E la speranza è ormai un’abitudine

Paolo Interdonato | post-it |

Gli è che, con l’anno nuovo, si fanno un sacco di buoni propositi. È quasi obbligatorio.
Sopravvissuti alla mestizia delle feste obbligate, dei consumi coatti, dei troppi parenti e, ancora, dei consuntivi deludenti, che evidenziano le troppe cose che non siamo stati in grado di fare, ci illudiamo che il primo gennaio sia una nuova partenza. Di nuovo al via, possiamo dirci, simulando un po’ di grinta, che quest’anno riuscirema a fare quelle cinque, dieci, mille cose. Una lista di obiettivi da appiccicare su frigo, su uno di quei foglietti gialli con la banda adesiva ma non troppo.
Quanti buoni propositi ho fatto negli attimi prima dei dodici rintocchi. Poi, però, mentre pianifico il futuro, mi succede la vita. E, mentre me la vivo allegramente, mi scopro latore di sistematiche delusioni. Accartoccio il foglietto giallo e continuo a fare le cose di sempre.
Giacché ho accumulato cinquantacinque primavere, di quella vita che mi succede un giorno dopo l’altro, ne ho già attraversati almeno due terzi.
Basta buoni propositi altisonanti: quest’anno mi frego!
Hackero il sistema Interdonato: uso il mio disturbo ossessivo compulsivo per definire, almeno una volta, un proposito magari non proprio buono ma decente.
Lo dichiaro subito, così, poi, se non lo rispetto, puoi dileggiarmi quanto vuoi.
Darò ai foglietti gialli che appiccico sul frigo una funzione diaristica e continuativa. Li userò per ricordarmi le cose che ho fatto e quelle che devo, posso e, soprattutto, voglio fare. In questo modo, potrò illudermi di darti qualche consiglio. E, se ci va bene, sarà addirittura un buon consiglio.

Lunedì 1° gennaio:

Durante una pausa tra le restrizioni per la pandemia, nel 2020, in un giorno di tarda primavera, sono andato a bere una birra sui navigli con Mattia, che quando disegna si firma Felix Petruška. Eravamo seduti all’esterno di una vineria e non ci vedevamo da un po’. Dopo aver risolto il rituale impostoci dall’emergenze sanitaria e aver eseguito il balletto delle mascherine, della distanza e del gel sanificante, abbiamo iniziato a chiacchierare. Mattia è un grande conoscitore dell’immaginario visivo. Dopo pochi minuti di chiacchiere, inizia a snocciolare nomi che piombano nella mia profonda ignoranza, corroborata da un’enorme distrazione: animatori, illustratori, fumettisti, disegnatori, artisti, grafici… Gente sconosciuta ai più che sta facendo una rivoluzione in un angolo nascosto o nella più nota tra le produzioni mainstream. Pare proprio che Mattia veda tutto.
Con umiltà e disciplina, ascolto i nomi e me li appunto. Poi a casa faccio i compiti e, omettendo chi mi ha fatto conoscere quelle cose incredibili, rinunciando a ogni parvenza di umiltà e disciplina, riesco pure a fare una figura dignitosa in società.
A un certo punto, prima di salutarci, gli faccio una di quelle domande che, quando mi vengono rivolte, mi viene da bestemmiare: «Qual è il tuo fumetto preferito, quello che ti ha cambiato la vita?» Mi stupisco quando Mattia, invece di insultarmi come avrei meritato, risponde senza esitare: «La main verte di Nicole Claveloux. È un’inventrice di mondi, l’autrice dei fumetti più belli del mondo. Punto.»
Cazzo! Non la conosco. E a me piacciono i fumetti più belli del mondo. Mi metto subito alla ricerca. Inizio ad acquistare, con il mio amabile fare compulsivo, tutto quello che trovo. Inizio proprio da La main verte et autres récits che è stato pubblicato dall’editore Cornélius nel 2019. Che meraviglia: davvero un’inventrice di mondi!
Centellino quelle storie, alternandole agli albi illustrati che mostrano una gamma di registri, di tecniche e di stili impressionanti. Claveloux entra nel cerchio strettissimo delle persone che fanno i fumetti che amo di più. E mentre li enumero, mi accorgo che sono tutti maschi. Dannazione! Claveloux pubblica fumetti meravigliosi dagli anni Settanta. Dannazione!
Poi trovo Morte Saison et autre récits, pubblicato, sempre da Cornélius, nel 2020. E ho un’altra razione di fumetti per tenermi a bada. Nel 2021 esce il terzo volume di quella che, a quel punto, mi illudo essere una collana annuale dedicata da Cornélius a Nicole Claveloux: Une gamine dans la lune. Mi affascina l’alternanza di illustrazioni e di fumetti, la sapienza del colore e la ricchezza del bianco e nero, la prossimità delle storie rivolte al pubblico adulto e consenziente di “Métal Hurlant” e “Ah! Nana” e dei racconti per i bambini che leggono “Okapi”. Claveloux mostra le sue pagine a chiunque, senza cedimenti e senza rinunciare alla sua straordinaria intelligenza.
Ne voglio ancora, mi dico, ma il catalogo di Cornélius, nel 2022, non asseconda i miei bassi istinti. Mi distraggo, come sempre.
Lo scorso dicembre, a Cremona, mi ritrovo a parlare di Claveloux con amici (e chiaramente non cito Mattia, ché le mie fonti mica sono pubbliche). Parlo dei suoi libri. Dico di tutta quella bellezza. Poi, dopo averlo fatto, apro l’app del mostro del commercio elettronico che alimento e tengo in vita. Basta una ricerca veloce per trovarmi a maledire la mia stupidità. È uscito un nuovo volume Cornélius dedicato ai fumetti di questa autrice meravigliosa: Pelléas & Mélisande et autres récits. Lo ordino e, appena il corriere lo deposita nelle mie mani, lo appoggio sulla mensola dei libri da leggere.
Mi piace iniziare l’anno leggendo un fumetto bellissimo. Ne tengo sempre da parte qualcuno. Non ho fretta. Posso aspettare. Quest’anno, ci sono Monica di Daniel Clowes, il secondo volume de La bête di Zidrou e Frank e il libro di Claveloux. Scelgo, senza esitare, quest’ultimo. Centoventi pagine che grondano amore e intelligenza.
Lo so, questa ricerca di un fumetto da amare all’inizio di ogni anno è un rito stupido. Ma che bello, anche fosse per un giorno solo, illudersi che l’anno nuovo possa essere pieno di bellezza.
Leggi Nicole Claveloux, autrice dei fumetti più belli del mondo.
(Grazie, Mattia.)

