Se non ci fossero i fumetti, sarebbe solo tigna

Paolo Interdonato | post-it |

Domenica: Il Piccolo Festival del fumetto di Cremona, quel delirio labirintico progettato in un castello da Massimo Galletti, continua a essere uno dei posti in cui si parla di racconti con le figure da frequentare necessariamente. Domenica sono salito sul palco un paio di volte. La seconda è stata emozionante: ho parlato con Claudio Calia e ne è venuto fuori un distillato di rabbia e amore che – se te lo sei perso – potrai recuperare solo parzialmente leggendo, ovunque tu voglia e possa, I giorni così. Di quella chiacchierata forse ti dirò quando il tumulto del cuore si sarà un po’ chetato; adesso ti parlo della prima, che mi ha emozionato molto meno.
Era una di quelle manfrine sullo stato del fumetto patrio che piacciono tanto al direttore artistico del festival. Tu vai lì tranquillo, illudendoti di poter chiacchierare con belle persone per due giorni, bevendo più di quanto sia ragionevole, ma sai che, prima o poi, quel momento arriverà.
Massimo Galletti ha un’idea molto chiara di cosa è il fumetto e di come sta in questo momento. Peccato che quel nucleo esplosivo di verità sia ben rinchiuso nel suo pensiero profondo e che, quando decide di raccontarlo alle persone che gli stanno attorno, la sua risposta abbia la stessa precisione micrometrica e la stessa carica di irraggiungibile ermetismo di un «42». Ma dura molto di più.
Molto di più.
Ma molto, eh.
Quest’anno, Massimo ha scelto con cura il proclama con cui mettere a proprio agio le persone che ha fatto salire sul palco del Circolo Arcipelago di Cremona: «Il fumetto è una self area», ha sentenziato. Noi di QUASI avevamo preparato con cura il nostro intervento: Arabella e io abbiamo affrontato i quattro scalini che ci separavano dalla pedana, sicuri di noi, nei panni della delegazione pronta a rappresentare degnamente le istanze della nostra rivista che non legge nessunə. Tra il pubblico si era nascosto, con i suoi mille chili di carne e muscoli, il nostro Onorevole Beniamino Malacarne, che, per dissimulare la propria presenza e festeggiare il tema del mese di QUASI (“Te piace o’ presepe”), si era travestito da zampognaro.
Siccome non abbiamo avuto il tempo di fare il nostro intervento, lo riporto di seguito. Per affrontare il tema
«Il fumetto è una self area», Arabella e io avremmo detto all’unisono «Ma che cazzo significa?» e poi avremmo iniziato a pogare nella sala, accompagnati da un wrestler gigantesco.
Come avrai già intuito, non abbiamo avuto modo di fare il nostro spettacolo per il quale avevamo fatto innumerevoli prove. Gli interventi precedenti hanno deviato la nostra attenzione.
Sostanzialmente, se ho capito bene, è stata portata su quel palco la solita istanza che dice che una critica disattenta, che non intercetta i fumetti belli che stanno uscendo e non li segnala prontamente, è un servizio inutile al sistema.
Lo metto qui, per iscritto, perché l’audio del video passato sulla possente rete di social di QUASI era pessimo.
La critica non è un servizio al sistema fumetto. Quella roba si chiama marketing e le case editrici che lo volessero ottenere dovrebbero attrezzarsi per sostenerlo economicamente.
Il sistema fumetto non esiste. Ci sono monomaniaci che si sentono comunità. Ci sono persone che inseriscono i fumetti – che sono una roba sommamente disutile alle esigenze basilari dell’umana esistenza – nella rete delle loro fruizioni.
A QUASI della presunta “comunità del fumetto” importa nulla.
Alla gran parte delle persone che scrivono su QUASI, del fumetto, inteso come sistema delle narrazioni, linguaggio, mercato, addirittura genere, non frega nulla. C’è perfino gente che non legge fumetti e scrive – benissimo e di cose importanti – su questa rivista che non legge nessunə.
QUASI è una rivista di critica.
Cara comunità del fumetto, non venderemo i tuoi libri. Al massimo, ne compreremo qualcuno. Vedi di farli bene e ridurre il quantitativo di schifezze che butti a palate sugli scaffali dei negozi.

