La parafrasi del tempo
Nel 2020 ci siamo scoperti prigionieri. Senza reato, senza colpa, senza processo, senza sentenza. Una condanna piovuta dal nulla. Reclusi nelle nostre case, con orari, autocertificazioni, zone rosse, coprifuoco, percorsi obbligati, lasciapassare digitali.
E abbiamo accettato tutto. O ci siamo opposti blandamente. E, per come è andata, poco importa. Per paura, per convenienza, per pudore, per convinzione. Perché nessuno tra noi capiva davvero cosa stesse succedendo.
Ci siamo detti che era necessario, giusto, inevitabile. Oppure abbiamo sibilato il nostro sdegno e la nostra rabbia. In tutti i casi, cercando di razionalizzare le nostre posizioni, abbiamo accettato sciocchezze, nonsense, superstizioni, verità dogmatiche, dati parziali e confusi.
E così, mentre le strade si svuotavano, si è perfezionato un dispositivo che da tempo ci addestrava alla disciplina.
Nonostante l’ossessione per la sicurezza in cui viviamo, ci appassioniamo alle vicende dei detenuti. Siamo immersi in un sistema sociale che ha trasformato il carcere in una delle più articolate strutture di controllo.

C’è un mondo, raccontato in televisione o intercettato sulla timeline del nostro social preferito, che è, con ogni evidenza, sempre dannatamente pericoloso. Ce lo raccontiamo in fila alla cassa del supermercato, o stipati sui mezzi al mattino, o allineati di fronte al bancone del bar per un caffè veloce. «Che gente! Dovrebbero rinchiuderla e buttare via le chiavi!»
Già: alla fine, toccati nel vivo, coviamo un’isteria giustizialista. Quella gente là minaccia il nostro benessere, il nostro ordine, la nostra disciplina, insomma, la nostra sicurezza. Deve essere sorvegliata e punita.
Poi, una volta rassicurati dalla reclusione altrui, ci appassioniamo alle storie carcerarie: abusi, violenze, traffici, guardie corrotte, stratagemmi per sopravvivere, tentativi di evasione…
Le sofferenze di Silvio Pellico, i gulag di Aleksandr Solzenicyn, la breve esperienza formativa di Goliarda Sapienza, le vicende dell’abate Faria e di Edmond Dantès nel Conte di Montecristo, la redenzione sottile di Andy Dufresne ne Le ali della libertà, la follia di Arkham Asylum, le evasioni più o meno riuscite in Papillon, Fuga da Alcatraz, Fuga di mezzanotte…
O anche 1997: Fuga da New York di John Carpenter del 1981.

Non importa che Jena Plissken sia stato un eroe di guerra. A nessuno frega nulla delle sue decorazioni, né dell’occhio perso durante una missione delle Forze Speciali. Ha tentato una rapina e gli è andata male: ora deve pagare.
Nel 1997, l’intera isola di Manhattan è stata trasformata in una gigantesca prigione di massima sicurezza, destinata a contenere i detenuti di un’America il cui tasso di criminalità è cresciuto a livelli insostenibili. In uno spazio così esteso, non li si può sorvegliare: li si rinchiude, tra mura altissime e fiumi e ponti minati, e li si punisce. Una volta dentro, non si esce più. Peccato che quell’idiota del Presidente ci sia cascato dentro con tutto l’Air Force One.
E adesso Jena deve andare a salvare il suo prezioso deretano. Gli impiantano due capsule esplosive nel collo. Ha ventiquattr’ore per recuperare l’inquilino della Casa Bianca. In quelle ventiquattr’ore succede di tutto. Manhattan, il carcere, è spazio di movimento, strategia, confronto, duello, inseguimento, salvataggio, ribellione finale. Controllo sui reclusi e sui cittadini che si illudono di essere liberi.
È proprio questo il punto. Il carcere moderno non nasce per segregare, ma per esercitare controllo. Un controllo continuo, flessibile, diffuso.

