Prospettiva, luce e genio: Nedeljko Bajalica racconta Jacovitti

Federico Beghin | La cassetta degli attrezzi |

Appena ho saputo che QUASI avrebbe dedicato uno speciale a Jacovitti, ho pensato a Ned. Così gli ho scritto su Telegram e gli ho chiesto se avrei potuto fargli un po’ di domande su Jac, confidando nell’amore che mette e trasmette sempre quando parla di fumetto. “Ned” è Nedeljko Bajalica e lo conosco da qualche anno, ormai. Non ci siamo mai incontrati di persona, ma ci siamo visti in videochiamata e sentiti in chat, perché condividiamo l’impegno di collaborazione con “Lo Spazio Bianco“.
Nato in Svizzera nel 1975 e trasferitosi subito a Lecce, Ned frequentò la Scuola Internazionale di Comics a Roma per coltivare la sua passione per i fumetti e in particolare per Jacovitti. Nel 1992 conobbe il suo idolo e divenne suo collaboratore. Per cinque anni, lavorando con Jac, Ned disegnò e inchiostrò salami, vermi, dadi, illustrazioni e i celebri personaggi dell’artista, come Cocco Bill. Dopo la morte di Jacovitti, Ned si prese una pausa dal fumetto e vi tornò successivamente con la graphic novel Ci vediamo domani edita da Edizioni BD/J-Pop. Contemporaneamente e in seguito si dedicò ad altri lavori fumettistici, illustrazioni e corsi. Attualmente Bajalica gestisce la sua libreria Ned Book a Lecce e conduce incontri con grandi fumettisti nella sua rubrica live Comics Night per “Lo Spazio Bianco”.

Domanda: Lavorando con Jacovitti, hai coronato il tuo sogno. Ma perché proprio lui e come sei arrivato a centrare l’obiettivo? Racconta un po’…

Nedeljko Bajalica: Ho coronato il mio sogno, lavorando per Jacovitti, perché ho conosciuto il fumetto a tredici anni grazie a un “Diario Vitt” che mi fu regalato da mio padre. Ero ragazzino e, quando ricevetti quel diario con un fumetto di Cocco Bill all’interno, rimasi folgorato dalla storia, dai disegni e dall’artista e decisi che volevo diventare un disegnatore, volevo essere come Jacovitti, essere lui, disegnare con il suo stile. Allora mi misi a lavorare per tre anni, consumando carta e togliendo tempo allo studio, e a diciassette anni mi presentai al suo agente, Vezio Melegari, che gestiva l’immagine di Jacovitti e una parte dei suoi lavori a Milano, presso l’agenzia Il Soldatino. Melegari vide i miei lavori e credo che sia rimasto entusiasta, perché quando stavo tornando a Roma, dove frequentavo la Scuola Internazionale di Comics, mi contattò dicendo che aveva parlato di me a Jacovitti e che Jacovitti stesso mi avrebbe aspettato il giorno successivo, la domenica, a casa sua. Allora mi presentai con mio padre da Jac, che aveva già pronto del lavoro per me. Quindi nell’ottobre 1992 iniziai a lavorare per lui.

D: Grazie al lavoro, hai conosciuto l’artista e l’uomo. Che cosa ti ha colpito dell’uno e dell’altro? Com’era avere a che fare con entrambi?

NB: Tante cose colpiscono di Jacovitti. Non era una persona semplice, era un uomo molto buono e molto generoso, un artista geniale, che rispecchiava perfettamente il folle mondo surreale che aveva creato. Era abbastanza solitario e frequentava raramente le fiere. Sono tra le persone che l’hanno frequentato di più, perché andavo da lui circa quattro volte a settimana per prendere i disegni che dovevo inchiostrare. Quasi nessuno l’ha mai visto disegnare, ma lui lavorava solo con la luce solare e quindi disegnava quasi al buio. Nei mesi invernali, quando andavo a prendere i disegni, verso le 16:30 o le 16:45, lo vedevo mentre metteva la mezzatinta al buio e una volta gli chiesi come facesse. Mi disse che, quando finiva la luce naturale, smetteva di lavorare e andava a guardare la televisione o a leggere. Ma in realtà la luce già non c’era più! È una cosa che mi ha sempre colpito molto, geniale. Poi Jacovitti era molto onesto: non mi ha mai sfruttato, mi ha sempre pagato, fin dal primo disegno che ho fatto, senza mai approfittare della sua posizione. Molti mi definivano un suo allievo, ma non lo sono mai stato. Non faceva neanche parte del suo personaggio avere allievi, insegnare non era il suo mondo. Quando sono andato da lui, sapevo già disegnare e inchiostrare. Mi ha preso perché ero già pronto per lavorare e non doveva spiegarmi niente. Avevo guardato i suoi disegni e i suoi libri, usando la lente d’ingrandimento per capire come inchiostrava, perché il vero cruccio era capire che cosa usasse per farlo.