Lunedì: Che, poi, tutta questa storia che mi ha scatenato il malumore è pure una richiesta legittima. In un mercato in cui è sempre più difficile notare le cose che valgono, perché troppo affollato da paccottiglia, ci vorrebbe un arbitro attendibile che indicasse a cosa prestare attenzione. Un giudice del valore le cui opinioni fossero insindacabili. Se quell’arbitro fosse capace anche di modificare la sorte di quel prodotto, decretandone il successo, saremmo di fronte a un ciclo virtuoso: la qualità finalmente pagherebbe; la bellezza salverebbe il mondo.
Bello, vero?
Peccato che ci sia il Capitalismo!
Peccato che il mercato sia alimentato da attori che nel mercato ci vivono – più o meno bene – e, per farlo, infittiscono gli spazi del commercio con prodotti che devono essere venduti, merci. Quelle merci sono prodotte anche – quasi sempre solo – pensando alla loro vendibilità. Oh! La conseguenza è tanto diretta che a esplicitarla mi sento uno stronzetto tutto preso dalle sue spiegazioni. Siccome sono uno stronzetto tutto preso dalle sue spiegazioni, la dico lo stesso: tutto quel pattume, che rende difficile identificare il pochissimo bello che c’è, è prodotto dagli attori che alimentano il mercato. Pure da quelli che – legittimamente – vorrebbero che qualcuno indicasse la bellezza. Un disgustoso invito alla coprofagia accompagnato dalla pretesa di avere accanto un esploratore capace di riconoscere la cioccolata.
Sembra quasi che, da questa chimera dal volto umano chiamata “Critica”, ci si aspetti un sistema di coordinate infallibile che rilevi la qualità senza fallo: «Il prodotto che mi è piaciuto – e che sicuramente vale – non è stato promosso dalla Critica, che – come ben sappiamo – deve essere un servizio agli acquirenti e di conseguenza al mercato. Siano maledetti i critici che non stanno facendo adeguata promozione!»
Siccome sono un critico (sì, l’ho detto), tutte le volte che sento ragionamenti che ruotano intorno a questo pensiero aberrante, mi monta dentro un #vaffanculo che ha una potenza che supersayan scansati proprio.

Martedì: Poi però – sarà l’educazione cattolica, messa a tacere con enorme difficoltà – mi vengono i sensi di colpa. Perché durante l’incontro di domenica – e nelle chiacchiere informali nei giorni del Piccolo Festival – sono stati fatti dei nomi e dei titoli per indicare le grandi omissioni della critica. E, tocca dirlo, di quei fumetti non solo non ne ho parlato, proprio non li ho letti. E non li ho letti per motivazioni diverse ma che hanno sempre a che vedere con il costo di quegli oggetti.
Mi piacerebbe un sacco non parlare mai di denaro. Vivere di sola bellezza.
Che bello, vero?
Peccato ci sia il Capitalismo!
Quei fumetti sono SEMPRE merci. Hanno un prezzo stampato sulla copertina, occuperanno un costoso spazio nei miei ambienti finché li terrò con me, consumeranno la cosa più importante che ho: il tempo. Mica li sto criticando per questo. Sono onesti i fumetti: quanto costano ce l’hanno stampato sulla copertina.
Tu e io, per dire, esprimiamo meno onestà. Il nostro prezzo mica lo esponiamo. Anzi, forse neppure siamo in grado di saperlo. Per riuscire a vivere nel sistema delle merci dobbiamo, di volta in volta, assumere la posizione dell’acquirente o del venditore, e questo ci è chiaro. Quando non perdiamo lucidità, siamo anche consapevoli di essere sempre merce a nostra volta, quando lavoriamo, quando produciamo, quando spendiamo, quando consumiamo, quando affidiamo la soddisfazione dei nostri bisogni a enti che catturano materialmente tutte le informazioni che riguardano il nostro agire. Cosa pensiamo di essere quando un venditore, a fronte di transazione economica, ci passa nelle mani di un acquirente?
Ma sto divagando. Permettimi di tornare al punto.
Ci sono fumetti che trovi belli e importanti di cui non ti ho detto niente. È vero.
Non lasciarti però ghermire dalla tentazione di credere che lo abbia fatto sempre e solo per distrazione (e quella c’è, te lo garantisco).
Ci sono stati casi per i quali avevo ragioni che trovo ottime. Suonano più o meno così «A me di quella roba non frega niente: mi annoia fin dalla copertina.», «Ho un pregiudizio fortissimo nei confronti dell’autorə  perché tutto quello che ha fatto finora non mi è piaciuto.», «Troppe pagine e troppo costoso.», «A me pare proprio pattume.», «Ha deciso che i suoi lettori, per vedere quelle vignette minuscole e quelle paroline scritte con scarafaggini che corrono sulla pagina, devono avere una vista perfetta: @#£$%%!!!»… E così via.
Davvero ti interessa una critica così?

Mercoledì: Accidenti! È già mercoledì e ho passato metà della settimana a menarla sul senso della critica. Volevo anche lanciarmi in una concione su quelli che si sentono comunità del fumetto, ma me la tengo per un’altra volta, sennò l’editore arriva con le consuete minacce di licenziamento perché interpreto male il ruolo di questi post-it.
Allora segnalo che stamattina è uscito l’albo fuori serie che “Les Cahiers De La BD” dedica a Gaston Lagaffe, la véritable histoire d’un anti-héros. Come sai, un paio di settimane fa, è uscita quella robaccia necrofila di Delaf che, dietro ingaggio diretto dell’editore Dupuis, riprende il personaggio di Franquin. Quella roba è una emulazione talmente pedissequa del lavoro di Franquin da essere inutile.
Vale allora la pena di fare i compiti e di rileggere i volumi di Gaston e magari prepararsi all’operazione sfogliando questo quaderno.
Copio la presentazione dell’editore:

«Proprio quando Gaston Lagaffe esce dal suo guardaroba (o dalla sua caverna di posta inevasa), “Les Cahiers de la BD” indagano tutto ciò che rende questo impiegato imbranato e pigro un perfetto antieroe. Dalla sua improvvisata apparizione nella redazione di “Spirou” e dalla sua partecipazione alle avventure del piccolo fattorino ai suoi impegni ecologici e addirittura alla sua vita sentimentale, questo numero eccezionale ed esclusivo analizza anche l’arte grafica e narrativa di Franquin, in particolare il suo senso molto speciale della ripetizione comica e dell’umorismo nero.»