Michel Foucault, nel suo Sorvegliare e punire: Nascita della prigione, analizza nel dettaglio la trasformazione delle pratiche punitive in Occidente, dal supplizio pubblico alla detenzione. Il passaggio dall’esecuzione pubblica – magari assai efferata, come quella di Damiens nel 1757 – alla prigione non è un progresso umanitario, ma un cambiamento strategico nelle tecnologie del potere.
Il corpo punito deve essere nascosto, perché mostrarne la sofferenza produce empatia e, addirittura, solidarietà. Un corpo in cella si innesta in un paradosso: da un lato, è invisibile e non rischia di scatenare simpatie in cittadini troppo presi dal bisogno di sicurezza; dall’altro, è sempre visibilissimo.
Il suo emblema è il Panopticon di Jeremy Bentham, un carcere in cui ogni detenuto è osservabile in ogni momento, senza sapere quando è osservato.
Il Panopticon è il modello di una nuova forma di potere: invisibile, continuo, interiorizzato. Un modello disciplinare, diffuso e capillare, che plasma i corpi e modifica le condotte. Un modello che dà forma all’intera società, rendendola di fatto disciplinare.
Nel 2020 questo modello si è reso evidente a tutti. Abbiamo vissuto in un Panopticon globale: tracciamenti, autocertificazioni, dirette televisive, droni, QR code. Ma anche autodisciplina, autocontrollo, autoreclusione. Le case si sono fatte celle, le app si sono fatte guardiani.
E ognuno ha imparato a sorvegliare sé stesso e gli altri. Con zelo e convinzione, in nome della sicurezza. Non ci siamo ribellati. Siamo rimasti dentro. Impazzendo, un po’ alla volta. Liberando, un po’, il mondo antropizzato dalla nostra presenza.
E, da dentro, abbiamo guardato fuori, cercando di trovare un senso.
Un bacillo che saltella che si muove un po’ curioso
È inutile girarci attorno: il 2020 è stato l’anno in cui è esplosa la pandemia di Covid-19. Raramente un singolo evento ha orientato così tanto tutti i piani del discorso pubblico e privato. E lo ha fatto in gran parte del mondo di cui ci curiamo.
Il 23 gennaio il nuovo ceppo di coronavirus conquista fama internazionale quando il governo cinese mette in quarantena dapprima la metropoli di Wuhan e poi la provincia di Hubei. Entro la fine del mese l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara che l’epidemia di Covid-19 è un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale. Mica l’abbiamo mai sentita così vicina, la Cina.
In febbraio, l’OMS dichiara che l’epidemia di Covid-19 è una pandemia. La paura distrugge i mercati e abbatte tutti quegli indicatori che non abbiamo mai capito veramente, di cui ci importa pochissimo, ma dai quali dipende la nostra vita quotidiana: le borse crollano. In Cina, il lockdown non solo ha interrotto le attività produttive delle fabbriche, ma ha fatto scendere ai minimi storici il tasso di inquinamento: non si è mai respirato meglio, ma bisogna farlo attraverso mascherine e spaventati dal contagio.
Tra l’8 e il 9 marzo, in Italia, per impedire la diffusione del virus, viene promulgato il confinamento domestico. Si esce di casa solo per le esigenze primarie, indossando guanti e mascherine, che entrano stabilmente nell’abbigliamento del 2020, anche se, per settimane, sono introvabili. I supermercati raccontano le cronache di un tranquillo dopobomba. File chilometriche e attese snervanti. Dagli scaffali scompaiono molti prodotti. Tra questi i lieviti e le farine: gli italiani scoprono di essere anche fornai, pizzaioli e pasticcieri e non solo eroi, poeti e santi.

Il commercio elettronico, con popolazioni rinchiuse in casa, subisce un incremento decisivo. Chi si occupa di logistica scopre di non essere pronto a gestire un picco di tale portata: chi prova a fare la spesa online deve adattarsi a consegne che si spingono così avanti nel tempo da richiedere capacità staliniane di pianificazione. La pandemia non è un male per tutti: Jeff Bezos ne soffre meno degli altri; Amazon nel corso dell’anno triplica gli utili.
Il 13 marzo il Nepal chiude il monte Everest ai turisti e agli arrampicatori. Quattro giorni dopo viene sospeso il trattato di Schengen.
Alla fine di marzo, un terzo della popolazione mondiale, per un totale di due miliardi e seicento milioni di individui, è soggetto a restrizioni di movimento.
Intanto, il tasso di inquinamento è il più basso che si sia mai registrato, con le aziende che hanno ridotto il consumo di energia e le auto parcheggiate sotto casa. In una Venezia deserta tornano animali di cui non ci si ricorda neppure il nome.
In aprile si inizia a parlare di “asintomatici”, individui che portano a spasso il virus senza essere riconoscibili in alcun modo. Niente, neanche un colpo di tosse. Sono loro, i fantomatici asintomatici, il pericolo strisciante che deve insegnarci a non fidarci di nessuno e a non rinunciare mai alla mascherina.
Abbiamo imparato a guardare i grafici aggiornati quotidianamente sul “Coronavirus Resource Center” della John Hopkins University. I numeri sono spaventosi, specie per chi non è in grado di compararli a quelli delle altre malattie. In assenza di dati di raffronto, sono solo numeri molto grandi che si muovono molto rapidamente.
L’8 aprile finisce il lockdown di Wuhan. Dopo 76 giorni di confinamento la popolazione della provincia di Hubei può ricominciare a muoversi liberamente, rispettando norme di sicurezza cui viene dato gran risalto. I giornali, in affanno per le mancate vendite e per un mondo di giornalisti chiusi in casa, dedicano un sacco di spazio alle regole anticontagio che i cinesi metteranno in atto durante le loro ritrovate frequentazioni di cinema, ristoranti e palestre.
Intanto il Fondo Monetario Internazionale rende pubbliche le proprie previsioni: pare proprio che ci aspetti la peggiore contrazione economica dai tempi della Grande Depressione; quando tutto sarà finito, ci saranno milioni di nuovi poveri per decine di anni.
Il prezzo del petrolio cala drammaticamente. Peccato non poterne approfittare. La benzina costa pochissimo e resta nel ventre dei distributori che vedono passare pochissime automobili. Chiusi in casa per decreto, un pieno ci dura tantissimo.
In maggio, le Nazioni Unite assumono la consapevolezza del fatto che l’isolamento, la paura, l’incertezza e lo squasso economico stanno producendo un disagio tale negli individui che si tradurrà in complessità psicologiche ed emotive da gestire per i decenni a venire. Nell’aria aleggia il sospetto che il numero di suicidi subirà nei prossimi anni un incremento terrificante.
Alla fine di maggio, i contagi censiti nel mondo sono oltre dieci milioni. Alla fine di giugno, 15 milioni.
L’11 agosto Putin dichiara l’approvazione del vaccino per il Covid-19 da parte della Russia. I giornali italiani che prendono più seriamente la notizia sono “Libero” e “Il Giornale”. Tutti gli altri sono concentrati a guardare la crescita spaventosa della curva dei contagi nel mondo. L’allentamento delle misure restrittive in Europa per favorire le vacanze ha dato la stura alla seconda ondata: entro la fine del mese la somma cumulativa dei contagiati censiti nel mondo supera i venticinque milioni.

