guerra che è diventata impresentabile. Sul piano militare è una palude; su quello politico, una bomba che mina la democrazia; su quello culturale, una vergogna che spacca le generazioni. La pubblicazione dei “Pentagon Papers” nel 1971 rivela che il governo sapeva di star perdendo fin dall’inizio. L’eroismo si dissolve nella menzogna.
Il presidente Richard Nixon è già logorato dal Watergate e vuole uscire dal pantano vietnamita. Firma a Parigi, stringe mani, parla di pace con onore. I giornali titolano che la guerra è finita. Ma è una bugia diplomatica: le truppe americane si ritirano, sì, ma il Vietnam del Sud resta appeso a un filo. E quel filo si spezzerà, due anni dopo, nel 1975, con la caduta di Saigon.
Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno perso. Hanno perso 58.000 uomini. Hanno perso la fiducia dei cittadini. Hanno perso l’illusione di imbattibilità e di superiorità militare. Hanno perso il controllo narrativo del proprio ruolo nel mondo.
La guerra in Vietnam non finisce nel 1973. Si trasforma: da tragedia a trauma. Un PTSD nazionale, indistinguibile da una lunga camminata sopra il nulla, senza rete. E con un sacco di spettatori morbosi che non sanno se sperare o temere la caduta e lo schianto.
Uè, si curiuso / mentre scave stu pertuso
«Dio parlò ancora a Mosè: “Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno delle espiazioni; avrete una santa convocazione, umilierete le vostre anime e offrirete a Dio dei sacrifici mediante il fuoco. In quel giorno non farete nessun lavoro; poiché è un giorno destinato a fare espiazione davanti a Dio. Ogni persona che non si umilierà in quel giorno sarà eliminata. Ogni persona che farà qualsiasi lavoro in quel giorno, io la distruggerò. Non farete nessun lavoro. È una legge perenne, di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete. Sarà per voi un sabato di completo riposo, e umilierete le anime vostre; il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro sabato”.»
(Levitico 23:26-32)
Il 6 ottobre 1973 è lo Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Il dio chiacchierone e minaccioso della Torah è stato proprio chiaro: quello è il giorno più sacro del calendario.

L’attacco coordinato degli eserciti dell’Egitto e della Siria coglie di sorpresa Israele. Gli egiziani, equipaggiati con missili sovietici anticarro e antiaereo, attraversano il canale di Suez; le forze corazzate siriane entrano nel Golan. L’esercito israeliano vacilla per un istante. Poi reagisce con vigore. Respinge i siriani e riconquista i territori e penetra in Egitto. Sono diciannove giorni convulsi, didididiciannove, di grande paura, in cui si teme un’escalation che potrebbe condurre a un nuovo conflitto mondiale. Devono intervenire Stati Uniti e Unione Sovietica e imporre il Cessate il fuoco. Il conflitto si conclude all’improvviso, proprio come era nato, senza esiti risolutivi. I confini e i centri di governo non vengono intaccati in alcun modo, ma gli arabi hanno colto di sorpresa la potenza militare israeliana, fino ad allora apparentemente invincibile. E l’hanno messa in difficoltà. Le dimissioni arrivano in blocco: il primo ministro Golda Meir, il ministro della difesa Moshe Dayan e il capo di stato maggiore David Elazar.
La Guerra del Kippur è uno shock. Non si può più fingere che il conflitto arabo-israeliano sia una faccenda locale. Lo spargimento di sangue lontano non è mai un problema. Ma, in quella regione, ci sono liquidi che ci fanno più male. La breve guerra del Kippur è ancora in corso quando l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, l’OPEC, decide di usare il cuore fossile dell’energia come arma politica. Avvia un embargo che blocca l’esportazione di petrolio verso le nazioni occidentali che sostengono Israele. Questo blocco quadruplica il prezzo del greggio. Dal 17 ottobre al 18 marzo dell’anno dopo, per cinque mesi, l’occidente scopre che la disponibilità di energia non è più garantita. Arriva l’inverno e bisogna scaldare le case, muovere le automobili, accendere le vetrine natalizie, produrre, andare, camminare, lavorare. E invece di fare coda alla cassa per tornare a casa carichi di doni e leccornie, sono mesi di code ai distributori, negozi con le luci spente, fabbriche rallentate, domeniche a piedi. È la fine dell’abbondanza come premessa della vita moderna. Il petrolio non è più solo carburante; diventa una pistola sul tavolo durante ogni trattativa. Il Medio Oriente smette di essere al margine: ha conquistato centralità nel dialogo, mostrando il cuore nero del suo potere.

