Un sorso ancora

Mabel Morri | Play du jour |

È freddo.
Non freddo da ghiaccio, è piuttosto quel freddo che, accaldati nei giubbotti pesanti soffiando nuvolette di vapore condensato, dà anche gusto sentire tra una piega e l’altra della sciarpa. Uno spiffero non poi così fastidioso.
È più quel freddo umido, quello che quando si è stanchi entra nelle ossa e solo un bel bagno caldo (avercela ancora la vasca nelle case moderne) o un brodo possono colmare.
Brodino, che fa tanto anziana ma riscalda come poche cose.
Il pentolino per il brodo sta sempre nella stessa scansia da quando siamo arrivate nella casa nuova, dentro un mobile Ikea abbastanza ampio da contenere ciò che serve senza che ci cada tutto addosso. Sorprendentemente c’è ancora spazio per lasciarci dentro anche altre cose il cui uso se non è decaduto è decisamente minore.
Come la mia vecchia borraccia. Breve ma intenso, si dice oggi. La borraccia perdeva dopo che la gommina intorno al tappo si era usurata così l’unica soluzione è stata mandarla anticipatamente in pensione. Il fatto è che io decoro questo genere di cose con le figurine.
Deve essere ancora in qualche casa bolognese, se non è definitivamente perduta una mia vecchia cartellina contenente qualche tavola originale di non ricordo più quale fumetto (ma era il periodo Self Comics) aveva nel lato interno sinistro un collage di figurine e adesivi. Le figurine erano le più svariate: dagli immancabili calciatori a Sailor Moon; da Dylan Dog e Brendon a qualche personaggio Bonelli. Gli adesivi erano di marche di abbigliamento, da quelle da skater a quelle anni Ottanta come El Charro.

Ogni volta che apro l’anta i volti di calciatori e calciatrici mi osservano sorridenti, o concentrati, chi al sole prima di una partita, chi in uno studio fotografico. E ogni volta mi perdo in ognuno di quei volti che hanno un ricordo della mia infanzia, della mia giovinezza, della mia maturità.
Di solito è Cristiana Girelli che mi appare vestita con la maglia della Nazionale pensata per fare bene al Mondiale 2018 in Russia al quale la maschile non ha mai partecipato e onorata da un’altra Nazionale, quella femminile, che il Mondiale, quello del 2019 in Francia lo ha stragiocato, uscendone tra le prime otto ed esaltando gli spettatori. Sopra lo stemma infatti le quattro stelle di competizioni mai vinte nel femminile ricordano sovente che, prima degli investimenti e delle linee apposite, le maglie per le ragazze erano quelle dismesse degli uomini. I capelli mossi raccolti in una coda sopra la testa, gli occhi azzurri semplicemente felice, felice di essere lì in quello studio con quella maglia, consapevole che la qualificazione è stata straordinaria e di star facendo quella foto perché diventerà figurina e, santo cielo, giocherà un Mondiale dopo vent’anni che la femminile non vi partecipava. Le sue lacrime, seduta e mai entrata nella gara decisiva contro l’Olanda, molti di noi se le ricordano ancora, perché erano un po’ le nostre, nel salutare quelle ragazze che hanno dato il cuore e ci hanno vivere un’estate azzurra nonostante tutto.

C’è Alex Morgan poco oltre, sempre sorridente e con una ciocca di capelli magistralmente appoggiata lungo la spalla, vestita con la maglia della USWNT pre vittoria nel Mondiale di cui sopra. Lo scudetto dorato al centro del petto sottolinea la vittoria della terza stella, quella del Mondiale di Canada 2015, altra squadra leggendaria e che vedeva l’ultima volta di Abby Wambach e una Megan Rapinoe ancora biondo ossigenato prima del rosa con cui ha conquistato tutti, mondo e Mondiale, proiettandola nell’olimpo dei personaggi che spostano masse e critica. Alex Morgan è un altro tipo di giocatrice e un altro tipo di combattente fuori dal campo: è lei che, ora che gioca in Inghilterra ed  è madre di una bambina, sta cercando di introdurre la maternità nelle carriere delle giocatrici, senza che questo inalienabile diritto possa mettere fine anticipatamente all’attività sportiva. Oltre al fatto che poter sfruttare a pieno l’essere una bella ragazza le porti contratti altrove, da trucchi a scarpe a tredici tacchetti, e senza quel patinato anni Ottanta che vedeva i servizi fotografici a, per esempio, Carolina Morace, con un allungo di gamba per renderla snella o una maglia sformata arrotolata in vita per renderla sexy.

Roberto Baggio è concentrato invece. La foto è una di quelle “rubate” dallo schieramento a centrocampo prima della partita, assordati dai cori dei tifosi. Deve essere una partita tra il 1990 e il 1994, la Nazionale veste Diadora e la lunghezza del codino è quella indimenticabile del Mondiale USA. La figurina non è della Panini, la regalavano coi punti della IP, sponsor della Nazionale di quegli anni, insieme ai pupazzetti di silicone di Italia ‘90 che, nonostante i piedini, non stavano mai in equilibrio, o almeno, nel mio caso, Fernando De Napoli cadeva sempre insieme a Stefano Tacconi. Il sole è alto ed è evidente la difficoltà nel tenere gli occhi aperti, socchiusi in quella smorfia che chiunque di noi almeno una volta nella vita si è prodotto. La maglia sotto la giacca della tuta è quella bianca: chissà quale partita era, chissà se abbiamo vinto, chissà se le smorfie sono state altre, oltre quelle espressive, per quel ginocchio malandato col quale ha fatto arrivare l’Italia alla finale di USA ‘94.