In settembre, in Italia pare che tutto debba tornare alla normalità. Si esclude la possibilità di nuove misure restrittive. Le scuole riaprono in un delirio di discussioni intorno ai banchi a rotelle, agli ingressi scaglionati e alla capienza dei mezzi di trasporto. E mentre si discutono tardivamente cose fondamentali, il contagio non si arresta e procede alla medesima velocità di bus e metropolitane che viaggiano colmi di persone mascherate.
Entro la fine del mese trenta milioni di contagiati nel mondo e un milione di morti.
In ottobre, a guardare la curva dei contagi pare di essere sull’ottovolante. All’interno del governo si percepisce uno scontro durissimo tra i difensori delle capre e quelli dei cavoli. Il risultato è una serie di misure, mica sempre facili da capire, realmente democratiche: riescono a scontentare tutti allo stesso modo.
Intanto il numero di casi confermati supera i 45 milioni. All’inizio del mese l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il reale numero di contagi Covid-19 sia approssimativamente di 760 milioni: vale a dire il 10% della popolazione mondiale.
In novembre, due aziende farmaceutiche annunciano la conclusione delle sperimentazioni sul vaccino per il Covid-19. Da quel momento parte la gara a chi ci ha il vaccino più lungo. Il mio produce risultati positive nel 90% dei casi! Il mio nel 92%! Il mio nel 94,5%! Il mio nel 95%! Il mio si conserva per un mese in frigorifero! E via così in un gran ballo, mentre il Titanic si avvicina a quel gelido oggetto galleggiante.
All’inizio di dicembre la Russia avvia la vaccinazione di massa della popolazione. Pochi giorni dopo, parte anche la campagna di vaccinazione inglese. A metà mese è la volta degli Stati Uniti e del Canada. In Italia si aspetta il taglio del panettone: si prevede di vaccinare metà della popolazione entro settembre 2021.

Alla fine dell’anno gli umani morti di Covid-19 censiti nel mondo sono un milione e settecentocinquantamila.
La morte non sa leggere
Un milione e settecentocinquantamila morti è un numero enorme. Spaventoso. Chi non sente un brivido correre lungo la schiena, immaginando una fila di corpi allineati sulla strada? Se ognuno di quei corpi occupasse un metro, avremmo una fila di cadaveri lunga 1.750 chilometri: camminandoci accanto, faremmo una passeggiata da Milano a Stoccolma. Di fronte a questo orrore, a questa strage, viene voglia di proteggersi, avere norme che possano salvare noi e le persone che si sono care.
Il 2020 diventa un anno di regole. Regole che non si esauriscono il 31 dicembre. Poi arriveranno i vaccini, i green pass, i controlli per entrare in qualsiasi locale, i gestori che si trasformano in poliziotti del QRcode. Il 2020 è un anno di paura. Di persone chiuse in casa, soprattutto nelle città, e di ambulanze a sirene spiegate che si fermano sempre – dannazione! – vicino a dove abiti. Più volte al giorno. I pochi discorsi da vicinato, gridati al balcone, somigliano a bollettini di guerra. Tutti hanno casi gravi, o addirittura perdite, in famiglia.
E allora, gli stratagemmi: ci sommergiamo in casa per salvarci. Le uscite per giusta causa, il distanziamento sociale, il confinamento, i dispositivi di protezione, le autocertificazioni per andare nei pochi posti leciti, l’inizio dello “smart working”, le piattaforme di videoconferenza usate per tutto… soprattutto per non impazzire. I supermercati, con ingressi contingentati, rendono evidente come le persone che fanno la spesa si distribuiscano diversamente all’interno degli spazi del negozio. Siamo abituati alla folla accanto alla frutta e alla verdura, al banco frigo, alla macelleria, alla panetteria, alla corsia riservata alla pasta e ai sughi pronti. Nel 2020, gli alcolici diventano un bene di prima necessità. Vino, birra e superalcolici finiscono nelle sporte di tutti. E lo si vede anche quando si scende per buttare il vetro: il cassonetto è sempre pieno.