La crisi petrolifera non è solo economica. È un attacco alla sicurezza. La modernità perfetta, che si fonda sul mito della crescita felice, continua e inarrestabile, può essere messa in crisi da chi gestisce i rubinetti. Basta girare una manopola e l’occidente si scopre vulnerabile.
Il diritto di vivere in pace
Nel 1971, Victor Jara incide il suo sesto album in studio. Dodici canzoni che confermano la vocazione poetica e politica del cantante cileno. Il disco si apre con il brano che dà il titolo al disco, El derecho de vivir en paz, che si schiera apertamente con il popolo vietnamita. Non lo sa ancora, ma anche lui sta camminando su un filo teso nel vuoto. Senza protezioni.
«El derecho de vivir
poeta Ho Chi Minh,
que golpea de Vietnam
a toda la humanidad.
Ningún cañón borrará
el surco de tu arrozal.
El derecho de vivir en paz.»
Il 4 settembre 1970, si tengono le elezioni presidenziali in Cile. Le vince, per poco più di un punto percentuale, Salvador Allende del Partito Socialista del Cile, in rappresentanza della coalizione dell’Unidad Popular. Il fronte popolare, che raccoglie socialisti, comunisti, radicali e parte dei democristiani, sconfigge di misura il Partito Nazionale che sostiene la candidatura dell’ex Presidente conservatore Jorge Alessandri. Allende è il primo presidente marxista eletto democraticamente in un paese dell’America Latina. Un’elezione democratica che fa tremare i polsi al governo statunitense. Il programma di Allende, per quanto incline alla socialdemocrazia, prevede riforme radicali. Dalla nazionalizzazione delle miniere di rame (soprattutto quelle statunitensi) alla statalizzazione delle banche, dalla riforma agraria alla sanità e l’istruzione gratuite.
Un governo intollerabile, presto sabotato dalla borghesia cilena, da settori delle forze armate in attesa di colpire, dalla CIA e dalle multinazionali statunitensi.
Tra il 1972 e il 1973, la situazione economica precipita: carenza di beni, inflazione altissima, scioperi dei camionisti finanziati dalla CIA che paralizzano la distribuzione dei beni di prima necessità, disordini continui. Allende è in una morsa: da un lato, le classi medie che si mobilitano contro il suo governo; dall’altro, i movimenti popolari che chiedono l’accelerazione della trasformazione rivoluzionaria.
L’11 settembre 1973, si scopre che il generale Augusto Pinochet, da poco promosso comandante in capo dell’esercito, non è leale al governo come sembrava. All’alba, l’esercito e l’aviazione cilena attaccano il Palazzo della Moneda, sede del governo.
Allende si rifiuta di fuggire, tiene una serie di discorsi radiofonici. L’ultimo, alle 09:10, si chiude con queste parole:
«Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi.
Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.
Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!
Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà vano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento.»
Muore all’interno del palazzo. Si sparge la voce che si sia suicidato, ma è più probabile che lo abbia fatto qualcun altro per lui.

