In principio era lo storyboard: A Kind of Language in Fondazione Prada

Boris e Paolo | Facoltà di cazzeggio |

Boris: Ci sono capitato per caso. Sabato me ne stavo al bancone del Camparino in Galleria a gustarmi un Campari seltz, quando sono stato travolto da un’orda di tifosi interisti, assetati di spritz, festanti e ignari di quanto li avrebbe attesi di lì a poche ore.

Paolo: Beh… è una buona notizia. Almeno lo spritz lo hanno bevuto con il bitter americante rosso e non con quello, insopportabile, arancione.

B: Mah… per sottrarmi alla loro effimera felicità – lo sai, come Reiser detesto le persone felici – ho cercato scampo in Fondazione Prada. Mi dico «Salgo su all’Osservatorio e aspetto che si trasferiscano tutti in piazza davanti al maxischermo. Lassù di tifosi non ne trovo di certo!». Beh… ho avuto una sorpresa incredibile!

P: Erano anche lì?

B: Ma no, cretino! Per passare il tempo ho visitato la mostra che c’era in quel momento: A Kind of Language. Una mostra sul processo creativo che precede la realizzazione di un film, con particolare attenzione agli storyboard. Curata da Melissa Harris (così abbiamo anche la responsabile che andiamo cercando questo mese). Un allestimento molto bello. L’hai vista per caso?

P: Certo che l’ho vista. Mi hai mandato un messaggio dicendomi che stavi vedendo una mostra bellissima e mi è montata l’invidia. Ci sono andato un paio di giorni dopo. Di tifosi interisti, in giro, non ce n’erano più. È davvero una mostra molto bella, piena di cose meravigliose. Che rivela che – visto quanto è articolato il processo produttivo e quante voci autoriali sono coinvolte nella produzione di un film – nel cinema avrebbero veramente senso gli studi filologici. Eppure, non mi pare ce ne siano così tanti. A te cosa è piaciuto?

B: Mi sono piaciute un sacco di cose. Il pop up dello studio di Adenoid Hynkel sono stato a guardarmelo per un tempo interminabile. Pure la sceneggiatura di Jean-Luc Godard, guazzabuglio di appunti e collage di ritagli, mi ha esaltato. Ma la cosa affascinante di questa mostra è che, come hai detto, dimostra che un film non è un prodotto artistico che salta fuori dalla testa di un singolo artista, quanto piuttosto un processo collettivo. Ma un processo in cui, paradossalmente, i singoli elementi possono vivere di vita propria… e alle volte essere più interessanti o completi del prodotto finale. Prendi lo storyboard dettagliatissimo de Il ragazzo e l’Airone, film che ho detestato. Di quelle pagine invece mi sono innamorato, le ho trovate di una bellezza struggente che il film non è riuscito per niente a realizzare.

P: Ci sono materiali meravigliosi. Cose che meriterebbero pubblicazione (pensa allo storyboard di Saul Bass per Psycho). Scorsese che fa lo storyboard di Toro Scatenato e disegna solo alcune scene è incredibile. Sembra quasi che voglia vedere l’immagine che inquadrerà nel film solo quando non ce l’ha già dentro. Le altre scene non gli servono e non le disegna. Oppure l’evoluzione del movimento di Biancaneve, che nello storyboard ha occhioni da Betty Boop. Vedi quelle immagini lunghe, del bosco o la corsa della strega e vedi, al contempo, le incredibili carrellate del film.
A guardare quei materiali, con tutti quei semilavorati che preparano fasi di lavorazione, mi montava spesso la voglia di prenderti in giro. Vedi che il cinema è prima scritto, poi disegnato e poi cinemato?

B: Ahahah. Mai sostenuto il contrario. Gli allocchi che considerano il fumetto e il cinema (fosse anche solo quello d’animazione) sistemi comunicativi di natura simili, bazzicano altre spiagge di critica.  Mi immagino una mostra di sceneggiature di Tex… a parte che forse lì è il disegno che non serve, data la verbosità i lettori abituali manco si accorgerebbero che non c’è.

P: A me è parso interessante osservare come i disegni degli storyboard – a volte assai veloci, altre molto definiti – abbiano spesso una qualità elevatissima. Anche il più rapido tra i disegni mantiene un’attenzione compositiva all’immagine fuori misura. E allora viene da chiedersi come mai questi disegnatori (che a volte rimangono nell’anonimato) preferiscano, alla produzione di fumetti o albi illustrati, realizzare opere monumentali, con centinaia di pagine e migliaia di disegni, che saranno usati durante la lavorazione del film e poi spariranno per sempre.
Guardi quelle pagine esposte nell’Osservatorio della Fondazione Prada e vedi che sono realizzate da disegnatori migliori della gran parti di autori e autrici dei graphic novel in commercio.
Poi, la risposta è semplice… lo so.