Per la prima volta, bere da soli non è più una colpa. Non è più neppure solitudine. È condivisione, è rito. È l’unico modo per restare insieme. Si istituiscono momenti collettivi e solitari al contempo: l’aperitivo serale su Zoom.
E si diventa allegri, con un bicchiere di troppo. E poi un altro, e un altro ancora, Chiusi in casa, si beve per stare con gli altri. Tutti dentro, tutti fuori. E nessuno dovrà salire in auto e mettere a rischio la vita propria o altrui. Gli incidenti stradali diminuiscono, nel 2020. Quelli tra le mura di casa, meno. Anzi, sappiamo per certo che la violenza domestica – quella che gli uomini fanno subire alle donne – ha un’impennata: nel 2020, le chiamate al 1522, «numero messo a disposizione dal Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per sostenere e aiutare le vittime di violenza di genere e stalking», aumentano del 49% rispetto all’anno precedente.
Nel 2020, tutti impariamo a guardare i numeri. Li ascoltiamo, ci affascinano, ci terrorizzano. Sono sempre numeri isolati, mai posti in sequenze storiche, mai correlati. Numeri che significano poco, ma esistono.

I dati migliori che abbiamo sui contagi e sui morti in seguito alla pandemia sono delle vaghe approssimazioni, con un sacco di vizi di forma connessi alle regole e alle procedure che ogni ente ha usato per raccoglierli localmente. Ma possiamo provare un esercizio. Possiamo limitarci al caso italiano e prendere dati che vengono da una fonte unica e centralizzata, dati che non sono direttamente collegati al Covid, ma parlano della numerosità dei residenti, delle nascite e dei decessi, senza che ci siano ambiguità. Un morto, in fondo, è un morto, indipendentemente dalla causa che lo ha condotto allo stato finale. I dati resi pubblici da Istat, l’Istituto nazionale di statistica, fanno al caso nostro: sono a disposizione di tutti; possiamo giocarci un po’.
L’ultimo anno in cui il numero di italiani censiti dall’istituto è aumentato rispetto al periodo precedente è il 2013. Da quel momento, il numero dei morti ha iniziato a superare il numero dei nati. Benché l’età media degli italiani e l’indice di vecchiaia aumentino un anno dopo l’altro, tra il 2014 e il 2019, è morto un numero di persone pari a circa l’1% della popolazione censita all’inizio dell’anno: per essere precisi, nel 2018 e nel 2019, l’1,06% della popolazione.
Nel 2020 sono morti, per tutte le cause possibili – compresi vecchiaia, infarto, malattia incurabile, suicidio, incidente sul lavoro e Covid-19 – 740.317 italiani, pari all’1,24% della popolazione. Un incremento dello 0,18% rispetto all’anno precedente: osservando gli scostamenti anno per anno, non è poco. L’ultimo dato consolidato di cui dispongo è quello del 2023 e dice che in Italia è morto, nel corso dell’anno, l’1,14% degli italiani. L’incremento dell’indice di vecchiaia del paese, compensato dall’aumento della speranza di vita, sta facendo il suo sporco mestiere: si muore di più, ma con incrementi lenti.
Ora prendiamo il numero spaventoso di morti accanto ai quali abbiamo immaginato di passeggiare terrorizzati. E rapportiamolo a un altro numero. Trasformiamolo in un indicatore. Non è detto che significhi qualcosa, ma se abbiamo due numeri li possiamo confrontare o mettere in relazione.