Pinochet assume immediatamente il potere alla guida di una Junta Militar. Comincia una repressione brutale.
Campi di prigionia vengono allestiti negli stadi, nelle scuole e nelle basi militari. Migliaia di arresti, torture, sparizioni. La repressione si abbatte su sindacalisti, militanti, studenti, artisti. La dittatura durerà fino al 1990. Pinochet smantellerà l’eredità di Allende e trasformerà il Cile in un laboratorio del neoliberismo sotto la guida dei “Chicago Boys”, economisti formati alla scuola di Milton Friedman (che nel 1976 guadagna anche un premio Nobel)e Arnold Harberger.
Il giorno dopo il golpe, Victor Jara, il cantante, viene arrestato e portato nello Stadio Nazionale del Cile. Viene torturato selvaggiamente: gli spezzano le mani, lo deridono, lo costringono a suonare con i polsi. Poi lo uccidono a colpi di mitra. Quando il suo corpo viene ritrovato ha quarantaquattro fori di proiettile. La sua canzone più nota è Te recuerdo Amanda del 1969. Quando Jara la presenta il 17 luglio 1973, poche settimane prima del golpe, durante il suo ultimo concerto, usa queste parole: «Racconta dell’amore tra due operai, di quelli che si vedono ogni giorno in strada, e a volte non ci rendiamo conto della profondità della loro anima. Due operai, di qualsiasi fabbrica, in qualsiasi città, in qualsiasi parte del nostro continente.»
Un amore che si deve accontentare dei cinque minuti di intervallo tra le sirene di fabbriche in cui la vita non c’è, com’è, cos’è?
Mentre chiudo gli occhi sono tua
Il 1973, negli ascolti musicali, non è un anno come tutti. Nelle classifiche italiane, al primo posto per almeno sei mesi, c’è E poi, un blues struggente eseguito da Mina e composto da Andrea Lo Vecchio e Shel Shapiro. È una storia di tradimenti e di ricongiungimenti impossibili. Pare proprio che anche l’amore, in quest’anno instabile, sia una camminata sul filo. A confermare la sensazione, c’è anche Patti Pravo con quello che diventerà il suo successo più grande, Pazza idea, a raccontare il lato nascosto, quello oscuro, dell’amore.
«Pazza idea di far l’amore con lui
Pensando di stare ancora insieme a te
Folle, folle, folle idea di averti qui
Mentre chiudo gli occhi sono tua».
Eppure, l’anno si è aperto, il 14 gennaio, con un evento quasi consolatorio. Il primo concerto televisivo, trasmesso via satellite, in quasi contemporanea in tutto il mondo, è Aloha From Hawaii. Sul palco ad agitare le pelvi e a far sentire il suo rock c’è Elvis Presley. È ancora in forma splendida, ma ha quasi quarant’anni, incide da venti e la sua musica, un tempo rivoluziona, è già diventata la colonna sonora dei genitori. La separazione dalla moglie è arrivata nel febbraio dell’anno precedente; a ottobre Elvis e Priscilla divorziano. Da quel momento, la depressione, le pessime abitudini alimentari e gli accessi farmacologici fanno il loro mestiere. Il cantante che sale il 26 giugno 1977 sul palcoscenico del Market Square Arena di Indianapolis è un ipovedente sovrappeso, strizzato in un completo bianco, reso sbrilluccicante dalle paillettes di cui è intarsiato: un abito di scena mitico che svela tutta la sua pacchiana euforia in quell’ultima camminata sulla pedana. Muore meno di due mesi dopo, ucciso da un infarto e dalle quattordici sostanze diverse che vengono identificate nel suo corpo macilento durante l’autopsia, tutte regolarmente prescritte dal medico curante.
Ma la musica pop è molto altro in questo 1973. Il 30 gennaio i Kiss si esibiscono per la prima volta dal vivo al Coventry Club di New York. Il 25 maggio Mike Oldfield inaugura la Virgin di Richard Branson con l’album Tubular Bells e, siccome nella parafrasi del tempo tutto si tiene,campioni del brano che dà il tiolo all’album sono usati da Paul Hardcastle in 19. Il 3 luglio David Bowie, alla fine del suo tour inglese, annuncia il ritiro dalle scene di Ziggy Stardust ed è la fine della “stranezza spaziale”. Il 13 luglio esce Queen, album d’esordio del gruppo omonimo. L’11 agosto nasce l’hip hop: lo crea DJ Kool Herc a New York ed è big bang. A ottobre la crisi petrolifera colpisce anche il vinile: stamparne le enormi quantità richieste dal mercato discografico è impossibile. Gli album vengono ritardati o tirati in numeri limitati di copie. Ciò nonostante, il 19 ottobre esce Quadrophenia degli Who, un piccolo miracolo musicale. L’anno si chiude, il 31 dicembre a Sidney, dove mezzanotte arriva nove ore dopo che in Italia, con la prima esibizione dal vivo degli AC/DC.
Ma il disco più importante dell’anno esce il primo marzo. È The Dark Side of the Moon, ottavo album dei Pink Floyd. È un concept album costruito durante le tournée degli anni precedenti ed è tutto teso a esplorare il conflitto, l’avidità, il tempo, la morte e la malattia mentale, dopo che, nel 1968, Syd Barrett, Crazy Diamond, ha lasciato la band. È un disco incredibile, strumentalmente sontuoso, colmo di registrazioni multitraccia, di loop di nastro, di sintetizzatori analogici e digitali. A illuminare quello che sarà uno dei più grandi miracoli commerciali della storia della musica pop c’è un’immagine che rappresenta il buio squarciato dalla luce. La copertina, ideata da Storm Thorgerson, è semplice e geniale: mostra un prisma, nero come il petrolio; un raggio di luce bianca colpendolo viene scomposto nei colori costituenti, formando uno spettro. Sono raggi così densi che viene voglia di camminarci sopra.