D: Mi racconti la giornata tipo con Jacovitti?

NB: Siccome andavo da lui per ricevere i disegni e poi tornavo nella pensione in cui vivevo, non c’era una vera “giornata tipo con Jacovitti”. Però, a volte, ci fermavamo a parlare. Jac disegnava direttamente a china, non usava mai la matita, se non per fare qualche linea di prospettiva, infatti le sue tavole originali non hanno quasi mai traccia di matita. Disegnava con l’inchiostro anche le tavole più incasinate, piene di elementi: questo è il simbolo della sua genialità. Lavorava su un foglio Fabriano F2, una carta molto scadente, faceva la traccia con un pennino, poi chiamava me che inchiostravo. Dapprima usavo un Rapidograph, poi riuscii a trovare dei pennini con cui potevo riprodurre il suo tratto con la maggiore fedeltà possibile. In base alla grandezza del disegno dovevo aumentare lo spessore del tratto. L’inchiostrazione di Jacovitti è fatta da tantissimi segni, si chiama “tratto multilinee” o “tratto un po’ arricciato”, come lo chiamavo io. Quando finivo, gli riportavo il disegno e lui metteva la mezzatinta. Se il disegno doveva essere colorato, veniva dato ad Alfonso Castellari, che era il suo colorista di fiducia.

D: Ci sono degli aneddoti di studio che puoi condividere?

NB: Oltre all’aneddoto sul lavoro al buio di Jacovitti, posso dire che nel suo studio aveva appeso una targa con scritto «Vietato cosare», una tipica “jacovittata”. Poi mi colpì una riproduzione in un formato 70×50 della vecchia banconota delle 10.000 lire degli anni Settanta. L’aveva fatta incorniciare con l’obiettivo di guadagnarne una al giorno, mi disse. Era una cosa comprensibile, perché Jacovitti era nato in una famiglia molto povera, quindi aveva visto la guerra e la vera povertà. Perciò, memore del passato, cercò di non restare mai senza soldi.

D: Ricevevi molte indicazioni dal maestro sul lavoro che dovevi svolgere?

NB: Solitamente no. Però mi disse delle cose. Mi spiegò come concepiva la prospettiva: era un metodo molto particolare, fatto con una gabbia. Poi mi parlò della luce: quando metteva la mezzatinta, le ombre solitamente, doveva venire sempre dalla stessa direzione, la fonte di luce era sempre la stessa per tutti i suoi disegni. Lui amava molto la simmetria, però al riguardo non mi disse molto. Mi diceva qualcosa sulla stampa, ma a volte quelle indicazioni si rivelarono sbagliate. Per esempio, per un libro che illustrai interamente io, Burle e fatti alla fiorentina!, mi disse che sarebbe stato di grande formato e che quindi avrei dovuto usare un tratto spesso, altrimenti si sarebbe perso nella stampa; invece il libro fu stampato in A5. Questa è una cosa che mi diverte ancora oggi. Quindi, più che indicazioni, c’erano delle cose importanti da fare, come usare sempre un inchiostro di china e mai inchiostri sintetici, perché il tratto doveva essere resistente all’acqua. Infatti il colorista usava l’Ecoline e c’era il rischio di sbavature.

D: Qual è il personaggio o l’oggetto o la situazione che ti sei divertito di più a realizzare per Jac?