B: Beh… stiamo palando di disegnatori – ma anche fotografi, non dimentichiamo che non tutti gli storyboard sono disegnati – che hanno lavorato a stretto contatto con Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock, Agnès Varda, Terry Gilliam, John Lasseter, oppure in grandi produzioni televisive. Sarà decisamente più gratificante, oltre forse che remunerativo, che collaborare con lo sceneggiatore di Julia!
O fare un graphic novel sul morto del momento.

P: Hai citato Gilliam. Ci sono pezzi di storyboard de L’uomo che uccide don Chisciotte e di Paura e Delirio a Las Vegas e se li fa da solo. Ed è bellissimo vedere Gilliam tornare al disegno. La sua antica passione per il fumetto (è stato nella redazione di “Help!” di Harvey Kurtzman e ha disegnato fumetti per “Pilote” su testi nientepopodimeno che di Fred) si vede nella sua idea di cinema. E vederla filtrata attraverso lo storyboard ancora di più. Sembra quasi contravvenire alla siderale distanza tra cinema e fumetto su cui insisti. E sembra quasi che scrivere disegnare e cinemare, per Gilliam, si muovano all’unisono. Sto ripensando alle animazioni del Senso della vita dei Monty Python.

B: Anche lo storyboard de Il ragazzo e l’airone, Hayao Miyazaki se lo è fatto da solo. Eppure, come ti ho detto, c’è una distanza siderale tra quello, che ho trovato bellissimo, e il film che non ho sopportato. Lo storyboard di Paura e delirio a Las Vegas è decisamente un fumetto, in cui si sente l’influenza di “Mad”, ma senza il film, in cui molto senso lo costruisce Johnny Deep, resterebbe un fumetto mediocre… Però non voglio impelagarmi in discorsi ontologici. La cosa veramente funzionale di questa mostra è che, anche attraverso l’allestimento, riesce a dare l’idea di come il nucleo centrale della costruzione di un film, non sia la scrittura (che pure all’inizio c’è), ma la costruzione dello sguardo, che comincia proprio con lo storyboard. Perché i festival del cazzo premiano le sceneggiature e non gli storyboard?

P: Perché bisognerebbe premiare l’eroismo produttivo che un sacco di soldi fa risparmiare.
Frédéric Martel ci ha spiegato (ormai un sacco di tempo fa, con Mainstream) che il cinema è un baraccone fatto da pochi attori pagatissimi che spostano il pubblico senza paura.
Lo storyboard è uno strumento di controllo dello sguardo (e quindi del cinema tutto) potentissimo.
Te lo ricordi Luci della città? C’è la sequenza della fioraia cieca (Virginia Cherrill) che si convince che Charlot sia ricco. Per costruire il frainteso, Chaplin gira una scena in cui, mentre il suo vagabondo attraversa la strada, arriva un macchinone prepotente (una rolls o una chevrolet) e si piazza in mezzo. Charlot, indifferente, apre la portiera, attraversa la macchina apre la seconda portiera e scende. È un piccolo miracolo narrativo, ma Chaplin stava girando con un canovaccio. Non c’erano i dialoghi e la sceneggiatura era una robetta di due pagine dattiloscritte. Ogni scena veniva girata decine di volte, fino a quando il regista e attore non ne era soddisfatto. Ce ne sono alcune che sono state girate una settantina di volte. Il film è un miracolo narrativo, scritto, disegnato e cinemato tuttinsieme. Eppure, una disfatta dal punto di vista della spesa. Dopo che Chaplin si è sputtanato in quel modo i capitali degli investitori, il cinema statunitense introduce la figura del produttore esecutivo. E da quel momento il cinema si taylorizza. Una catena produttiva, con processi sempre più raffinati, e una figura professionale, completamente diversa dal regista e da chi ha ruoli creativi nel film, che verifica come vengono spesi i soldi.
Costruire la sequenzialità delle riprese, le regole d’uso dei set e delle location, la specifica di quello che devono fare tutte le persone in scena, i costumi, le posizioni della macchina da presa… diventa vitale.
Chi fa lo storyboard sta facendo cinema prima del cinema. Forse addirittura invece del cinema. Infatti, ci sono queste animazioni elementari bellissime…

B: Mmmh… Martel è la Naomi Klein dei mangiarane. Uno che deduce complotti per il controllo dell’umanità dai sistemi produttivi. Lo storyboard è un passaggio utile nel sistema produttivo di un film. Ma di sistemi produttivi di film non c’è solo quello hollywoodiano. Ecco, forse un limite della mostra è questo.