Malizie, esorcismi e draghi
Il 31 agosto muore John Ford, il grande regista di western. La sua produzione si era rarefatta negli anni Sessanta e non dirigeva un film dal 1966 ma quell’idea di cinema era stata così influente da non poter essere relegata sullo scaffale del cinema di genere. Negli ultimi anni le sue posizioni conservatrici si sono irrigidite: è un sostenitore di Nixon e un interventista in Vietnam. Con lui se ne va anche l’illusione che ci sia ancora un confine da esplorare, un orizzonte da conquistare, una frontiera dove redimersi. Sergio Leone ha cambiato le regole del western, negli stessi Sessanta, mentre Ford usciva di scena, ha diretto la trilogia del dollaro e ha impostato la trilogia del tempo. Del western di Ford restano la polvere, il sangue secco, la rabbia e la paura. Scompaiono, un po’ alla volta, i pellerossa dipinti male e quel modo, tutto maschile e traballante, di mantenersi in bilico su un baratro western mentre il mondo cambia.
Forse è per questo che, mentre la realtà barcolla e il futuro sembra sospeso, il cinema si rifugia nel genere. Ma lo fa in modo storto, perturbato, radicale.

A Natale esce L’esorcista. È il film più visto dell’anno. Il male non è più metafora, ma sostanza. Non viene da fuori: è dentro casa, dentro la stanza, dentro il corpo di una bambina. Il male non impugna una pistola, non si nasconde nella giungla, non sventola nemmeno bandiere rosse. Il male è il diavolo e gioca a ping pong, con i corpi, con le deiezioni e, soprattutto, con la tua fede.
Il cinema si fa rituale apotropaico, incubo collettivo, bisogno urgente di una spiegazione che non arriva. L’esorcismo non è una soluzione, è solo una forma di resistenza disperata. Bisogna avere fede. Ma chi ce l’ha?
Qualche mese prima, Michael Crichton fa muovere robot assassini in un parco a tema western: Westworld è la frontiera della frontiera, il luogo dove anche la finzione cede, e i cowboy non assomigliano né a quelli di Ford né a quelli di Leone. Non hanno onore né vendetta. Hanno solo un loop narrativo e un bug nel sistema: uccidono gli spettatori. È il primo film della storia del cinema con effetti digitali. Ed è già un film su ciò che accade quando la tecnologia diventa mitologia che si ribella.

Il 22 luglio, due giorni dopo la morte di Bruce Lee, esce Enter the Dragon. Non è un testamento (quello ce lo ha lasciato – incompleto – nei trenta minuti di girato di Game of Death). In ogni caso, il corpo di Lee è perfetto, si muove in modo infallibile e infaticabile. Ma è già morto.
Intanto, in Italia, si inneggia alla vita. Malizia di Salvatore Samperi fa scandalo. Laura Antonelli è la proiezione erotica di un paese che non ha ancora capito come desiderare senza sensi di colpa. Il corpo, come ne L’Esorcista, è il campo di battaglia. Samperi lo filma con una lente ambigua, febbrile, come se la libido fosse l’unica energia rimasta in circolo, dopo che il petrolio ha smesso di arrivare.

