La parafrasi del tempo
Sono due le generazioni che hanno affrontato le letture obbligate degli studi liceali tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1983: Boomer e X. Hanno avuto un corpo docente che afferiva alla Generazione silenziosa, probabilmente chiamata così per l’assenza di proteste durante gli anni del Maccartismo, e ai chiassosi Boomer, sempre impegnati a raccontare il loro risveglio quasi fosse un’epifania collettiva. E, mentre sedevano in classe, come se tutti gli insegnanti si fossero messi d’accordo, i liceali hanno dovuto leggere gli ultimi due romanzi di George Orwell, La fattoria degli animali e 1984. Due clamorosi atti d’accusa nei confronti della deriva sovietica del socialismo. Il primo, vestito da allegoria, mostra come una rivoluzione giusta possa condurre a uno squilibrio di potere a vantaggio di quelli che erano stati, almeno in apparenza, i più giusti tra i giusti. Il secondo, con la struttura da distopia, racconta un governo indistinguibile dal nostro in grado di diventare un regime totalitario e di controllare ogni aspetto della vita dei cittadini. La manipolazione del linguaggio, la sorveglianza totale, il controllo sulla sessualità e la negazione della verità oggettiva non sono solo gli elementi centrali della deriva stalinista; sono gli strumenti di oppressione che ogni potere usa per perpetuarsi e modellare a propria immagine e somiglianza gli ideali dello stato e dei governati.
Ogni potere. Anche quello che si ammanta di democrazia.

1984, in particolare, ha una connotazione temporale precisa. L’autore l’ha scelta, ponendola a titolo dell’opera, per raccontare un futuro alle porte: ha invertito le ultime due cifre dell’anno durante il quale stava scrivendo. Rapportato ai pochi anni vissuti dai liceali prima di imbattersi nel romanzo, quel breve periodo di attesa (un conto alla rovescia di soli trentasei anni, dal 1948 al 1984) è svanito come sabbia nella clessidra: all’inizio era un’eternità, poi una vita, poi un bel po’ di tempo e poi, dannazione!, il futuro si stava avvicinando alla velocità del precipizio durante la corsa verso la morte di Gioventù bruciata.
Il 1983, fin dall’inizio, si configura come anno di attesa. Poco prima, nel 1979, Lucio Dalla cantava L’anno che verrà, una lettera, carica di ironia, indirizzata a un amico ormai lontano, al quale raccontare la paura che stava investendo tutti:
«Si esce poco la sera
compreso quando è festa
e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia
vicino alla finestra
e si sta senza parlare
per intere settimane
e a quelli che hanno niente da dire
del tempo ne rimane.»
Una paura solida e tangibile, in anni intrisi di una tensione tale da farli parere rigidi, inamidati, quasi di piombo. Dalla allora, appoggiandosi a un rassicurante «la televisione ha detto», distribuisce una ventata di ottimismo: festività e ricorrenze sempre più frequenti, primavera anticipata, cristi che scendono dalla croce, cibo e luce per tutti e soprattutto un sacco d’amore da fare senza distinzioni di genere, razza e religione. Poi, necessariamente, l’immersione in uno sgradevole bagno di realtà: questa lunga infilata di meraviglie è solo una bugia, un’invenzione per prepararsi al futuro.
Già… preparare al futuro è ciò che provano a fare, da sempre, i profeti, ma a ben pensarci ci riescono abbastanza male, mancano il bersaglio e producono paure sfumate. Per esempio, il millenarismo, al massimo porta ansiette: per riuscire a spaventarci davvero, l’arrivo dell’anno Duemila ha dovuto lasciarci ipotizzare la presenza di un terrificante (e comprensibilissimo) “bug” nei sistemi informatici. Quello sì che faceva paura: ci pensi a essere su un aereo mentre il quadro di bordo si spegne, la torre di controllo smette di funzionare, le connessioni digitali iniziano a fare pernacchie e a lanciare coriandoli?
George Orwell non ha bisogno di un cambio di millennio. Con 1984, racconta un mondo prossimo, con evoluzioni tecniche già intuibili e presenti. Una fantascienza del dopodomani. E tutte quelle somiglianze, mentre lo leggevamo, ci inquietavano, ma c’era la tranquillità indottaci dalla distanza temporale tra il nostro presente e quella data futura. Il primo gennaio 1983, diventa chiaro a chiunque che resta appena un anno prima del realizzarsi della profezia di Orwell: e andiamo di corsa a rileggere quel romanzo, trovando profonde somiglianze con il mondo in cui viviamo.
«Il futuro non è più quello di una volta» è uno dei versi conclusivi di The Way It Is, poesia del 1970 di Mark Strand. La vita è inesorabile, dice il poeta, e non ci sono né illusioni né vie di fuga.
Il fatalismo di Strand racconta benissimo il 1983 e ci dice che il menzognero ottimismo di Dalla è inutile: ciò che deve accadere, semplicemente, accade.
«Tutti quelli che si sono venduti vogliono ricomprarsi.
Non si fa nulla. La sera
consuma le loro membra
come una carestia.
Tutto si offusca.
Il futuro non è più quello di una volta.
Le tombe sono pronte. I morti
erediteranno i morti.»
La fine di un sogno, un’illusione
Nel 1983 sembra quasi che gli italiani stiano assumendo consapevolezza dell’insostenibilità della folle crescita demografica. Mentre la popolazione in altri paesi europei (Spagna e Francia, per esempio) continua ad aumentare in accordo a una linea retta proiettata verso il futuro, gli italiani iniziano a fare meno figli. Certo, si continua a crescere – il numero delle bare supererà quello delle culle solo nel 2015 – ma decisamente meno. All’anagrafe sono registrati 56,6 milioni di italiani. Nel mondo, gli umani sono 4,7 miliardi.