Cosa aspetti?

Giovedì: Vorrei dirti dell’ultimo fumetto di Vincenzo Filosa, Il saraceno, perché ho paura che non riuscirò mai a scriverne come dovrei e vorrei. Ho promesso a Boris che ne chiacchiereremo intensamente per farne una “Facoltà di cazzeggio”. A entrambi è parso uno dei fumetti più belli e importanti usciti da un sacco di tempo. Sarà complicatissimo parlarne, mantenendo i consueti artifici retorici del bisticcio in divenire: siamo d’accordo nel definirlo bello, buono, utile. Toccherà di inventarsi qualcosa.
Per il momento sono riuscito a finirlo e confermo e confermo quello che ne scrivevo su un social network qualche tempo fa:

«Italo Filone non esiste.
È un personaggio di finzione.
Il saraceno di Vincenzo Filosa è una delle cose più coinvolgenti che mi siano mai capitate tra le mani.
Devo centellinarlo.
Dopo un po’ di pagine, lo poso cercando di gestirmi lacrime e tachicardia.
Voglio bene a Vinz.
Devo solo ricordarmi — continuamente — che Italo Filone non esiste.»

Venerdì: Ho scelto la spedizione più economica, quella col piego di libri. Abituato come sono al suono del citofono e al corriere che mi chiede di scendere per ritirare il pacco, mi ha stupito un bel po’ trovare una busta nella cassetta delle lettere. È passato un po’ di tempo da quando avevo fatto l’ordine e ho la memoria da pesce rosso. La lentezza e la memoria hanno molto a che fare con il contenuto della busta.
Di recente a Lorenzo Mattotti capita di parlare dei suoi quaderni e del suo esercizio quotidiano di disegno. Ce lo ha raccontato Lella Parmigiani che è andata a sentirlo all’inaugurazione della sua mostra bresciana:

«Racconta che da quarant’anni tiene un quaderno su cui disegna tutti i giorni un soggetto, ripetuto a ore diverse, su più pagine. Osservando che il disegno cambia a seconda del momento e dello stato d’animo in cui si trova, affina la ricerca, fino a farla diventare il suo metodo per esplorarsi e per comunicare. […] Da una ricerca spontanea di lavoro sulla rappresentazione dei boschi nascono tra il nero della china, macchie di luce inaspettate e come, a posteriori, inserendo nelle macchie le sagome dei bambini in controluce, queste sperimentazioni si siano trasformate in sfondi perfetti alla narrazione, illustrata attraverso le emozioni. Tavole forti, potenti, che riescono a suscitare vividamente anche nel fruitore le sensazioni del performante.»

Il pacchetto arrivato per posta contiene Dibujos Animados di José Muñoz, ventiquattresimo volume del progetto Sigaretten. Nel consueto formato quadrotto dai bordi arrotondati sono raccolti gli esercizi di Muñoz che ha deciso di rinunciare, spero momentaneamente, al fumetto per dedicarsi a un esercizio di disegno che ricorda la riproduzione iterata e la ricerca della figura umana nei boschi di Mattotti. Il disegnatore argentino dedica il libro proprio a Mattotti – e a Stefano Ricci – con cui ha «condiviso questo viaggio».
Ed è emozionante vedere il volto di Mary, sorella di José, apparire tra le foglie. Perché, alla fine, tutto il lavoro di questo straordinario disegnatore gira attorno a un’idea dolorosissima: « la realtà è disegnata bene ma scritta malissimo».

Sabato: Incapace di intercettare le novità mandate in libreria dalle case editrici, mi accorgo solo ora che, alla fine di novembre, Einaudi ha mandato in libreria Street cop di Robert Coover, illustrato da art spiegelman. È un libro stracolmo di riferimenti alla pandemia e alla segregazione forzata correlata. L’edizione italiana, dalla descrizione che leggo in rete, sembra identica a quella originale francese, uscita due anni fa, a novembre 2021. Un mese prima che Flammarion portasse in libreria quel prezioso libretto, Squadro Edizioni Grafiche ha pubblicato il quattordicesimo volume della della collana Sigaretten, Street Cop Uncovered di spiegelman, dedicato alla progettazione dei disegni per la novella di Coover.
Te ne ho parlato distesamente QUI.
Certo, il fatto che navighi un po’ QUASI e rileggi le tante cose – belle, buone e utili – che ci sono in giro mi fa piacere, ma il senso di questo post-it è: guarda con attenzione le proposte di Sigaretten; è microeditoria, difficile da intercettare e acquistare, ma ti dà un sacco di punti di riferimento per muoverti tra le narrazioni con disegni.

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(Quasi)