Lilian Thuram è disegnato. Capitava ogni tanto che qualche collezione avesse i giocatori illustrati, magari a caricatura, forse regalati come allegato di una rivista sportiva di quelle che leggevo da giovane. Potrebbe persino essere il “Guerin Sportivo” mai del tutto nuovo a iniziative di questo genere unendo l’aspetto sportivo a quello artistico, particolare che mi ha sempre scatenato gioia e giubilo. È il Lilian del Parma, quello pre Juve e pre crack di Tanzi e della sua Parmalat, quando il Parma faceva parte delle cosiddette “sette sorelle”: e come ogni caricatura che si rispetti ma che non mi vede sempre d’accordo, i dettagli fisici nell’esagerazione delle labbra e del capo rasato lo rendono simile. Campione del mondo di Francia ‘98 faceva parte di quella nazionale definita multietnica, tanto elogiata negli anni illudendo la stessa Francia che situazioni come quelle raccontate ne L’odio di Mathieu Kassovitz fossero ormai assorbite e superate, scoprendo invece che non solo non lo erano ma sfociando purtroppo nelle stragi terroristiche della seconda metà degli anni Dieci del nuovo millennio.

Wendy Renard accenna un sorriso. Le braccia incrociate e il busto di lato, per dare una dinamicità diversa dalle altre squadre ritratte. La maglia è quella della serie Nike che sulle spalle, sul lato dei pantaloncini e delle tute ha quelle righine che assomigliano alla linea del sensore del sismografo quando inizia a registrare attività sismiche. È un capitano alla Sara Gama, il calcio non è solo un gioco, è parte di un universo nel quale politica, diritti e possibilità si mescolano e si influenzano a vicenda. Ha alzato più Champions lei di Cristiano Ronaldo, è il capitano anche dell’Olympique Lione che solo per la passione del presidente Jean-Michel Aulas meriterebbe una storia a parte ed è stata lei che, considerata la sua altezza (sfiora il metro e novanta), ha ruggito durante la semifinale contro gli Stati Uniti al Mondiale, un Mondiale nel quale la Francia femminile era chiamata a quel salto di qualità e vittorie che persino io attendevo da almeno due lustri, inutilmente, e nell’ultima partita di Champions contro la Juventus ha segnato il pareggio incoraggiando l’OL fino alla vittoria finale.

Marta è tra Baggio e Morgan. La sua voce spezzata dopo la sua ultima partita con il Brasile è stato commovente, lei che è Marta, non una qualunque, lei che è riuscita a far cancellare il nome Neymar jr. dalle maglie numero 10 verdeoro, specialmente dopo Brasile 2014 (quello di Brasile – Germania 1-7 per capirci) mentre i bambini incollavano il suo, di nome, su quel numero che ha fatto sognare generazioni. Fino all’ultimo non era importante l’eliminazione di quel momento, l’importante era che il suo esempio potesse essere di stimolo alle bambine che la vedevano, che se ce l’ha fatta lei anche loro potevano farcela e che quel Brasile meraviglioso (e inconcludente) non venisse disperso.
Il volto è magro e scavato, serio, con questi due occhi color nocciola che non hanno mai apparentemente avuto paura, dimostrandolo fino all’ultimo secondo nel quale ha baciato i colori verdeoro sul petto.

Tra Aurelle Awona, difensore del Camerun e il ciclista Simone Andretta ex della Bardiani CSF, Paolo Rossi, l’indimenticabile Pablito, in un urlo gioioso alza le braccia dopo un gol: nonostante la felicità il taglio dei suoi occhi sono sempre all’ingiù, come se anche nei momenti più belli molte cose fossero comunque velate di tristezza.
Per mia madre, Paolo Rossi era come per me van Basten, per cui la giornata è stata luttuosa: si sta abituando a vedere andar via piano piano molti amici, uno, l’ultimo, per quel virus che ci sta facendo cambiare modo di vivere e modo di comportarci. Paolo Rossi non era un amico, chiaramente, ma era quel simbolo solo nostro, solo italiano, sul quale si rifletteva un’intera società venuta fuori dagli anni di piombo, in un’Italia del terrorismo sfasciata dalle stragi. E che con quei 6 gol ha riportato la gente in strada, finalmente spensierata, finalmente felice.
Non sono riuscita a commuovermi per Maradona, ma per Paolo Rossi sì. Perché è stata la nostra storia, e da quella storia siamo diventati quello che siamo oggi.

Il camino della casa di fronte fuma frettolosamente: sbuffa, le luci calde appaiono dalle finestre opache di vetro smerigliato.
Ho ancora freddo, il dado si sta sciogliendo nell’acqua del pentolino.
Chiudendo l’anta ho richiuso anche piccole parti della mia vita mascherate da figurine.

Il brodo è pronto.

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(Quasi)