All’inizio dell’anno, si è insediato da pochi giorni il quinto governo presieduto dal democristiano Amintore Fanfani. È composto da Democrazia Cristiana, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali, Südtiroler Volkspartei e Union Valdôtaine. All’opposizione Partito Comunista Italiano, Movimento Sociale Italiano, Partito Radicale ePdUP per il comunismo. Quel governo non vedrà la fine dell’anno.
La traiettoria giovanile, che dalle maglie a righe di Genova nel luglio del 1960 era diventata movimento – non solo studentesco – tra 1968 e 1977, si infrange nella risacca. Da un po’ si parla di riflusso. Da quando Eugenio Finardi, nel 1978, ha dato voce a quella sensazione. La canzone Cuba, nel disco Blitz, dice:
«È che viviamo in un momento di riflusso
E ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso
Che tutto quel cantare sul cambiar la situazione
Non sia stato che un sogno o un’illusione»
A Milano, dal 1981, aprono locali dove si possono mangiare panini con hamburger e patatine e bere coca-cola e milk-shake. Appartengono alla catena Burghy. Quello in piazza San Babila, a un tiro di sputo dal Duomo, è diventato il punto di ritrovo per i giovani della Milano bene. In un periodo in cui gli ideali di lotta sociale abbracciati dai ragazzi si sono sgretolati e ogni appartenenza politica pare essersi sciolta come una pastiglia effervescente in quella che sarà presto chiamata “Milano da bere”, quei ragazzi definiscono le linee guida per una moda fatta di abiti firmati, musica pop inglese e linguaggio carico di giovanilismi. È una moda per il momento di riflusso, abbastanza cafona da espandersi rapidamente: dapprima tocca tutto l’hinterland, poi, grazie principalmente alla creazione di macchiette televisive, l’intero paese. Si chiamano “paninari” e sono immediatamente riconoscibili per il look. Vestono jeans, giacche a vento in piuma d’oca, scarponi da montagna, calze bianche con pattern disegnati e cinturoni. Tutto di specifiche costosissime marche, perché bisogna mostrare di venire da famiglie abbienti. Si pettinano con le mani usando cospicue quantità di gel e dichiarano spesso una confusa prossimità agli ideali fascisti. Ascoltano solo musica commerciale anglofona e amano il cinema statunitense più becero.

Vivono un’Italia del disimpegno. È dal 2 agosto 1980 che i neofascisti non mettono più bombe. La strage alla stazione di Bologna, con i suoi 85 morti e 200 feriti, nel primo sabato di agosto, ha segnato la fine degli anni di piombo. Come i fuochi d’artificio alla fine della festa. Come se quella carneficina fosse servita a chiudere con stile la stagione della paura. Dopo, il nulla. O meglio: il divertimento. Torniamo tutti a casa, basta fare casino, godiamoci un mondo più ciarliero, vivace, danzereccio e, in definitiva, da bere. Con un sacco di salsa rosa e rucola nei nostri panini, a coprire il sapore acre di un presente che vorremmo passato.
Un paese da bere
Il quinto governo Fanfani è una di quelle buffonate istituzionali all’italiana. Non ha la fiducia parlamentare e ha il solo scopo di reggere botta fino alle elezioni. Nella sostanza, la DC, mostrando la propria attitudine da balena bianca, si muove nel mare della cosa pubblica in cerca di nuove alleanze, indifferente a quello stronzetto del capitano Akhab.
Le elezioni arrivano il 26 giugno, con un’affluenza alle urne dell’88,4%. Il partito socialista di Bettino Craxi incassa l’11,4% e cresce dell’1,6% rispetto alle elezioni del 1979; la DC perde voti e scende al 32,9%, perdendo un 5,4% dei propri elettori; il PCI tiene con un 29,9%. All’ingenuo cui venisse la tentazione di fare le somme e dire che è giunto il momento di un governo di sinistra, dovremmo dire che non era successo neppure nel 1976, quando la riduzione del divario tra DC e PCI sembrava la premessa di un sorpasso, e che dovrebbe mollare la matematica per dedicarsi allo studio della finanza. L’inflazione è ancora al 16,3% e la disoccupazione al 9%, in crescita: il debito pubblico ha cominciato la sua corsa, e dal trotto è passato al galoppo sfrenato.
Il 4 agosto si insedia il primo governo Craxi, composto da DC, PSI, PSDI, PRI e PLI, Durerà pet tre anni. Il primo esecutivo con un presidente del consiglio socialista nella storia della Repubblica. Facci caso: la composizione del governo somiglia molto a quella di quelli precedenti. Certo, il mix degli ingredienti ha equilibri diversi e ci sono più ministeri in mano ai socialisti, ma, a ben vedere, non è cambiato nulla. Solo qualche nome nuovo e inatteso.
Invece cambia tutto. Craxi si propone come figura politica nuova, moderna, capace di superare la dialettica delle opposizioni che aveva contrapposto, fino a quel momento, una DC vicinissima all’Alleanza Atlantica e agli Stati Uniti a un PCI filosovietico. Col suo fare sornione, supera anche la contrapposizione giovanile in piazza, quella che, per una ventina d’anni, ha messo di fronte ragazzi che cercavano espressione in estremismi, di sinistra e di destra, non rappresentati in parlamento. Non è solo un’illusione: con Bettino Craxi cambia il modo di raccontare la politica. Lo si fa con la presenza fisica e il carisma, con la comunicazione e gli slogan pubblicitari, con l’immagine che, quasi sempre, arriva prima delle idee.
Milano è affetta da sempre da un’invidia oscena nei confronti di Roma. Se quella è la capitale del Paese, questa, di volta in volta, si propone come alternativa qualificata da un aggettivo: capitale economica, capitale culturale, capitale morale… In un paese che – esattamente come tutti gli altri, salvo sporadiche eccezioni temporanee – sul territorio dell’economia, della cultura e della morale non riesce proprio a farsi strada.