Martedì 2 gennaio:

Peppe Liberti è sicuramente tra i fondatori di questa rivista che non legge nessunə. Nei primi tempi della vita di questo spazio, quando avevamo deciso di farti leggere almeno due articoli al giorno (e mica notiziole, preview e gallerie, articoli veri), Peppe ha tenuto un paio di rubriche, parlando di fumetti e di scienze, e ci ha chiarito cosa volevamo che fosse QUASI. “Il quark e il pinguino” ha contribuito a definire la forma che volevamo che questo spazio assumesse.
Ora Peppe non scrive più e mi manca, ci manca.
Però, a volte, riemerge in chat per farmi sentire una canzone o per segnalarmi un articolo. All’inizio di questo 2024, mi manda l’elenco di tutto ciò che è entrato nel public domain. Mi concentro su Topolino. Lo sai, la legge sul copyright statunitense è costruita proprio attorno a Topolino e gli avvocati Disney son davvero bellicosi (chiedilo a Dan O’Neil e agli air pirates).
In ogni caso, QUI c’è un articolo di Cory Doctorow che spiega bene cosa significa l’ingresso nel public domain di Steamboat Willie, il film d’animazione del 1928 in cui Mickey Mouse appare come protagonista.
Leggilo: è divertente. Se non ne hai voglia, accontentati di questo diagramma (preso da quell’articolo) che riassume cosa è successo.

Mercoledì 3 gennaio:

