LATO A

#1

Strenuamente antinazista, Marlene Dietrich – che si era trasferita a Hollywood dopo il successo dell’Angelo Azzurro, non rimetterà mai più piede in Germania (in realtà una volta sola alla fine degli anni ’50) dopo la presa del potere da parte di Adolf Hitler. Ma Berlino, sua città natale, rimase  sempre il suo vero unico amore. «Ich hab’ noch einen Koffer in Berlin» è probabilmente la più grande dichiarazione d’amore che si possa fare a una città. Lo strazio di saper cantare versi come: «Ho lasciato una valigia a Berlino/ per cui presto dovrò tornarci./ Le gioie di tempi passati,/ sono ancora tutte dentro quella valigia», nella consapevolezza che invece il ritorno non sarebbe mai accaduto, è una cosa in cui sentiamo la stessa intensità del nostos omerico. [BB]

#2

Londra invece non amava i Sex Pistols. dopo i problemi dell’Anarchy Tour, per loro l’aria nella capitale dell’Impero era diventata irrespirabile. Così pensarono di farsi una vacanza di qualche settimana a Berlino. Respirare l’aria folle e creativa di Berlino Ovest fu un momento di sollievo e serenità, tanto che dedicarono alla città questa canzone, definendola una vacanza al sole. Il singolo uscì nell’ottobre del 1977 e fu l’ultima canzone in cui cantò Johnny Rotten. Dicono che il giro di basso sia copiato da un pezzo dei Jam uscito qualche mese prima. A noi non interessa. [BB]

#3

Sarà proprio in quei mesi del 1977 che Catharina Hagen, che viveva a Berlino Ovest in quanto espulsa dalla DDR al seguito del suo patrigno Wolf Biermann – intellettuale dissidente-, sentirà suonare i Sex Pistols e si innamorerà del punk, decidendo di diventare Nina. [BB]

#4

A differenza di Marlene Dietrich, Ute Lemper le strade di Berlino le percorre senza sosta, facendoci venire – a ogni ascolto – la voglia di tornare a Berlino per calpestarle con lei. [BB]

#5

La quinta traccia del primo album di Lou Reed era intitolata “Berlin”. Il produttore Bob Ezrin, stufo delle storie interrotte dal cantante, esige di sapere cosa succederà alla coppia raccontata in quella canzone. Gli lascia giusto il tempo di staccare uno strepitoso successo con Trasformer e lo costringe a montare un concept album, intitolato appunto Berlin. Il disco che racconta proprio la città di Berlino del nostro immaginario, triste e in bianco e nero. [PI]

#6

Per evitare di ammantarci in una tristezza che non sappiamo spiegare, buttiamo dentro una canzone incomprensibile dei Ramones. Incomprensibile perché dei testi dei Ramones mica ci si capisce mai niente. Qui poi c’è anche Dee Dee che canta una strofa in tedesco al telefono. «Born to die in Berlin». [PI]

#7

Renato Abate alias Garbo usciva con A Berlino…va bene il 21 settembre 1981. New Wave italiana. Bella. Talmente bella che per noi che ascoltavamo solo anglosassoni fu una sorpresa. Il primo disco di Garbo è tutto da riascoltare. Una new wave scura ispirata a Bowie ovviamente, ai Roxy Music, ai Japan. Ciao Garbo, sei nei nostri cuori. [AF]

#8

Schiavo della cocaina («I just can’t stand still, I’ve got to use her.»), affascinato dall’occulto e dall’arte espressionista, Bowie fugge con Iggy Pop a Berlino a metà degli anni ’70 del secolo passato. Lì, con Brian Eno, Tony Visconti e Robert Fripp, produce tre album leggendari: Low, Heroes e Lodger. Dei tre Heroes è l’unico registrato a Berlino, agli Hansa Tonstudio, a due passi da quel muro che aveva diviso la città e sotto al quale poteva capitare di incontrare due innamorati uniti in un abbraccio indivisibile:  «We can be heroes, just for one day». [PL]

LATO B

#9

Berlino è Bowie, la sua Trilogia e, soprattutto, Heroes, anche grazie al romanzo & film di Christiana F. Doppio gossip legato a questa esecuzione: siccome a un certo punto bisogna pure fare i sacrileghi, scegliamo non una versione originale, bensì quella realizzata da Amanda Palmer per una serata BBC dedicata al Duca Bianco. In quell’occasione fece anche capolino l’allora Mr. Palmer cioè Neil Gaiman. Ora la coppia artistica così felice non è più così felice e non è nemmeno una coppia. Ecco quindi la performer eseguire la storia ispirata da una coppia che si bacia contro l’allora (ancora integro) Muro, mentre Bowie stava registrando all’Hansa Studio. Sembra una romantica e convenzionale storia d’amore? Non proprio, perché i due innamorati erano il produttore Tony Visconti e una sua amante del tempo. [OM]