E ora, nel periodo della presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, durata otto anni e iniziata nel 1981, si ha un modello da emulare, fatto di gioia intensa e fugace, consumo rapido e rapace, soddisfazione immediata e ricerca disperata. A Milano – e poi in tutto il paese, ché quella città capitale da emulare lo è veramente – si trova una declinazione a quella forma di negazione del desiderio a vantaggio del possesso chiamata “edonismo reaganiano”. Nel 1985, il copywriter Marco Mignani trova lo slogan perfetto per sintetizzare quello che la città è diventata: per la pubblicità televisiva dell’amaro Ramazzotti, si inventa lo slogan “Milano da bere”. È interessante notare come sia sempre Mignani, la cui capacità di leggere il presente dovrebbe essere invidiata da generazioni di intellettuali, a inventare, due anni dopo, uno slogan per la campagna della Democrazia Cristiana che avrebbe fatto storia: “Forza Italia”.
Nell’Italia craxiana il benessere non è più un obiettivo: diventa un destino. E, se tutti sono destinati al benessere, la solidarietà diventa un inutile orpello. Se sei povero, sfruttato o svantaggiato è certo che hai fatto qualcosa per meritartelo. Perché tutti – è certo – volendo possono raggiungere lo stato di salute e ricchezza cui sono destinati.
E il socialismo, dopo aver subito l’affronto della deriva stalinista, in Italia diventa una maschera per la modernità liberale e liberista.
A dirci che non stiamo vivendo in un sogno incantato di felicità a portata di mano, il 9 settembre, a una decina di chilometri da Firenze, a Scandicci, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, due turisti ventiquattrenni tedeschi, vengono ammazzati a colpi di pistola a bordo del loro furgone Volkswagen T1. È il sesto duplice omicidio di quello che i giornali hanno battezzato il “Mostro di Firenze”.
Crimini e organizzazioni

La capra è un film francese del 1981 diretto da Francis Veber. Pare proprio che “chèvre”, nel titolo originale, giochi su un significato colloquiale della parola: indica una persona maldestra, la cui goffaggine attira le sventure.
Il cinema Statuto, in centro a Torino, è specializzato in film di seconda visione. La capra è uscito da alcuni mesi e, dopo aver riscosso un discreto successo, viene proiettato anche in quella sala. Il 13 febbraio è domenica e nevica. A vedere la proiezione del tardo pomeriggio di quel film che ormai hanno visto tutti ci va poca gente. Appena un centinaio di persone entrano in sala e si distribuiscono tra platea e galleria. Alle 18.15 scoppia un incendio. Niente di doloso. I locali sono a norma: sono stati controllati di recente in accordo a procedure obsolescenti e claudicanti che, dopo quell’evento, saranno riviste in maniera radicale. Un cortocircuito incendia una tenda e subito il pubblico si lancia verso le uscite di sicurezza. Peccato che, per evitare che entrassero di frodo spettatori non paganti, quelle siano state sbarrate oculatamente dai gestori del locale. Sessantaquattro morti. La validazione censoria ha classificato quella pellicola come “Per tutti”. Infatti, qualche giorno dopo, durante i funerali di stato, celebrati nel duomo cittadino, nelle bare allineate i conteggi mostrano come un destino bastardo abbia avuto un riguardo morboso per quella che, anni dopo, avremmo chiamato “gender equity”: trentuno uomini adulti, trentuno donne adulte, una bambina e un bambino.
A proposito di stragi, anche se non esplodono più bombe fasciste, la criminalità organizzata (che ai fascisti si è appoggiata così tanto da risultarne spesso indistinguibile) continua ad avere diritto alle prime pagine dei giornali.
Il 17 giugno diventerà noto come “venerdì nero della camorra”. A Napoli, vengono emessi 856 ordini di cattura contro politici, imprenditori, uomini di spettacolo e avvocati. L’accusa è di avere collegamento con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Viene arrestato anche il conduttore televisivo Enzo Tortora. Tre anni dopo, sarà assolto con formula piena, ma da quell’esperienza, debilitante e distruttiva, non verrà più fuori.
Mesi dopo, il 25 ottobre, a San Paolo, in Brasile, vengono arrestati i boss di Cosa Nostra Tommaso Buscetta e Tano Badalamenti.

E, a proposito delle grandi organizzazioni che hanno un controllo fortissimo sulle nostre vite, succedono cose interessanti anche al capo di stato del Vaticano.
Il 9 maggio, papa Giovanni Paolo II ritira la condanna della chiesa cattolica contro Galileo Galilei e la Terra può ricominciare a fare rivoluzioni attorno al sole senza rischiare la scomunica.
Il 13 luglio 1981, il terrorista turco Mehmet Ali Ağca, legato all’organizzazione di estrema destra i “Lupi grigi”, aveva esploso due colpi di pistola contro il papa. Poi era stato fermato e arrestato. La giustizia non è mai stata così veloce come quando, 8 giorni dopo, l’uomo è stato condannato all’ergastolo per il tentato omicidio di un capo di stato. Forse sull’onda della comprensione mostrata verso i peccati di Galileo, il 27 dicembre 1983, il papa ha un colloquio di ventuno minuti col terrorista e lo perdona.
Lo stato governato dal papa è al centro di una storia che sembra scritta da uno sceneggiatore svogliato: uno di quelli che seminano indizi e poi se li dimenticano. Il 22 giugno scompare Emanuela Orlandi, cittadina vaticana, quindici anni, figlia di un dipendente della Prefettura della Casa pontificia. Nessuna traccia. Solo telefonate anonime, depistaggi, piste internazionali e il sospetto che qualcuno, dentro le mura leonine, sappia ma non parli. Quaranta giorni prima, il 7 maggio, un’altra ragazza, Mirella Gregori, era scomparsa a Roma. Anche lei aveva quindici anni. Le due sparizioni sembrano collegate, ma nessuno lo ammette mai.
Da allora, in Italia, si è creato, per la cronaca, un genere nuova: le scomparse senza verità. In un’epoca che vuole dimenticare le bombe, le ideologie e pure i partigiani (che iniziano a essere un po’ divisivi, con la loro condanna irreversibile al fascismo), comincia un’altra stagione: quella dei silenzi che durano decenni, delle verità sepolte tra archivi e segreti di Stato, delle ragazze inghiottite da un nulla che assomiglia al potere.
