L’educazione sentimentale

Francesco Pelosi | Ritratti |
disegno de La Came

Quando avevo sei o sette anni, mio padre mi mise in mano un Corto Maltese, forse La ballata, forse Concerto in O’Minore, il suo preferito, e io lessi soltanto le vignette dove appariva il marinaio, saltando tutte le altre.

Qualche anno dopo, fece lo stesso con Lo Sconosciuto e io, pur leggendo solo le vignette dove c’era Unknow, indugiai molto lungamente su QUELLE due pagine di Largo delle tre api, dove Unknow non c’era.

Quando scendevo in cantina, a casa di mia nonna, adoravo l’odore di muffa che mi invadeva completamente le narici. Laggiù, in un armadio con la serratura rotta, c’erano i tesori della Corno di quando mio padre era ragazzo: “Il mitico Thor”, “I Fantastici Quattro”, e “Capitan America” con gli X-Men in appendice. Un’esplosione di Jack Kirby invadeva tutto quello che di me la muffa aveva risparmiato.

Un anno, all’edicola del mare, scoprii, fra tutte quelle benedette buste miste, l’albo numero 5 della ristampa di “Alan Ford”, Date, date, date. Decisi allora di completare la collezione di mio padre, ma solo i primi 75 però.

Sul balcone di Pinarella di Cervia, leggevo “Lupo Alberto” a fianco di mio cugino più grande, che leggeva “Cattivik”, e poi ce li scambiavamo. Ogni volta che mangiavamo l’anguria, rifacevamo la scena di Enrico la Talpa quando dice, ruttando: «e l’anima vola in cielo». Mio padre la sapeva a memoria, e noi con lui.

Ogni volta che ero malato, mio padre mi portava a casa un fumetto, e quando non succedeva ci rimanevo malissimo. Una volta mi venne la febbre a casa dei nonni e lo chiamai subito per informarlo, lasciando un lungo sottinteso. Arrivò la sera dopo, con l’albo degli X-Men contro il Re delle Ombre.

Un giorno mi portò davanti da LettoRiletto, l’unica fumetteria che c’era allora a Parma, e mi disse: «Entriamo e scegli un fumetto, quello che vuoi. Ogni settimana poi, torniamo qui insieme e ne prendiamo qualche altro numero.» Scelsi “L’Uomo Ragno Classic”, e quella volta presi i primi sei albi. Non so dire quanti anni avessi, ma fu come un’iniziazione.

Su la rive gauche, a dodici anni, sempre con mio padre, decisi che potevo certamente leggere Asterix anche in francese. E in effetti fu così. Ma quell’Asterix et les Ghots, comprato in un bouquiniste, è rimasto l’unico di tutta la serie che ho letto una sola volta. Senza mai ricomprarlo in italiano.

Quando portai a casa La città di Bonvi e Cavazzano, mio padre se ne innamorò. Quell’anno cominciai anche ad ascoltare le canzoni di Guccini, e scoprii che Bonvi era morto poco tempo prima, investito mentre stava andando a una raccolta fondi per Magnus, e Guccini gli aveva dedicato una canzone.

Ogni Natale mio padre mi regalava la raccolta Bur delle Sturmtruppen, e un’altra cosa che facevamo insieme era andare ai concerti di Guccini.  

Poi un giorno, mostrandogli con orgoglio non so più quale scoperta – Will Eisner o Calvin & Hobbes o Sin City – notai in lui un breve moto d’indifferenza.

Non ho mai ben capito cosa fosse successo. Semplicemente, a un certo punto, i fumetti non gli interessavano più. Come avesse cose più impellenti a cui badare. Come se la tristezza lo avesse rapito. L’educazione era terminata, insieme a quel nostro legame.

Ancora oggi però, dopo anni, ogni tanto ci riprovo. Con la conclusione di Jonas Fink ad esempio, o il Texone di Villa. Devo aver azzardato a mettergli sotto il naso persino un Taniguchi.

Ma lo faccio più per me, che per altro.

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