NB: Le situazioni divertenti sono tante. Per quanto riguarda i personaggi, dico Cocco Bill e Tom Ficcanaso, perché furono i primi personaggi che disegnai. Bisognava fare delle copertine per il mercato giapponese, che poi furono utilizzate per lo “Jacovitti Magazine”. Erano venti copertine, quattordici di Cocco Bill e sei di Tom Ficcanaso, e mi divertii molto a farle. Erano di grande formato e Tom Ficcanaso era il mio personaggio preferito. Però mi divertii di più e smadonnai di più quando feci la prima copertina natalizia di “Comix: il giornale dei fumetti”, edito da Panini. Era una sorta di quotidiano, ma usciva una volta a settimana e all’interno c’erano le varie strisce, un po’ all’americana, da Bonvi a Disegni & Caviglia, Silvia Ziche, Roberto Totaro, Ferruccio Alessandri e Jacovitti. Jac fu incaricato di fare la prima copertina natalizia: doveva disegnare un Babbo Natale che si apriva in due e da cui uscivano le figurine dei vari personaggi che “Comix” pubblicava. Passò l’incarico a me e mi disse di imitare lo stile dei vari artisti, per disegnare i loro personaggi. Così, mi ritrovai a disegnare il Babbo Natale che si apriva a metà, con le figurine che uscivano, e a imitare gli stili, usando il pennello per imitare Bonvi, il pennarello per imitare Silvia Ziche e smadonnai abbastanza. Ma quando portai il disegno a Jacovitti, lui mi disse che ero stato bravissimo e mi pagò il doppio perché avevo fatto quello sforzo.

D: Tra i vari personaggi di Jacovitti, quello a cui penso subito, quando sento nominare l’autore, è Zorry Kid. Magari sembra strano, ma siccome da bambino ero appassionato di Zorro mio papà me ne parlava spesso. Qual è il tuo personaggio preferito?

NB: Zorry Kid non è il personaggio più famoso di Jacovitti ma è tra i più amati o il più amato dagli intenditori, perché è stato una meravigliosa parodia di Zorro, piena di idee geniali, con un linguaggio innovativo e così particolare che dovettero dire a Jac di semplificare, perché era un fumetto rivolto ai bambini. Per esempio, per far capire il mutismo di Carmelito Battiston, il servitore di Kid Paloma, metteva una vignetta bianca. Qui si vede il genio di un autore.
Il mio personaggio preferito di Jacovitti, però, è Tom Ficcanaso, un reporter della “Gazzetta di Mezza Sera” un po’ sfigato, una sorta di detective molto particolare. Una storia che ho adorato e rimane la mia preferita si intitola Little Tom ed è ambientata negli anni Trenta americani. È bellissima ed è piena di trovate geniali. Poi ci sono tantissimi personaggi che mi piacciono, da Pippo, Pertica e Palla, a cui sono molto legato perché erano nelle prime storie di Jacovitti che ho letto, a Cocco Bill, poi Gamba di Quaglia e Gionni Galassia.

D: Tra le cose che più mi colpiscono dei disegni di Jacovitti ci sono le posture dei personaggi. In particolare il modo in cui sono messe le braccia e ancor più in particolare i gomiti. Sai quale fosse la fonte di ispirazione per queste pose così espressive? Pura fantasia oppure osservazione della realtà?

NB: Anch’io adoro le pose di Jacovitti. Le gambe curve sembrano fatte con un ellissometro e in effetti Jac era molto geometrico, amava la simmetria. Ci sono posture ingobbite che sono bellissime e fatte a mano, senza usare strumenti particolari. Jac non aveva ispirazioni particolari, forse era uno dei pochi autori con uno stile così personale da risultare unico. Sicuramente all’inizio, negli anni Quaranta, la sua derivazione si può cercare in Segar, l’autore di Braccio di Ferro. E, come Segar metteva il sigaro, Jacovitti metteva la lisca di pesce. Però poi se n’è distaccato velocemente e già negli anni Cinquanta il suo stile era personale, unico. Non c’era neanche l’osservazione della realtà, a dire il vero, perché Jac era un tipo molto metodico e abitudinario, amava la gente ma non gli piaceva starci in mezzo. Infatti, mi diceva di non essere mai stato a un concerto e a una partita di pallone. Era riservato, ma stare con lui era molto divertente, esilarante. Quando lo invitavano alle fiere, il 90% delle volte declinava, anche se andò a Lucca nel 1992 e ci fu lo storico incontro con Mordillo nel 1994. Noi fumettari di solito siamo osservatori della realtà, ma lui no. Prendeva ispirazione dai film e dalla televisione, osservava la realtà attraverso quei mezzi. Dal punto di vista mimico, lui si faceva degli autoscatti e con la sua mimica facciale faceva quasi paura per quanto era geniale. Era quasi un attore del cinema muto.