Maledetto vile, sporco denaro
Il dollaro mostra i muscoli. Mostra anche una forza notevole rispetto alle principali valute europee e del G7. Ha fatto massa, come un bullo in palestra, grazie alle politiche monetarie restrittive adottate dalla Federal Reserve e alle politiche fiscali espansive dell’amministrazione Reagan. In questo modo, gli Stati Uniti hanno attratto capitali internazionali, incrementando la domanda di dollari e, di conseguenza, il loro valore.
Secondo la Federal Reserve Bank di Cleveland, tra ottobre 1980 e novembre 1982, il dollaro ha aumentato il proprio valore del 40% su base ponderata rispetto a dieci valute reputate chiave, annullando completamente la svalutazione nel decennio precedente.
Ci hanno insegnato che i sistemi economici non sono mai così semplici da poter essere guardati attraverso il prisma di un’unica variabile, ma fatto sta che quelli che chiamiamo paesi in via di sviluppo tracollano sotto il giogo del Fondo Monetario Internazionale: si apre la crisi del debito per Brasile, Messico e Argentina. E le banche statunitensi impongono riforme in cambio di prestiti. Non è esattamente Big Bang, ma non abbiamo ancora una parola per indicare quando i capitali iniziano a circolare più dei bipedi senzienti che faticano. In mancanza di meglio, chiameremo questo fenomeno “globalizzazione”.

Tra il 28 e il 30 maggio, a Williamsburg, in Virginia, si tiene il nono G7. Ci sono i leader di Canada, Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Italia, e vedere nella stessa foto tutti quei faccioni allineati a me fa ancora impressione: Pierre Trudeau, Helmut Kohl, François Mitterrand, Ronald Reagan, Yasuhiro Nakasone, Margaret Thatcher e Amintore Fanfani.
Il vertice deve affrontare due urgenze: da un lato, l’economia mondiale è fiaccata dall’inflazione, dagli alti tassi d’interesse e dalla disoccupazione; dall’altro, la pressione della Guerra Fredda si fa sentire sempre più. Reagan usa il vertice per rafforzare la linea dura contro l’Unione Sovietica e ottiene il consenso – non senza resistenze – sul dispiegamento dei missili Pershing II in Europa. La dichiarazione finale, breve e letta proprio da Reagan, definisce le regole per uscire dalla crisi: deregulation, privatizzazioni, disciplina fiscale. Si aprono le gabbie dei dogmi del libero mercato, affamati e ringhianti: hanno anche un nome bello da dire al telegiornale, “svolta neoliberale internazionale”.
Il 9 giugno Margaret Thatcher è rieletta con una maggioranza schiacciante. Ancora più forte e illuminata dai dettami di Williamsburg, può proseguire la sua guerra personale al welfare, ai sindacati e chiunque tenti di resistere alla privatizzazione d’ogni cosa. Anche Mitterand in Francia e Kohl in Germania Ovest si muovono in sintonia con le nuove regole: il primo abbandona le riforme socialiste in favore di una linea più moderata; il secondo punta sulla liberalizzazione dei mercati e rafforza i legami con Reagan e con la NATO.
E mentre le inflazioni galoppano, soprattutto quella italiana, e i cambi tra le valute oscillano al ritmo del rinvigorirsi del dollaro, il Sistema Monetario Europeo, nato nel 1979, adotta una moneta virtuale per definire i budget della Comunità Europea in modo uniforme e stabilizzare i mercati. Si chiama ECU – una sigla per “European Currency Unit”, “Unità di Conto Europea” – e il suo valore è la media ponderata delle valute che lo compongono. Ponderata perché ogni valuta nazionale partecipa al paniere con un parametro di riferimento, un peso, che dice l’importanza economica del paese corrispondente. Vale a dire che, all’inizio, la Francia e l’Inghilterra pesano il doppio dell’Italia, e la Germania quasi quattro volte. Bisognerà aspettare il 1993 perché i divari si appianino. E il primo gennaio 2002 perché le valute nazionali spariscano per essere sostituite dall’Euro, erede dell’ECU.
Di fame, di pelle e di mercato
Il 1983 segna l’ inizio della terribile carestia che si abbatte su un quinto della popolazione etiope per tre anni. Alla fine, pure il conteggio dei morti è confuso e la forbice della stima ha un’ampiezza oscena: da 300.000 a 1,2 milioni di vittime; 2,5 milioni di sfollati sul territorio nazionale e mezzo milione di profughi; 200.000 bambini rimasti orfani. Certo, la causa della terribile carestia è la siccità. Però puoi scegliere se prendertela con un dio (o con un grande puffo, o con la creatura di fantasia su cui preferisci scaricare le responsabilità) oppure riconoscere le colpe del governo militare guidato da Mengistu Haile Mariam e delle sue strategie militari contro il Fronte di Liberazione Nazionale e delle politiche di “trasformazione sociale” in aree non coinvolte nella guerra civile. Per combattere la fame, Bob Geldolf e Midge Ure, l’anno dopo, mettono insieme il supergruppo Band Aid e scalano le classifiche. La montagna di quattrino accumulato chiedendosi se, da quelle parti, sanno che è Natale (e con Live Aid, il concerto del 1985) atterra da qualche parte. Ancora non si sa bene dove.
In Sudafrica, il regime dell’apartheid vara una nuova costituzione e non è una buona notizia. Si tratta di una regolamentazione del razzismo che prevede un parlamento tricamerale e divide la rappresentanza politica in base alla razza. In questo modo, sembra proprio che quegli altri, i non bianchi, siano rappresentati pure loro. C’è la Camera dell’Assemblea per i bianchi, con 178 membri, la Camera dei Rappresentanti, per i “Coloured” (eufemismo che raccoglie quelle altrimenti definiti razze miste), con 85 membri, e la Camera dei Delegati per gli indiani, con 45 membri. È una farsa: la costituzione viene approvata da un referendum riservato ai bianchi e la popolazione nera non ha diritto al voto e non ha alcuna rappresentanza parlamentare. L’apartheid prosegue indisturbato, ma la parvenza di rappresentanza politica asciuga le coscienze. L’ANC è fuorilegge, Nelson Mandela è in galera da vent’anni, Peter Gabriel continua a cantare Biko, ma il mondo finge di non vedere. Non è ancora il tempo delle sanzioni.