Il primo gennaio 2020, gli esseri umani sul pianeta sono 7.887.001.292. Un milione e settecentocinquantamila morti di Covid-19 equivalgono allo 0,02% dell’umanità.
Altri focolai
È chiaro. La pandemia ha modificato le nostre vite a tal punto da diventare il nodo polarizzante di ogni discorso. Ma quelli del Covid-19 non sono stati i soli focolai del 2020.
L’anno si apre con un’escalation della tensione tra Stati Uniti e Iran. Il 3 gennaio, un drone statunitense apre il fuoco all’aeroporto internazionale di Baghdad: dieci morti, tra i quali il generale iraniano Qasem Soleimani, figura chiave della strategia militare di Teheran in Medio Oriente e bersaglio del raid, e Abu Mahdi al-Muhandis,leader delle forze paramilitari irachene. L’azione scatena un’immediata rappresaglia: le guardie della rivoluzione islamica iraniane lanciano missili contro le basi militari statunitensi in Iraq, danneggiandone due. Per sbaglio, un tor, un missile antiaereo a corto raggio di fabbricazione russa, colpisce il volo di linea Ukraine International Airlines 752 che è appena decollato dall’Aeroporto Internazionale di Teheran, uccidendo le centosettantasei persone a bordo. Si teme l’escalation, ma incomprensibilmente tutto ritorna nella consueta situazione di stabilità.

Nel Caucaso, le tensioni latenti si riaccendono con violenza. A fine settembre, scoppia una nuova guerra nel Nagorno-Karabakh, una regione contesa da decenni tra Armenia e Azerbaigian. Il conflitto dura sei settimane e vede le forze azere, sostenute dalla Turchia, avanzare. Il tutto si conclude con un accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia, che sancisce importanti guadagni territoriali per l’Azerbaigian e ridisegna la mappa politica della regione.
Il 25 maggio a Minneapolis una pattuglia ferma George Floyd. L’uomo viene immobilizzato con un ginocchio sul collo per otto minuti e quarantasei secondi, una tecnica assassina che scopriremo essere piuttosto diffusa presso la polizia locale. La sua morte viene dichiarata da un medico dell’ospedale in cui è stato portato dopo aver perso conoscenza. Il fermo, richiesto da un negoziante che ha composto il 911, è avvenuto in seguito al presunto acquisto di un pacchetto di sigarette con una banconota da venti dollari, forse falsa. La diffusione sui social del filmato dell’omicidio commesso dal poliziotto scatena rivolte feroci nei giorni successivi. Un’ondata massiccia e senza precedenti di proteste contro il razzismo e la brutalità della polizia, non solo negli Stati Uniti, che si muove sotto lo slogan “Black Lives Matter”.

Il 9 agosto, ci sono le elezioni presidenziali in Bielorussia. Nessuna sorpresa: Alexander Lukashenko viene rieletto presidente. Per la sesta volta consecutiva. Da quando nel 1994 è stata istituita quella tombolata elettorale, quell’uomo copre quel ruolo senza sosta. Le opposizioni lamentano la presenza di pesanti brogli elettorali. Per tutto agosto, in Bielorussia, ci sono manifestazioni partecipatissime: si stima che a Minsk sfilino 300.000 oppositori a Lukashenko. Mentre le proteste vengono sedate con la violenza, inizia il balletto della sfiducia internazionale, delle dichiarazioni congiunte, dei non riconoscimenti. Il 23 settembre, il presidente assume il proprio ruolo; qualche settimana dopo, dichiara che si dimetterà non appena la Bielorussia adotterà la nuova costituzione. Nel 2025 è iniziato il suo settimo mandato.
E fiamme infernali
Il 2020 inizia con un disastro ecologico e ambientale terrificante. Il sud-est dell’Australia è in fiamme. Tra il 2019 e il 2020 bruciano più di diciannove milioni di ettari di terreno: boschi, pascoli e praterie; si stima che gli incendi abbiano distrutto otto milioni di ettari di vegetazione autoctona. Gli edifici distrutti sono circa 6.000 e muoiono almeno 43 persone. Agli animali va peggio: da 1 a 3 miliardi di individui muoiono o sono costretti alla fuga. Alcune specie già a rischio sono sicuramente portate all’estinzione. Gli oltre 15.000 roghi rilasciano nell’atmosfera 900 milioni di tonnellate di anidride carbonica.