#10

Cosa ci può essere di più berlinese di Bertolt Brecht & Kurt Weill? Nick Cave, che ebbe anche lui il suo formativo periodo berlinese – si può vedere a questo riguardo la “finta” biografia a fumetti di Reinhard Kleist – partecipò a September Songs, un film e un disco in cui autori contemporanei rivisitano alcune tra le più celebri canzoni dell’autore tedesco. E l’appassionato di Murder Ballads, l’autore di pezzi come Red Right Hand e Where the Wild Roses Grow, non poteva non cantare la “murder ballad” Die Moritat von Mackie Messer/Mack the Knife, lo spietato anti-eroe dell’Opera da tre soldi. La canzone, diventata ormai sinonimo di questo testo teatrale fu, in realtà, un’aggiunta dell’ultimo momento perché l’attore che interpretava Macheath pensava che ci fosse bisogno di un’ulteriore canzone che introducesse in maniera migliore il suo personaggio. E, in effetti, così fu… [OM]

#11

I Bad Seeds storicamente funzionano grazie al sodalizio di Cave con l’individuo di turno matto e talentuoso a sufficienza. Se oggi è Warren Ellis, fino al 2003 è stato Blixa Bargeld, incontrato da Cave in un bar berlinese. All’inizio Bargeld non gli parlava neppure in inglese – ma non sembra essere stato questo gran problema. Erano gli anni in cui Cave se ne stava abbarbicato in una specie di ripostiglio con tutte le sue cianfrusaglie e patchwork infiniti di ritagli, appunti, Nabokov, autori russi e santini comprati al mercato delle pulci. Droga non si sa quanta. In quel clima i Bad Seeds rimettono insieme due album e in The Firstborn is Dead il secondo singolo è Tupelo, un pezzo parecchio tempestoso che racconta, appunto, di una tempesta micidiale la notte della nascita di Elvis Presley (e di quella, non riuscita, del suo gemello, il “firstborn”) a Tupelo, Mississippi. [LC]

#12

Leonard Cohen in First We Take Manhattan a Berlino non ci va ma promette (minacciosamente?) che lo farà, con un “noi” non meglio precisato. In un pezzo dal testo piuttosto sfuggente, un po’ messianico, un po’ carbonaro, Berlino è la tappa prossima di un piano grandioso di rivincita. La prima versione viene registrata da Jennifer Warnes che con Cohen aveva collaborato come corista, con una band devastante: Stevie Ray Vaughan a una chitarra, Robben Ford a un’altra, Vinnie Colaiuta alla batteria, Roscoe Beck al basso e alla produzione. Viva tutti, però suonava proprio anni ’80. Cohen la incide nell’88 con un mood proprio synth, funziona meglio se la canta lui. Però ancora meglio nella fase senile, quando si rimette in tour quasi permanente (la manager gli aveva fregato un bel po’ di soldi mentre lui era via al monastero zen). Ci prende gusto e fa concerti quasi fino alla fine – con First We Take Manhattan quasi sempre in scaletta. [LC]

#13

I Baustelle (“lavori in corso” in tedesco) nel 2016 pubblicano unicamente in formato digitale il brano Lily Marleene, omaggio alla famosissima canzone alemanna il cui testo fu tratto da un poemetto del poeta Hans Leip, scritto intorno al 1915, e musicato da Norbert Schultze nel 1938. Il brano, fortemente antimilitarista, è una delle canzoni più famose al mondo, soprattutto nell’interpretazione di Marlene Dietrich, e viene citata in tantissimi altri brani, anche italiani, come in Alice di De Gregori e Alexander Platz di Battiato. Nonostante questo, la canzone dei Baustelle non è nemmeno lontanamente una cover. [FP]

#14

Berlino è infine il pezzo di chiusura di Psiche, disco di Paolo Conte del 2008, quello dove in copertina lo si vede appoggiato al muro della Camera dei Giganti di Palazzo Té a Mantova. La canzone è fumosa, impalpabile, quasi inesistente. Sembra di trovarsi in una Berlino salgariana, quella di chi la descrive senza averla mai vista (anche se l’avvocato vi ha suonato più volte). Già l’attacco spiega tutto: dopo un lungo lamento di sassofono che risorge continuamente dal suo caracollare sfiancato, il biascichio di Conte ci dice che «piove a Berlino, una pioggia spagnola…» [FP]

BONUS TRACKS

«Quand’è che è abbastanza? E chi lo decide? Un muro è un muro, e niente ma niente di più! Sono in arresto? (fanculo) Ho dei diritti? (fanculo) devo aggiungere qualcosa? (fanculo) io non mi nasconderò e non mollerò» Victoria Ruiz, vocalist dei Downtown Boys, urla agli elettori di Trump: «Spero che adesso lo vediate. Spero che vediate voi stessi». Un pezzo esplosivo, che resta in testa e non ti molla. «A wall is a wall, and nothing more at all». [AS]

After Berlin di Neil Young, 1982. La caduta del muro è ancora lontana, e Young canta – involontariamente (che lui è convinto di innalzare un inno alla libertà contro la tirannide comunista) – il paradosso di questa città, in cui quelli che si considerano liberi sono quelli chiusi dentro. [BB]

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