In Cina, Deng Xiaoping, succeduto a Mao Tse-Tung, non fa proclami. Fa provvedimenti. I contadini possono vendere il surplus agricolo. Le zone speciali si popolano. I campi diventano fabbriche, le fabbriche diventano città. È il momento in cui la Cina scopre che può diventare capitalista senza mai dirlo ad alta voce. Shenzhen è un cantiere. I mingong, migranti interni illegali che dalle campagne si spostano alle città e non hanno diritti, cominciano la loro lunga marcia silenziosa. La rivoluzione cinese passa dalla zappa al tornio, dai campi alle fabbriche.
In Australia, il Partito Laburista vince le elezioni. Ci si aspetta qualcosa di sinistra, invece cosa fa? Liberalizza, deregola, privatizza. Paul Keating – che ha un sorriso da cinema espressionista tedesco – è il ministro dell’economia: parla come un banchiere che ha fatto tardi al bar con gli amici. Il partito dei lavoratori si sveste del vello da agnello e mostra il completo da lupo manageriale, mentre indica il mercato. È il primo passo del neoliberismo di sinistra, la mutazione genetica della politica. L’ideale non muore: viene venduto. Il prezzo? Un affarone!
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Come faceva osservare Lucio Dalla nella canzone L’anno che verrà, la televisione resta la fonte più attendibile per sapere a quale bugia credere.
Il 1983 è l’anno della svolta per la televisione italiana. Le reti private competono alla pari con i canali RAI, e Canale 5, la televisione berlusconiana per eccellenza, è la più importante tra le reti private.
Il 5 gennaio Edilio Rusconi vende Italia 1 a Fininvest per 35 miliardi. Silvio Berlusconi è il primo privato a possedere due reti private nazionali e può permettersi di segmentare gli ascolti: Canale 5 è una rete generalista; Italia 1 si indirizza a un pubblico più giovane.
Rete 4, di proprietà Mondadori, ha una buona programmazione ma una pessima gestione della pubblicità. Incamera debiti a velocità vertiginosa.
All’inizio dell’anno, il 2 gennaio, un altro editore si lancia nel business della televisione commerciale: Alberto Peruzzo avvia le trasmissioni di Rete A. L’idea è quella di farne un canale generalista, ma nel giro di pochissimo tempo il palinsesto si riempie di televendite e soap opera latinoamericane.

Il 6 gennaio, la quattordicesima e ultima puntata di “Fantastico 3”, condotta su RAI1 da Raffaella Carrà, Corrado, Gigi Sabani e Renato Zero, ottiene il picco di ascolti televisivi dell’anno. È una puntata come tutte le altre: si apre con Ballo ballo di Carrà e si chiude con Soldi di Zero; in mezzo ci sono le due canzoni lanciate nel corso della trasmissione, Carletto di Corrado e Viva la Rai ancora di Zero. L’ultima puntata è dedicata all’estrazione del biglietto vincente della Lotteria Italia. Ad assistere a quella liturgia ci sono ci sono 27,4 milioni di telespettatori.
In maggio, Canale 5, con uno share medio del 13%, supera RAI2 e diventa la seconda rete nazionale più vista d’Italia. La guerra degli ascolti prosegue fino alla fine dell’anno. Il 21 novembre, Canale 5 trasmette la prima puntata di Uccelli di rovo e Rete 4 le oppone la prima puntata di Venti di guerra. Le campagne pubblicitarie delle due emittenti sono state impetuose e dispendiose: Canale 5 strabatte Rete 4 nella guerra delle fiction e quest’ultima sprofonda nella crisi, schiacciata dal debito.

Ci sono alcune trasmissioni che definiscono bene il sentire del paese.
Dal primo gennaio, a tardissima sera, su RAI2, inizia un programma condotto inizialmente da Gino Paoli e Ornella Vanoni e, poi, da Paolo Mosca e Rosa Fumetto: “Il cappello sulle ventitré”. Simula le atmosfere del night club e propone numeri musicali, balletti, trucchi di prestigio e, soprattutto, spogliarelli che, per la prima volta, arrivano al nudo integrale.
Il 3 ottobre, RAI1 anticipa a mezzogiorno l’inizio delle trasmissioni. Fino a quel momento, chi avesse acceso la televisione a quell’ora avrebbe visto solo il monoscopio con il logo del canale. Da quel momento inizia “Pronto Raffaella?” condotto da Carrà. Un talk show, inframezzato da quiz telefonici, che ottiene un grande successo.
Il 4 ottobre, è la volta di “Drive-in”su Italia 1, ideato da Antonio Ricci, con Gianfranco D’Angelo, Ezio Greggio ed Enrico Beruschi. Il programma cambia le regole del gioco televisivo: riduce al minimo i tempi morti, trasformando gli intermezzi musicali in balletti di soubrette discinte e prosperose, e tiene tesissimo un flusso di sketch, parodie, monologhi comici e tette ballonzolanti. Lo spettatore resta in tensione fino all’interruzione pubblicitaria, in attesa di vedere i comici inanellare tormentoni da ripetere oscillando la testa al ritmo dei seni schiacciati nei corpetti delle ragazze danzanti.

Il 21 dicembre è la volta di “OK il prezzo è giusto!”, gioco a premi condotto da Gigi Sabani. Iva Zanicchi, che erediterà la conduzione della trasmissione nel 1987 e la proseguirà fino al 2000, definisce il programma, con una certa precisione, «il trionfo del consumismo».