Abituati al mito di marzo pazzerello, in questo 2020 facciamo i conti con un febbraio quantomeno stravagante. Ci sono posti in cui il caldo è realmente anomalo. Certo, nell’Australia in fiamme si esagera: all’inizio del mese si tocca la temperatura record di 42,7°. Pare che in Europa non ci fosse un mese di febbraio così caldo dal 1990. A Baghdad invece c’è un freddo vigliacco: la temperatura scende a -5°. Nevica, addirittura. È la seconda volta che quella città si imbianca in oltre cent’anni.
Il 4 agosto il porto di Beirut viene distrutto da un’esplosione. 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio sequestrate nel 2014 e abbandonate in un magazzino senza misure di sicurezza causano un disastro: 200 morti, 7.000 feriti, 300.000 persone senza casa. Il più grande deposito di grano del Libano (con una capienza di 15.000 tonnellate) viene distrutto dall’esplosione, riducendo significativamente le scorte alimentari del paese. Tutto questo in un momento in cui la pandemia e la crisi economica hanno portato le strutture sanitarie libanesi al quasi collasso.
Passeggiate e derive sulla scacchiera
Nell’anno in cui abbiamo passato più tempo in casa, i giocatori del mondo continuano a muovere pezzi e pedoni. Ma paiono indifferenti allo scacco. Quello che sembra un gambetto, un sacrificio che conduce alla vittoria, è solo una svista o una mossa a caso. Il tipico atteggiamento di chi gioca, indifferente alle regole, sicuro dell’impunità.
Il 31 gennaio la Gran Bretagna ottiene la tanto ambita Brexit, attesa da anni, e lascia formalmente l’Unione Europea. Questa data segna l’inizio della transizione che deve durare undici mesi, durante i quali sarà ridefinito il quadro di regole e normative. Un’operazione complessa che – come si scoprirà qualche settimana dopo – deve essere eseguita con precisione e cura in un momento di crisi planetaria. Certo, «nessuno si aspetta l’Inquisizione Spagnola». Ma anche una pandemia è difficile da prevedere.

Alle 23.00, ora di Londra, del 31 dicembre, il Big Ben batte i suoi rintocchi per segnare l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Le regole, in qualche modo, ci sono e gli effetti si vedono da subito: contrazione del PIL (si stima una perdita del 5%, una decina di miliardi di sterline l’anno, rispetto a uno scenario senza Brexit), calo degli investimenti esteri diretti, difficoltà e burocratizzazione del commercio, inflazione in aumento, carenza di manodopera per l’allontanamento degli stranieri, costi di liquidazione da versare all’Unione Europea (parrebbe 35 miliardi di euro).
Pare poi che la migrazione, che – in nome della sicurezza – era l’obiettivo principale di questa tarantella, non sia diminuita in maniera significativa. È solo cambiata la composizione di chi arriva nel paese: un taglio drastico dei migranti UE.
Il primo luglio, con un referendum e con il 78% di voti a favore, in Russia si approva un emendamento che azzera la permanenza di Vladimir Putin alla carica di Presidente russo. Solo per fare un rapido riassunto: Putin è stato presidente da marzo 2000 a maggio 2008, per due mandati; poi un mandato da Primo Ministro – tra maggio 2008 e maggio 2012 – per sopperire a una bega procedurale (la costituzione russa non gli permetteva di ricoprire più di due mandati consecutivi), durante il quale ha assegnato il ruolo al fido Dmitrij Medvedev; e infine da maggio 2012, per altri due mandati da sei anni l’uno. Con il referendum, potrà candidarsi per altri due mandati, nel 2024, al termine di quello corrente. Se non cambia nulla, l’ultimo mandato acquisibile attraverso gli strumenti della democrazia, si esaurirà nel 2036, quando Putin avrà 85 anni. Copre la carica di presidente da quando ne aveva 49. Difficile immaginare un mondo senza Putin.

Il 3 novembre è il martedì successivo al primo lunedì del mese. Se questa frase ti sembra incomprensibile significa solo che non sei un appassionato di politica statunitense. Se lo fossi, ti alzeresti dal letto come Anna in Frozen, gridando «It’s coronation day!». Gli statunitensi chiamano quel giorno, con meno precisione, “Election Day”. La durata riferita al singolo giorno è puramente putativa. Il voto postale dura per settimane, con le sue regole differenziate per stato, il processo di registrazione degli elettori, le assegnazioni dei singoli Stati chiamate dalla AFP, l’attribuzione dei grandi elettori con la mira alla soglia dei duecentosettanta, i meme sullo spoglio in Arizona, le dichiarazioni di vittoria dello sconfitto, l’atmosfera da reality show in frantumi, con la sua coda di decine e decine di (inutili) azioni giudiziarie. Nel 2020, «la più grande democrazia del mondo» registra un record alle urne: 17 milioni di voti in più rispetto al 2016. Un sacco di gente che pare volersi liberare – solo temporaneamente – di Donald Trump. Vince il candidato democratico, Joe Biden, e il presidente uscente, indifferente al fair play grida, strepita, sbraita, sbava e denuncia brogli, senza uno straccio di prova.
Lo sport a porte chiuse
Il silenzio cala anche sugli stadi. E non è solo una metafora. Le curve sono mute. Gli altoparlanti gracchiano a vuoto. Le porte restano chiuse e, finalmente, nessuno può lamentarsi per questo o quel giocatore, per il pessimo arbitraggio di quel cornuto dell’arbitro o per una qualsiasi di quelle cose che risultano incomprensibili a chi, come a me, non è mai importato nulla del calcio. Le telecamere inquadrano spalti vuoti, mentre i calciatori sembrano muoversi in un palcoscenico distopico, come comparse di un videogioco ancora in fase beta. Anche chi fa la telecronaca da casa ha la voce troppo squillante, a simulare una gioia del gioco che, davvero, non c’è.