Nel 1973, il cinema si aggrappa al corpo, alla paura, all’archetipo. Non racconta la realtà, la esorcizza attraverso lo specchio deformante del genere. Mette in scena mostri, soglie, mutazioni. È come se ogni evento, ogni film, si svolgesse in una delle aree separate dalle mura su cui cammina un Arthur Même che non ha alcuna intenzione di sporgersi per aprire le porte.
Il fumetto sul filo
Nel 1973 il fumetto sta cambiando pelle. È un anno di mezzo, uno di quelli in cui si cammina con attenzione, allineando bene i piedi e muovendo il bilanciere per non perdere l’equilibrio e la rotta.
Solo un anno prima, il “Corriere dei Piccoli” ha deciso di dire con chiarezza qual è il suo vero pubblico. Si è ribattezzato “Corriere dei Ragazzi” e, per qualche mese, ci ha creduto davvero, prima di sdoppiarsi e recuperare anche la testata originaria, nella speranza di raddoppiare i lettori. All’inizio di questo anno di transizione, proprio sul “Corriere dei Ragazzi”, Alfredo Castelli e Ferdinando Tacconi iniziano a raccontare Gli Aristocratici, un gruppo di ladri gentiluomini, debitori tanto della serie televisiva inglese The Avengers (da noi Agente speciale) quanto dell’irriverenza surreale di Alan Ford di Magnus e Bunker. È un modo nuovo per raccontare una criminalità “positiva” nel fumetto italiano, ancora dominato da personaggi neri con una “K” nel nome.

In Francia, su “Pilote”, meravigliosa rivista settimanale diretta da René Goscinny, il 1973 è l’anno degli addii. Vengono pubblicati per l’ultima volta episodi di Asterix (Asterix in Corsica di Goscinny e Uderzo), Blueberry (Il fuorilegge di Charlier e Giraud) e Lucky Luke (L’eredità di Rantanplan, ancora di Goscinny e Morris). A compensare il dolore delle partenze, esordisce Le Génie des alpages di F’Murr. Non ti preoccupare se non lo conosci: da noi è completamente inedito. E questo dice molto della miopia dell’editoria italiana.
“Pilote” aveva già perso pezzi: tra il 1971 e il 1972, Gébé, Cabu e Reiser sono passati a “Hara-Kiri mensuel”. Nel 1972, Nikita Mandryka, Marcel Gotlib e Claire Brétecher hanno fondato “L’Echo des Savanes”. Il successivo distacco pesante avverrà alla fine del 1974, con la partenza di Philippe Druillet e Moebius verso la neonata “Métal Hurlant”. Ma per allora, anche Goscinny se ne sarà andato.
Negli Stati Uniti, intanto, il fumetto underground squassa tutto. Il mercato mainstream è ancora schiacciato sotto l’idiozia del Comics Code, il codice censorio che l’industria si è autoimposta per evitare gli strali dei benpensanti. In un panorama popolato da supereroi con superproblemi ma tenuti alla larga da sesso, droga e rock’n’roll, una generazione di fumettisti cresciuta nella controcultura di New York e, soprattutto, di San Francisco, decide che col fumetto si può fare tutto. Si chiamano Robert Crumb, Gilbert Shelton, Trina Robbins, Spain Rodriguez, Vaughn Bodé, Art Spiegelman… Le loro storie vengono smerciate sottobanco negli Head Shop (i negozi di articoli per fumatori frequentati dai freak), eppure vendono tantissimo.

L’editoria maggiore – quella che gli americani chiamano mainstream, intendendo i supereroi con le mutande sui pantaloni – prova a infilarsi in quel segmento. Con esiti discontinui. Ma sul finire dell’anno, Steve Gerber inventa quella meraviglia sghemba che si chiama Howard the Duck, un’anatra nichilista e disillusa che farà da traghettatore verso qualcosa che ancora non ha un nome.
E siccome lo spirito del tempo se ne frega della parafrasi e dei fili tesi, poche settimane prima, sulle pagine de “Il Giornalino” – settimanale cattolico venduto unicamente nelle parrocchie – Massimo Mattioli inventa Pinky, coniglietto rosa che si mantiene facendo il fotografo e racconta, settimanalmente, alcune delle storie più eversive che il fumetto abbia mai prodotto.
Il vuoto e il filo
Il 1973 è un anno di equilibrismi. Non è una svolta, non è un inizio, non è nemmeno una fine. È un momento sospeso, una pausa carica di tensione. Il filo viene teso, ma nessuno ci cammina ancora sopra. Le guerre sembrano concluse, ma non lo sono. Le energie sembrano infinite, ma iniziano a mancare. I corpi si esibiscono, si spezzano, si contaminano. I generi – musicali, cinematografici, narrativi – si deformano, si chiudono, esplodono, implodono. Tutto è ancora possibile, ma niente è più sicuro.
Philippe Petit si prepara a camminare tra le torri, ma non lo fa ancora. L’uomo sul filo non è un simbolo: è un presagio.

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).