D: Mi sveli un segreto? Come faceva Jac a usare i cubi in assonometria dentro cui sviluppava persone che si muovevano in città senza città?

NB: Per quanto assomigli a un’assonometria, in realtà non lo è: è sempre una prospettiva. Jacovitti aveva un metodo particolare per la prospettiva: se vedi le sue panoramiche e procedi dal basso verso l’alto, dal basso sembrano in effetti delle assonometrie, ma sono sempre prospettive. Tracciava due linee ai due lati verticali del foglio, come se fosse una gabbia, e poi lo suddivideva procedendo di due centimetri in due centimetri. Quindi: due, quattro, sei, otto, dieci… da una parte e dall’altra. Tracciava una riga dal due al quattro, dal quattro all’otto e così via. In base alla prospettiva, faceva i personaggi, comprese le nuvolette che assumevano la prospettiva dettata dalla griglia.

D: In un disegno di Jacovitti gli elementi potevano essere tantissimi. Creava una gerarchia mentale o proprio “fisica” prima di disegnarli? Aveva delle priorità o procedeva istintivamente?

NB: Jacovitti era un artista istintivo, lavorava di getto come Basquiat, Pollock o Henry Miller, quando scriveva i suoi romanzi. Non ha mai usato un canovaccio, un bozzetto, uno studio preparatorio, non ha mai scritto una sceneggiatura o un soggetto. Era tutto nella sua testa e poi si riversava nella tavola. Tutti gli elementi che disseminava in una vignetta, come i famosi salami, gli servivano per ammazzare il tempo, mentre nel frattempo pensava alla vignetta successiva. Erano quasi dei passatempi che gli servivano per pensare, mi disse. Erano elementi comuni alla quotidianità di tutti, erano nelle case di tutti, ma sono diventati caratteristici del suo stile.
Posso farti capire quanto fosse istintivo con un aneddoto. Al tempo disegnavo un personaggio e gli portai gli studi e lui mi disse di portargli direttamente le tavole. Secondo lui, gli studi erano belli, ma diceva che mi facevano perdere tempo. Però quello era il suo stile, lo padroneggiava e non poteva andare bene per tutti. Anche Crepax e Schulz, per esempio, erano istintivi. Quando questi artisti hanno uno stile personale e lo padroneggiano da tempo, non hanno bisogno di studi o di altre cose, fanno e basta. Una volta Jacovittii creò una storia per Rinaldo Traini per “Comic Art” e, arrivato a trenta tavole senza aver scritto niente della storia, se l’era dimenticata e dovette adattare le tavole a un’altra storia. Lavorava vignetta per vignetta, tavola per tavola, improvvisava, non sapeva mai come il fumetto sarebbe andato a finire.

D: Capitava che Jacovitti recitasse delle scenette o delle battute che poi avrebbe inserito nei suoi fumetti per “testarle” dal vivo?

NB: Anche se ci sono dicerie e leggende sul suo conto, Jacovitti non recitava scenette o battute. Sicuramente, come dicevo, aveva una mimica facciale molto forte. Faceva degli autoscatti con delle facce a cui dava dei nomi e le usava per i suoi personaggi. Lo faceva per divertimento e per ironia, non era qualcosa di fondamentale per il suo lavoro, perché comunque era l’intero personaggio a essere espressivo, non solo il volto. Se un personaggio aveva paura, la esprimeva con tutto il corpo, che diventava il simbolo della paura.