Nel 1983, la televisione italiana smette di essere uno specchio e si trasforma in un dispositivo magico. Prima rifletteva; ora puoi chiederle chi sia la più bella del reame, e lei ti risponde, ma in modo inatteso. Non informa più, non educa, non intrattiene. Addestra. Al consumo, alla semplificazione e, perché no, al libero mercato. In un paese da bere.
Vendere i sogni
Il 4 giugno, in orario notturno, Canale 5 trasmette la prima puntata di “DeeJay Television”. È un progetto voluto da Claudio Cecchetto che, durante un soggiorno a New York, si è imbattuto nelle trasmissioni di MTV. Nel 1979, i Buggles avevano previsto tutto: Video Killed The Radio Star.
Nel 1983 la musica si guarda. Anche se è suono. Anche se è piena di parole cantate. E canta tutto: canta la guerra e canta la pace, l’amicizia e l’individualismo, l’evasione e la militanza, la carne e il desiderio. Non sembra voler riflettere o raccontare. Sembra voler addestrare. Ovunque. Nelle radio, nei juke-box, nelle palle stroboscopiche delle discoteche, nei televisori. È la musica a imporsi sul visivo, e non viceversa.
Il videoclip è lo strumento: non illustra la canzone, la trasfigura. Il suono non è più solo una ragnatela di vibrazioni (buone o cattive) che entra in sintonia o in risonanza con tutto quello che abbiamo dentro. Ha il desiderio di darci forma.
Il 29 novembre del 1982 è uscito l’album Thriller di Michael Jackson. Il singolo arriva l’11 novembre del 1983 e il video, gigantesco, lunghissimo (14 minuti), diretto da John Landis (che, nel 1981, aveva scritto e diretto Un lupo mannaro americano a Londra) e con la voce narrante di Vincent Price, il 2 dicembre. Nel corso dell’anno, quell’album è inarrestabile. Il singolo Billie Jean è ovunque. Jackson danza sulla luna e si incorona re. Non c’è ironia, non c’è dubbio: è il sovrano assoluto del pop globale. Ma il suo trono è fatto di plastica e lo raggiunge camminando all’indietro, scivolando sulla suola di scarpette più strette di quelle di Cenerentola. La MTV generation non è ancora nata e già ha trovato il suo profeta.
In quello stesso mondo, David Bowie si reinventa. Un’altra volta. L’album Let’s Dance, prodotto da Nile Rodgers, è un colpo secco. Funk, plastica, estetica patinata e movimento geometrico. L’eleganza aliena del Bowie berlinese cede alla luce, al colore, al passo sintetico.
In luglio esce Kill ’Em All dei Metallica. È l’inizio brutale del thrash metal. Velocità, aggressività, precisione. C’è una nuova energia in circolazione, rabbiosa e disciplinata, capace di saltare fuori dalle cantine californiane per arrivare nei giradischi delle case borghesi. È il controcanto violento del pop. Ma anch’esso è spettacolo.
A Sanremo vince Tiziana Rivale con Sarà quel che sarà, un titolo programmatico nella sua vacuità fatalista. Dopo il successo sul palco del teatro Ariston, non vende niente. Vasco Rossi, invece, arriva penultimo. È la seconda volta che partecipa al festival della canzone italiana e porta Vita spericolata.È anche l’ultima volta: durante l’esecuzione conclusiva, se ne va prima di concludere il brano e mostra che tutti stanno cantando in playback. Il vero trionfatore è Toto Cutugno, con L’Italiano: un concentrato di stereotipi orgogliosi, declamati con mano sul cuore: «Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente / E un partigiano come presidente / Con l’autoradio sempre nella mano destra / Un canarino sopra la finestra. // Buongiorno Italia con i tuoi artisti / Con troppa America sui manifesti / Con le canzoni, con amore /Con il cuore / Con più donne e sempre meno suore. // Buongiorno Italia, buongiorno Maria / Con gli occhi pieni di malinconia / Buongiorno Dio / Lo sai che ci sono anch’io.»
Nel frattempo, la musica elettronica ha conquistato tutto. I Righeira – icona torinese dell’alienazione balneare – diventano leggenda con Vamos a la playa. Il pezzo è apocalittico e danzereccio: «Vamos a la playa, todos con sombrero / El viento radiactivo, despeina los cabellos». Si balla senza sentire. È la canzone dell’estate, è la vacanza post-atomica che nessuno vuole vedere. Nello stesso registro, ma con un’altra estetica, esplodono i Culture Club: Do You Really Want to Hurt Me, Karma Chameleon. Ambiguità, trucco, pop immediato e dissonanza.
In Gran Bretagna, i New Order pubblicano Power, Corruption & Lies: è la fine del lutto per i Joy Division, è il salto nel suono artificiale come linguaggio del presente. Dall’altra parte dell’oceano, i R.E.M. debuttano con Murmur: suoni ovattati, testi indistinti, folk-rock obliquo. Sono ancora piccoli, ma stanno scavando gallerie sotto il suolo della normalità.
E intanto la musica cambia supporto. Il 2 marzo viene lanciato sul mercato europeo il Compact Disc. Suona meglio, si dice. È più comodo, più pulito. Si può saltare da un brano all’altro senza smanacciare col braccio del giradischi, con quella puntina che, tutte le volte che sbagli, graffia e grida. Non c’è più il microsolco analogico, ma tracce digitali su un supporto di plastica. È il primo passo verso la smaterializzazione. La musica comincia a separarsi dal suo corpo.
Tutto canta e tutto balla. E tutto si confonde. I Talking Heads con Speaking in Tongues portano l’arte nel ritmo. Tom Waits, con Swordfishtrombones, manda affanculo chi gli vorrebbe far fare sempre lo stesso disco e mostra come, giocando con la sporcizia e con i rifiuti, si possono ottenere canzoni limpide e perfette. I Police, con Synchronicity, sigillano la propria traiettoria e firmano uno dei brani-ossessione dell’anno: Every Breath You Take, l’inno morboso del controllo. Niente più amore: solo sorveglianza, mentre si avvicina il 1984 sotto lo sguardo attento del Grande Fratello.