Ho una sola qualità. So scegliermi bene amiche e amici. Un concentrato di follia esplosiva che, spesso, mi illudo sia un campione significativo dell’umanità. Purtroppo non è così. Là fuori c’è un sacco di gente neurotipica, assillata da nevrosi comunissime e succube di dipendenze convenzionali. La chiamiamo umanità, ma è solo maggioranza. A te lo posso dire. Se leggi questa rivista che non legge nessunə, hai il diritto di saperlo: quella gente non ci somiglia. Avremmo dovuto capirlo vedendo i film di John Carpenter: Essi vivono.
Ho un amico che studia il suono da sempre. Ha suonato con alcuni tra i musicisti più grandi del mondo, ha inciso dischi meravigliosi, ha fatto concerti bellissimi. È ossessionato dalla qualità del suono, forse per combattere l’acufene che lo ammorba. Si è costruito in casa una sala ascolto musica incredibile: una volta ha cercato di farmi ascoltare il silenzio (spoiler: non si può).
Quando sente qualcuno lodare i dischi in vinile per il calore e la profondità del suono, questo mio amico diventa un insopportabile saputello (e tu sai quanto io ami i maestrinchi): spiega, sfoderando le sue conoscenze tecniche e scientifiche i limiti di quel suono e dice che, se solo non fossero registrati di merda, i CD avrebbero un suono molto migliore.
Pensavo a queste sue affermazioni quando l’anno scorso ho deciso di sostituire il lettore CD che mi si è rotto una decina di anni fa. Quando ne avevo uno funzionante, compravo un sacco di dischi (spesso usati) e mi piaceva un sacco la ritualità del cd infilato nel lettore e del booklet tra le dita a scoprire particolari.
Adesso, da qualche mese, ho il mio nuovo lettore: una roba da poveraccio che, se lo vedesse il mio amico, mi meriterebbe la sempiterna fama di “orecchie foderate di prosciutto”. Ho anche ricominciato a cercare CD da comprare. Non me ne ero accorto: i dischi sono progressivamente spariti dagli spazi espositivi. La rivoluzione spotify (che, da anziano figlio del capitalismo, apprezzo, eh, ma non mi dà lo stesso gusto materico del possesso), sta facendo scomparire il disco.
Insomma, per capire quali sono i dischi da scoprire, ascoltare e amare, mi sono sprofondato nelle top ten dei più bei dischi del 2023. Ho trovato della roba bellissima, ma mi sono accorto di una cosa laterale. Le copertine dei vinili a 33 giri erano un grande territorio di sperimentazione, grafica, visuale e narrativa. Con l’avvento del CD, il pubblico ha perso la grande superficie su cui raccontare il disco, ma c’erano stati alcuni vantaggi. Da un lato, avevamo decenni di copertine riadattate al formato sghembo del contenitore delle audiocassette: un’esperienza da far fruttare. Dall’altro, si poteva giocare con il booklet fino a trasformarlo in un prodotto nel prodotto. Insomma, i CD, dopo le grafiche spartane dei primi tempi, avevano conquistato un loro equilibrio indistinguibile dalla bellezza.
Guardo le copertine dei dischi che i siti e gli amici mi consigliano. E mi sembrano davvero brutte. Mi pare ci sia stato, nei dieci anni della mia distrazione, un peggioramento indecoroso in quelle grafiche. Soprattutto in quelle dei nomi più noti.
Il mio amico Alberto Casiraghi ha pubblicato sulla sua timeline Facebook i quindici album del suo 2023. Guarda le copertine. Sembra che siano progettate per essere accettabili in formato vinile (che, l’ho capito pure io, vende più del CD), CD e immaginetta per la app dello smartphone. Un po’ come se quegli oggetti, che ambivano a essere iconici, fossero diventate icone vettoriali sul serio.

Giovedì 4 gennaio:

Non ho mai letto alcun romanzo di Lee Child, però mi affascina la devozione lavorativa con cui lo scrittore inglese sforna romanzi a raffica, dedicati a un unico personaggio: Jack Reacher. La storia è più o meno questa.  Il ventitreenne James Dover Grant (vero nome di Lee Child) viene assunto nel 1977 come produttore da una televisione di Manchester. Scrive e produce migliaia di ore di televisione per diciotto anni, poi una ristrutturazione organizzativa rende la sua figura professionale ridondante. Un eufemismo per dire che viene licenziato. Se ti ritrovi disoccupato a quarant’anni, rischi di sentirti un po’ di tensione addosso. Poco male: l’uomo indossa uno pseudonimo, inventa un personaggio inverosimile e inizia a scriverne le avventure. Dal 1997, in poco più di un quarto di secolo, Lee Child sforna trentuno romanzi e una ventina di racconti di Reacher. E, siccome non gli basta, infila il suo personaggio in almeno quattro crossover con altrettanti personaggi di altre serie di successo.
Non ho mai letto alcun romanzo di Lee Child e non ho neanche mai sentito la tentazione di vedere la serie dedicata al suo personaggio, prodotta da Amazon. Fino a quando Howard Chaykin, sul suo profilo Facebook, non ne ha detto un gran bene.
Reacher: la prima stagione di otto puntate è già disponibile e la seconda in corso di rilascio.
Niente di stupefacente, ma traspare la maestria grazie alla quale l’autore costruisce intrecci solidi e avvincenti. Divertente.
Mi pare di riconoscere gli elementi che rallegrano Chaykin: l’eroe solitario ma non troppo, l’intreccio sghembo che, un po’ alla volta, svela un complotto, donne bellissime di cui innamorarsi e ottimo blues a comporre la colonna sonora.
Spulciando in rete, scopro che Chaykin e Child si vogliono bene da un po’. In un post di Child trovo un Reacher disegnato da Chaykin, accompagnato da una definizione perfetta: un capitan America senza costume.