A marzo comincia la sfilza delle sospensioni: partite rinviate, tornei cancellati, circuiti interrotti. Si ferma tutto: calcio, basket, MMA, tennis, persino il curling e il badminton. Gli sportivi si filmano mentre si allenano in salotto, tentando di rimanere in forma facendo flessioni o correndo sul tapis roulant, ma in una casa troppo affollata compare sempre qualcuno in mutande o un figlio che chiede «Bro’, che cazzo fai?». I tifosi smarriti cercano un senso nella riproposizione in loop di Italia-Germania 4-3, come se bastasse quella mezz’ora di supplementari per salvarci tutti.
E poi, il colpo grosso: le Olimpiadi di Tokyo vengono rimandate. Olimpiadi che avevano già il logo, le medaglie pronte, e i pupazzetti ufficiali (dei robi che paiono i Pokemon più sfigati a cui un burlone ha lasciato le etichette del prezzo). Tutto rinviato di dodici mesi, che in realtà è un modo educato per dire «boh, vediamo». Anche gli Europei di calcio vengono spinti avanti. Ma almeno, stavolta, nessuno potrà dare la colpa a quel cornuto dell’arbitro.

Nel frattempo, i bar sono chiusi. Un danno enorme per la cultura sportiva nazionale. Nessuno può dire la propria sul 3-5-2 (o una qualsiasi altra combinazione di tre numeri che sommati danno 10, ché il portiere non lo conta nessuno). Nessuno può prendere in giro il barista della squadra avversaria (e non capirò mai come si possa prendere in giro uno che può fare cose turpi al tuo caffè a tua insaputa). Nessuno può arringare il bancone del bar con la voce stentorea da Savonarola. Anche lo sport, insomma, è rimasto chiuso dentro. E ha perso la sua comunità di commentatori improvvisati, di esperti del lunedì, di allenatori da bancone.
Ma non è solo il gioco a fermarsi.

Il 26 gennaio muore Kobe Bryant, idolo planetario dell’NBA, in un incidente in elicottero, insieme alla figlia Gianna e ad altre sette persone. Era uno di quegli atleti che riuscivano a essere mito senza bisogno di parlare. L’esatto opposto di un influencer. Il suo gesto più famoso è un tiro in sospensione, non una story su un social.

In novembre se ne va Diego Armando Maradona. Sessant’anni, troppi per come ha vissuto, troppo pochi per come ha fatto sognare. Lo accompagnano verso il Valhalla murales, preghiere, pianti, cori, repliche di gol e tribunali che si svuotano. Non c’è città al mondo che non abbia trovato almeno un modo per onorarlo. Anche solo con una bestemmia.

Pochi giorni dopo, il 9 dicembre, scompare Paolo Rossi. L’eroe della finale dell’82. Il più umile dei campioni. Quello che era finito nel fango e ne era uscito col sorriso. Un gol in contropiede e un’esultanza che sembrava un abbraccio. Il fatto che se ne vada proprio alla fine del 2020, poco prima di Natale, chiude uno strano anello. Come se anche il calcio volesse tirare giù la saracinesca.
Attaccati alla tetta di vetro
Nel 2020 smettiamo di andare al cinema. Le sale sono chiuse, nessuno sulle poltrone imbottite, niente odore di unto e popcorn, il grande schermo non viene colpito dal fascio luminoso. I film, per un po’, si fermano. Non escono. Esattamente come noi altri, anche loro sono tutti dentro.
Anche dentro casa. Durante il confinamento domestico, impossibilitati a uscire per incontrare altri esseri umani, ci affacciamo agli schermi. Quelli degli smartphone, dei tablet, dei pc. Ci affacciamo ai monitor e ai televisori. Anzi, ci attacchiamo proprio a quelle superfici vitree e iniziamo a suggere, dando un senso nuovo alla locuzione «la tetta di vetro», figura retorica cattivissima ideata da Harlan Ellison.

E le nostre case si riempiono di visioni: serie, documentari, dirette streaming, tutorial, approfondimenti, reality, film e reportage. Netflix guadagna quasi 37 milioni di nuovi abbonati solo nel 2020, con un incremento del fatturato globale del 23%. Prime Video accelera l’espansione globale. Disney+ salva l’intero baraccone Disney che, con i parchi a tema chiusi e senza Avengers: Endgame (film dal successo sorprendente uscito l’anno prima), dimezza il proprio fatturato. Il primo anno di vita di Disney+ si chiude con cento milioni di abbonati paganti e quel numero, nel business case, è la bottomline al quarto anno.
Il più frequentato tra i siti internet, Pornhub, affronta il lockdown con la consueta disinvoltura: offre agli italiani chiusi in casa accesso gratuito alla piattaforma Premium.
Le serie cominciano a raccontare il presente mentre ancora brancoliamo nello stupore. Lo fanno involontariamente, In particolar modo, quelle che si rifugiano nella narrazione di genere e nella finzione, perché la metafora e la sovrainterpretazione sono sempre in agguata. Nelle serie che entrano in produzione entro l’anno, i personaggi indossano mascherine, si parlano su Zoom, usano un lessico che noi stessi abbiamo appena imparato: distanziamento, confinamento, lockdown, quarantena. Abbracciano il virus come dispositivo narrativo.
Attaccati alla tetta di vetro, sorbiamo storie che, inevitabilmente, hanno sempre lo stesso effetto: ci ricordano dove siamo. Dentro.