Alla fine dell’anno, il dominio è completo. Cyndi Lauper esce con She’s So Unusual: colorata, infantile, punk-pop, irresistibile. I Duran Duran pubblicano Seven and the Ragged Tiger, e consolidano la supremazia estetica del bello sintetico. Gli Eurythmics fanno il pieno con il testo ipnotico e circolare di Sweet Dreams (Are Made of This), che da sola spiega tutto.
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. E i sogni sono fatti di ciò che si può vendere.
Si muore, ma prima si cambia
Moriamo tutti. Lo sappiamo, ma non sappiamo quando. Tutte le morti sono inattese, anche quelle per vecchiaia, malattia o liberazione.
Il 3 marzo muore Hergé. Ha settantacinque anni. È un fumettista gigantesco. Anzi, è proprio un’idea di fumetto. Con le sue pagine chiare, con il suo segno pulito, con i balloon regolari, il racconto lineare, la scrittura in minuscolo, l’assenza di tratteggi e tessiture, i colori piatti, la contrapposizione etica priva di sfumature. Ha fatto scuola e ci ha dato un piacere inaudito. Il suo personaggio, Tintin, con le sue ventiquattro avventure (l’ultima incompiuta), resta, ma nessuno potrà mai proseguirlo. Hergé, morendo, dice «Tintin c’est moi», e con la morte si smette di cambiare.
Il 5 novembre, muore a quarantadue anni Jean-Marc Reiser. È l’uomo più intelligente del mondo, cattivo, marcio, doloroso, comico. Il suo corpo è malato fradicio, divorato da un tumore. Il suo disegno è magnifico e selvaggio. Apparentemente semplice e inimitabile. Ci fa ridere e piangere insieme, come in quell’ultima vignetta sulla copertina del numero speciale di “Hara kiri”, dedicato alla sua scomparsa: «Reiser sta meglio, è andato al cimitero a piedi», una bara coi piedini.


In un anno racchiuso, quasi simbolicamente, tra la morte del fumettista più pulito e quella del più sporco, tutto ciò che non muore cambia.
A Northampton, Massachusetts, due tipi che, per mettere insieme il pranzo con la cena, lavorano da McDonald’s fondano Mirage Studios. Kevin Eastman e Peter Laird si stanno preparando a lanciare quattro tartarughe ninja mutanti che mangiano pizza, agitano armi da samurai e portano il nome di pittori rinascimentali.
A Chicago, First Comics entra nel mercato del fumetto con una strategia chiara: portare nel sistema l’energia dell’indipendenza. Il colpo grosso è American Flagg! di Howard Chaykin: fantapolitica, pornografia, sovversione, un ritmo sincopato, una narrazione a tratti incomprensibile e una grafica pazzesca.

A Tokyo, Buronson e Tetsuo Hara iniziano a raccontare la saga di Hokuto no Ken. Un guerriero che si muove in un mondo post-apocalittico, in cui il corpo maschile esplode per eccesso di violenza. C’è tutto: le due bombe atomiche sul suolo nazionale, la paura dell’apocalisse, Mad Max, le arti marziali, il mito. E c’è anche un sacco di testosterone. Corpi maschili, tesi e turgidi, che si fronteggiano cambiando misura e dimensione, indifferenti alla prospettiva. E, alla fine del confronto, c’è sempre un’esplosione che rilascia umori in abbondanza.
A Cleveland, Alison Bechdel inizia a pubblicare Dykes to Watch Out For. È una strip politica, lesbica, critica, inattesa, addirittura istruttiva. Sembra piccola, ma ha una forza tellurica. La vita d’ogni giorno diventa un campo di battaglia, e nulla di ciò che riguarda l’individualità, la quotidianità, il desiderio e il gusto può essere considerato così banale da non meritare un approfondimento in forma di battuta.
A Milano, sul primo numero della rivista “Corto Maltese”, si leggono Dracula di Guido Crepax e Tutto ricominciò con un’estate indiana di Hugo Pratt e Milo Manara. Una rivista nata per dare un senso unitario all’opera di Pratt che, almeno nel primo periodo, decide di declinare l’avventura in racconti, reportage, illustrazioni magnifiche, recuperi storici e novità inattese. Già nel primo numero pubblica uno dei fumetti feroci e metropolitani di Andrea Pazienza, che, nello stesso periodo, sulle pagine del mensile “Frigidaire”, sta raccontando il suo rapporto affettuoso e ribelle con il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, nella serie di pagine Le avventure di Paz e Pert.

Un anno prima, nel 1982, Raymond Briggs ha pubblicato When the Wind Blows, Quando soffia il vento. C’è una coppia di anziani, dediti alla vita quotidiana, fatta di piccoli mutamenti in attesa della morte. Sono i genitori dell’autore, tracciati a pastello e pieni di ossessioni minuscole e insopportabili. Vivono di riti reiterati, quasi per abitudine, e ascoltano alla radio la morte che arriva in forma di testata nucleare.
Per chi legge quelle pagine, anche nel 1983, quella fine sembra vicina. C’è una guerra terribile e inesausta in corso. È fredda, ma brucia. C’è la paura di un colpo sbagliato, di un bottone premuto per errore. E poi arriva il 26 settembre. E si sfiora l’apocalisse.
La sepoltura del videogioco
Non è un bel momento per il videogioco. Troppa roba, quasi sempre brutta. Il mercato è saturo, i giochi si somigliano tutti, le console si moltiplicano e i disastri commerciali (come E.T. per Atari) affondano ogni fiducia. Negli Stati Uniti, in pochi mesi, si passa da 3,2 miliardi di dollari di incasso a meno di cento milioni. Atari, che era sinonimo di futuro, viene sepolta in una discarica del New Mexico. Letteralmente: 700.000 cartucce, console, computer vengono interrati ad Alamogordo.