P: Spiegami… A me è mancata la presenza di più europei (ci sono dei disegni – bellissimi – di Federico Fellini, un paio di robe spagnole – un Pedro Almodóvar e una serie – e due cosette dal Dune di Alejandro Jodorowsky, se non ricordo male. Ma mi è parso ci fosse troppa Cina. E troppa Hollywood. Cosa avresti voluto?

B: Troppa Cina, no. Ci sono solo Jia Ling e Yang Lina. Tan Chui Mui è malese. Quindi, due cinesi, una malese e due giapponesi. Il resto Europa e Hollywood. Mancano almeno altri due grandi creatori di immaginario visivo, le cui produzioni usano storyboard, quello indiano e quello nigeriano. Ma non intendevo questo. Intendo dire che gli storyboard per ottimizzare i costi non li usano solo le produzioni milionarie.
Qualche esempio di produzioni indipendenti non avrebbe guastato. Ma ammetto che è cercare il difettino, per fare il #maestrinodellaminchia, in una mostra comunque fighissima.

P: A me Wes Anderson piace poco. Però ammetto che il pezzo di storyboard animato (la fuga dal carcere di Grand Budapest Hotel) mi ha divertito tantissimo. Forse più del film. E poi lo storyboard di Nemo, con quel disegno 2D efficacissimo. Quali sono le cose che ti hanno stupito di più?

B: Beh, i bozzetti di uno scenografo del calibro di Max Douy per il Dune di Jodorowsky. Una cosa che mi sbalordisce e che incrina ogni discorso collaterale sul cinema come sistema industriale. Il santone cileno non ci aveva un centesimo, nessuno gli aveva dato credito, eppure mette in piedi una megaproduzione coinvolgendo nomi come Salvador Dalì, Moebius e Douy. Potere della psicomagia?

P: Jodorowsky sbalordisce sempre. Tutte le volte che parli delle sue cose con qualcuno, arriva il momento in cui si deve dire anche dell’incredibile cialtroneria. Delle clamorose cazzate. A volte anche delle bassezze umane. Una volta un fumettista italiano mi ha raccontato che, dopo aver visto il lavoro che il cileno aveva fatto con Moebius, si è presentato da lui e gli ha detto che voleva collaborare. Jodorowsky lo ha guardato e gli ha detto «Va bene!» Ha aperto un cassetto e gli appioppato due pagine dattiloscritte: «Tieni la sceneggiatura!»
«Ma questo è il soggetto! Nella sceneggiatura, bisogna dividere la sequenza in pagine e quadretti, raccontare le inquadrature e i dialoghi!», gli ha risposto piccato il noto fumettista italiano, tormentandosi i baffi. Lo sapeva bene, aveva pure gestito una delle prime scuole di fumetto italiane: aveva un’idea molto chiara del processo industriale.
Jodorowsky gli ha sorriso, si è ripreso i due foglietti e lo ha salutato. Credo che poi li abbia dati a Silvio Cadelo che probabilmente non gli ha rotto il cazzo e ci ha fatto Il Dio geloso o Voglia di cane.
Ecco: mi pare illuminante. Per Jodorowsky il racconto è parola che diventa immagine nella collaborazione. Pensa alla cosa più importante che fa: la lettura dei tarocchi. Al di là dell’accumulo di sapere intorno a quelle carte, le usa come storyboard. Vengono pescate a caso dal mazzo e, con il loro portato iconico e narrativo, diventano una storia da raccontare. È ancora una volta un ribaltamento di «In principio era il verbo».  Puoi metterci tutto il processo industriale che vuoi, ma neanche nel cinema prima si scrive e poi si disegna.

B: Probabilmente quel fumettista con i baffi non ha mai ascoltato il racconto di Moebius su come lavorava Jodorowsky ai tempi dell’Incal, non gli avrebbe chiesto nulla altrimenti. Comunque. Prima di ogni cosa si guarda. Senza sguardo non ci sarebbe né scrittura né disegno.

P: E neanche lo spritz. Il prossimo rosso o arancione?

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