Guardiamo lo schermo come se cercassimo una finestra. E lo streaming diventa un elemento di arredo essenziale. Non è più solo una questione di intrattenimento. È architettura, sopravvivenza, vicinanza, compagnia immaginaria, diversificazione delle relazioni almeno nei nostri sogni, spostamento simulato.
E più serie guardiamo, più l’algoritmo ci profila. Sembra dire a ognuno di noi «A quelli come te piacciono anche questi altri prodotti». E guardandoli, ognuno diventa sempre più simile all’idea che l’algoritmo ha di lui. La proposta di serie definisce l’identità, diventa una forma di controllo: suggerimenti mirati che qualificano l’identità individuale, ordinate in segmenti, categorie, microgruppi d’acquisto.

E poi, c’è Amazon. Che non è più solo un negozio. È la risposta di Pensiero Profondo. 42. Ci dà la vita, l’universo e tutto il resto. Ci permette di ordinare tutto: cuffie, film, libri, pigiami, giochi per bambini, giochi per adulti, confezioni di lievito, sex toy, webcam, panche da palestra, pupazzi. Tutto. Ogni desiderio può diventare pacco. Ogni pacco può diventare realtà. Ogni realtà è una spedizione rintracciabile tramite codice.
Entro la fine dell’anno, “Forbes” grida la straordinaria ricchezza di Jeff Bezos: «la prima persona nella storia a raggiungere un patrimonio di 200 miliardi di dollari». Il secondo classificato in questa corsa tra coprofagia e metallo giallo, Bill Gates, è indietro di novanta miliardi. Chi ha ancora uno stipendio può calcolare il numero di ere geologiche che gli saranno necessarie per guadagnare quella cifra.
Prima del Covid cercavamo la verità al cinema, adesso, nel 2020, la aspettiamo, chiusi in casa, annunciata dalla notifica di consegna. Bip, il trillo del citofono, «Corriere!», mascherina e guanti e corsa giù per le scale, un pacco di cartone con un sorriso impresso. E poi il rito: il taglio del nastro adesivo, l’apertura delle ali di cartone, l’estrazione. La gioia e il senso di vuoto. Cos’altro posso comprare?
Dov’è il carceriere?
Tutti dentro, tutti fuori. E nessuno capisce bene dove sia la soglia. Impariamo a desiderare la consegna, a fidarci del tracciamento, a ringraziare la sorveglianza. Facciamo nostre le regole, come se ci appartenessero da sempre. Ci appassioniamo alla rappresentazione numerica dell’andamento dei morti e dei contagi, senza capire come leggere i numeri. Speriamo che arrivi un vaccino – uno qualsiasi – che, anche se sperimentato poco e malamente, ci permetta di tornare a un prima che non ricordiamo più. Non sappiamo ancora se ci faremo inoculare quel vaccino: un problema da affrontare il prossimo anno, quando parleremo anche di green pass e tamponi. E qualunque sarà la nostra decisione, rispetto a quelle punturine periodiche (salvifiche o mortifere, a seconda dei gusti del momento), non ci diremo mai che l’abbiamo fatta per paura, per convenienza, per obbligo, per adesione, per disperazione, per sfiducia, per idiozia… Aspettiamo il momento in cui le porta saranno aperte, senza sapere che, anche allora – se e quando quel momento verrà – ci muoveremo ancora come se fossero chiuse.

Il 2020 non finisce il 31 dicembre. Rimane incistato nei gesti, negli sguardi, nei pensieri. Sta lì, in quel sospetto che non ci abbandona, in quella prudenza che spacciamo per saggezza, in quella distanza che ormai chiamiamo educazione. Basta un colpo di tosse, una mascherina sospetta, l’osceno fetore del gel sanificante per le mani e torna la paura,
Nel 2020 scopriamo che il carcere non è più un luogo. È un metodo. È una forma. È un’architettura invisibile che ci portiamo addosso. Ci mettiamo in fila per rientrare nella normalità, per poi accorgerci che non è più dove ricordavamo di averla lasciata. Anzi, forse non c’è mai stata.

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).