Questa disfatta segna la fine della seconda generazione. Il crash del videogioco sembra la fine, ma è solo una trasformazione. Mentre l’Occidente si lecca le ferite, in Giappone succede qualcosa. Il 15 luglio esce la Famicom, una scatoletta beige e rossa che Nintendo lancia nel mercato locale. Il giorno prima, sempre Nintendo ha portato nelle sale giochi Mario Bros., un arcade in cui due fratelli idraulici italiani si muovono dentro tubi e combattono mostriciattoli. È solo l’inizio. Di lì a poco, Mario diventerà Super e salverà principesse in regni abitati da funghi e dinosauri.
Il cambio di paradigma è radicale. Il gioco si fa duro: smette di essere solo meccanica e diventa racconto. Le mascotte sostituiscono gli avatar anonimi, le narrazioni prendono il posto delle partite da tre vite. Il Giappone prende il timone e i videogiochi diventano di nuovo una promessa. La Famicom sarà esportata con il nome di NES e ridisegnerà l’immaginario di una generazione.
Ma nel 1983, ancora, tutto è precario. Il mondo gioca con l’idea dell’estinzione e i bambini (quelli veri e quelli digitali) continuano a morire: Five Nights at Freddy’s, in un retroscena inventato per un gioco creato decenni dopo, ambienta proprio nel 1983 una morte per morso a opera di un robot. È un’invenzione, certo, ma fa effetto. Come se, nell’anno del disastro e del rilancio, qualcuno sapesse che il gioco, anche quando è gioco, resta una faccenda pericolosa.
Zitto e in fila con gli altri!
Un anno pieno di film enormi. Esce Il ritorno dello Jedi, che chiude la trilogia originale di Star Wars con una battaglia spaziale piena di orsacchiotti e redenzioni familiari. C’è Scarface di Brian De Palma, che trasforma il sogno americano in una montagna di cocaina. I Monty Python portano in sala Il senso della vita, e dentro – lo sai – c’è anche quello della morte: «Ehi! Ma io non ho mangiato la mousse di salmone. Sono allergico. Non posso essere stato intossicato!»; «Zitto e in fila con gli altri!»
Woody Allen si moltiplica in Zelig, e Hollywood si frantuma in mille generi: c’è il melodramma (La forza del destino), l’horror (Cujo), la nostalgia (A Christmas Story), l’avventura senza più senso (Octopussy). E l’incubo, davanti e dietro le quinte: Twilight Zone: il film è funestato da un incidente mortale che cambierà per sempre le regole sulle riprese con i bambini.

Ma se c’è un film che riassume tutto, che ci riguarda e ci interroga, è WarGames: Giochi di guerra. Esce d’estate e racconta la storia di un ragazzino che, per sbaglio, entra nei sistemi militari degli Stati Uniti e rischia di scatenare la guerra termonucleare globale. Il confine tra gioco e guerra si annulla. Un computer, programmato per vincere, capisce che l’unica mossa vincente è non giocare. La guerra, in quel film, è una simulazione. Ma i missili sono veri. È un film di ragazzi, ma parla agli adulti. Inventa l’hacker, prevede l’IA, annusa l’apocalisse.
Visto oggi, WarGames è il fratello hollywoodiano e un po’ cafone di When the Wind Blows. Da una parte Briggs disegna la morte, con tratto gentile, come un rito domestico, dall’altra un blockbuster americano ci avverte che l’apocalisse può nascere da una distrazione, da un tasto premuto per sbaglio, da un gioco preso troppo sul serio. Il 26 settembre, davvero, per poco non finisce tutto. Ma nessuno se ne accorge.
Nemmeno un grido risuonerà
La Guerra fredda è una macchina arrugginita che cigola, ma non smette di macinare terrore. Le retoriche si inaspriscono. Reagan ha trovato un bel nome per definire l’Unione Sovietica: memore del proprio passato da attore e impregnato dell’estetica di Star Wars, la chiama «L’Impero del Male». Lancia per contrapporsi a quei comunisti che assomigliano a Palpatine, a Darth Vader e a tutti quei soldatini in armatura bianca, lo “scudo spaziale”. A Ginevra si parla di disarmo, ma nel Nevada si fanno esplodere testate nucleari sottoterra, con regolarità da metronomo. L’Unione Sovietica abbatte un aereo civile sudcoreano. Per sbaglio, eh, ma i morti sono 269. L’Occidente grida allo scandalo. L’Oriente tace o mente. L’Operazione Able Archer simula un attacco atomico e da Mosca, per un momento, sembra arrivare l’ordine di rispondere davvero. A ottobre gli Stati Uniti invadono Grenada. A dicembre i sovietici si alzano dal tavolo dei negoziati.
E, in mezzo a questo bailamme, si sfiora la vera catastrofe.

Il 26 settembre, il sistema sovietico di allerta precoce segnala il lancio di cinque missili intercontinentali dagli Stati Uniti. Cinque. Troppo pochi per un attacco vero, ma troppi per stare tranquilli. Le procedure prevedono la risposta immediata. L’ufficiale di turno è il tenente colonnello Stanislav Petrov. Sa che non ha prove. Sa che non può aspettare. Ma sa anche che i satelliti possono sbagliare. Decide che è un falso allarme. Decide di non fare nulla. E ci salva la vita. Ai nostri genitori, a me, a te, al panettiere, al barista, a quelli che ti sorridono e a quelli che ti guardano in cagnesco, perfino a Donald Trump e a Matteo Salvini.
Abbiamo rischiato di non vederlo, il 1984. Non lo sapeva nessuno, in quei giorni. E forse è giusto così. Perché quel 26 settembre non è un giorno in cui l’umanità è stata migliore. È solo un giorno in cui non è stata peggiore. Il futuro, quello che ci era stato promesso, non era mai arrivato. Ma la fine, quella vera, era passata a pochi minuti da noi. E aveva dita tremanti, occhiaie e la faccia seria e stanca di un uomo che preme “annulla” invece di “lancia”.

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).