D: Il fumetto fa parte della mia vita, perché ne sono un appassionato. Tu sei andato oltre, perché per te è diventato un lavoro e immagino che ci sia qualcosa dell’esperienza fatta con Jac che ti torna utile in tal senso… ti chiedo, inoltre, se c’è una parte di te che è stata modellata dai fumetti del maestro. Magari l’umorismo, ma è solo un esempio che faccio perché il mio è stato pesantemente influenzato dai manga di Toriyama oltre che dai film di Totò…

NB: Hai citato due grandi maestri. Totò è forse il più grande comico della storia del cinema insieme a Chaplin. Quella della lettera rimane la sequenza comica più divertente della storia del cinema italiano, è quella che tutt’oggi mi fa ridere di più. Toriyama è un disegnatore pazzescamente bravo, geniale nel raccontare, capace nella narrazione: Dragon Ball è un capolavoro. A mio parere, Jacovitti è tra i dieci artisti e fumettari più grandi di sempre. È come George Herriman, Moebius e Tezuka. Ha creato un suo universo pieno di personaggi, con uno stile personalissimo. Pur senza lo stesso successo commerciale, è al livello di Disney. In ogni decade Jac aveva uno stile differente, era impossibile classificare il suo lavoro.
Ovviamente, quella trascorsa con lui è stata una parte fondamentale della mia vita, un’esperienza unica. Oggi, col senno di poi, penso un po’ al fatto che, quando iniziai a collaborare con lui, io avevo solo diciassette anni ed ero molto ragazzino. Forse era una cosa più grande di me. Quindi non so se l’ho mai gestita bene, però sicuramente sono stati anni fondamentali. Dopo essere stato suo collaboratore, non ho mai continuato a percorrere la sua strada. Per me i geni non hanno una continuazione. Per esempio, Schulz ha fatto bene a dire che i Peanuts sarebbero finiti con la sua morte, idem Crepax. Sono autori con uno stile troppo personale e la riproduzione non sarà mai allo stesso livello. Onestamente, già al quarto anno in cui lavoravo con lui, non volevo essere il continuatore di Jacovitti. Quando non fui scelto io dopo la sua morte, ci rimasi male, però allo stesso tempo penso che sarei rimasto imprigionato in qualcosa che non mi avrebbe fatto sviluppare il mio stile, quello che ho adesso. Dopo il lavoro con Jac, ho fatto una graphic novel che si intitola Ci vediamo domani, pubblicata da Edizioni BD/J-Pop con uno stile differente. Se la leggi, non immagini che abbia lavorato con Jacovitti, perché volevo fare altro, confrontarmi con uno stile realistico e affrontare nuove sfide.
L’unico rimpianto che ho è che non abbiamo mai portato a termine il nostro progetto Cocco Story, cioè l‘infanzia di Cocco Bill. Chissà se un giorno vedrà la luce. Magari oggi lo disegnerei in digitale, ho già tutto pronto, non avrei problemi. Oppure tornerei su carta, con pennelli e chine buoni. Però non mi ha più allettato l’idea di disegnare come Jacovitti o di rifare i suoi personaggi. Anche perché farlo significa confrontarsi con un mostro sacro e, anche se il risultato è bello, rimane lontano anni luce dalle opere dell’artista.
In generale, senza dubbio, Jac mi ha trasmesso un po’ del suo umorismo. La sua ironia era formidabile e un po’ provocatoria, come quando nelle interviste indossava degli occhiali senza lenti e si puliva un occhio. Ancora oggi rileggo le sue storie, ripenso a quei giorni molto belli con lui, al lavoro e alle chiacchierate. Attualmente faccio il libraio, perché i libri sono un’altra mia passione, e forse non mi ritrovo più nel mondo del fumetto di adesso, non mi interessa più tutto ma solo alcune cose. Infatti, oltre a Ci vediamo domani, ho lavorato per La Scolastica e ho illustrato vari libri, ho disegnato giocattoli insieme a Jacovitti, però poi ho fatto dell’altro.
Al di fuori del fumetto in sé, Jac mi ha trasmesso la testardaggine, perché lui era molto testardo. A causa del nome, Benito, lui è sempre stato classificato come un tipo di destra, ma in realtà era un anarchico con la “a” maiuscola, non voleva padroni: la frase «nessuno deve dirmi quello che devo fare» era proprio indicativa. Rifiutò il contratto per il “Diario Vitt” perché voleva fare Kamasultra con Marchesi negli anni Settanta e ovviamente i cattolici non potevano permettere una cosa simile, allora lui li mandò al diavolo. Quindi, era generoso e onesto, ma tanto tanto testardo. Quando dico che mi ha trasmesso la testardaggine, ne vado fiero, perché è giusto avere dei principi e rispettarli.

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