Venerdì 5 gennaio:

Devo fare i conti con tre evidenze. La prima è che mica ho una vita così avventurosa da poterla raccontare un giorno alla volta mantenendo il livello minimo di tensione necessario: sono a sistematico rischio di noia e faccio tutto quello che posso per evitare di precipitarci. Mi rifugio in rituali, iterazioni, ripetizioni, preghiere laiche, tutta roba che, anche solo a enumerarla, partono sbadigli leonini. Mica ho una cosa bella, buona o utile da raccontarti ogni giorno. La seconda è che non sono così onesto: le cose veramente belle e buone che mi succedono si muovono nella sfera dell’intimità più inutile. Si tratta di emozioni intense, quelle che fanno piangere, ridere, godere, urlare. A volte quelle cose si infilano in quel luogo buio, caldo, umido, ospitale e avvolgente che chiamo amore. Ecco, del mio amore non sono disposto a parlare in modo diretto. La terza è che io scrivo queste amenità un giorno alla volta, con posologia quasi farmaceutica, tu te le ritrovi inoculate tutte insieme di domenica. Immagino che a questo punto tu stia leggendo in fase REM.
Allora conviene che, di tanto in tanto, alleggerisca.

Sabato 6 gennaio:

Walt Disney era il mago di Burbank e la sua azienda, Walt Disney Studios, è la fabbrica dei sogni. L’industriale dell’immaginario e la sua impresa, negli anni passati, ci hanno insegnato che «I sogni son desideri». Non mi pare strano, allora, che Wish, il film più recente prodotto da Walt Disney Production, esplicitamente ispirato a un secolo di produzioni, diventi un manifesto ideologico di ribellione. Segue spoiler annacquato: se ti fa paura, passa a domenica.
Un mago con i baffi, mosso dalle migliori intenzioni, costruisce un regno di sogno per il proprio popolo. La gente lo adora: il clima è mite, ci si diverte, benessere per tutti e nel petto un barlume di speranza. Nel regno del mago, però, si paga una tassa altissima. Si deve consegnare al mago il proprio desiderio: lui ne avrà cura, lo custodirà con tutti gli altri e, in alcune specifiche occasioni, potrà esaudirne uno e uno soltanto, dando soddisfazione a un corpo desiderante. Tutti gli altri corpi continuano a vivere, tollerando la frustrazione nella speranza del realizzarsi della magia.
Quando il mago prende un desiderio, chi desiderava lo perde, non ne ha più memoria, addosso solo un senso di tristezza e di vuoto, reso tollerabile dal clima mite, dal benessere diffuso, dalla speranza che, un giorno, forse, quel sogno sarà soddisfatto.
Il mago non è così buono. È un dittatore che, benché mosso dalle migliori intenzioni, alimenta il proprio potere con gli altrui sogni e decide quale sogno è abbastanza innocuo da essere esaudito. Tutti i desideri di rivoluzione, piccola o grande, sono pericolosi.

Domenica 7 gennaio:

Je suis Charlie. Anche oggi. Nove anni dopo il massacro.
Nelle edicole francesi – che sono davvero poche – si può comprare il numero 1641 di “Charlie hebdo”. Lo si trova in tutte, e non si può dire la stessa cosa, chessò, del settimanale di “Spirou”. Questo numero del giornale è uscito il 3 gennaio de è in edicola il giorno dell’oscena ricorrenza.
Ricordi? Dopo la strage, “Charlie”, con un gesto politico fortissimo, si è presentato nei chioschi con una copertina disegnata da Luz che diceva: “Tutto è perdonato”.
Oggi, nove anni dopo, quel perdono non è stato rinnegato. E neanche la storia del settimanale.
In prima pagina, Riss disegna un neonato con ciuccio e pannolino, uno di quelli tipicamente usati per rappresentare l’anno nuovo, che si allontana sollevando un enorme coltello da cucina che gronda sangue, lasciandosi dietro un corpo in una pozza di sangue. Lo strillo: “Terrorismo: Largo ai giovani!”
La rivista è racchiusa in una busta di cellophane trasparente perché non si perdano gli adesivi pericolosi allegati: «Io bestemmio… e vaffanculo!» c’è scritto attorno a un dio che ti mostra il medio; «Amo gli ebrei… e vaffanculo!» mentre un rabbino sodomizza un altro personaggio sollevando le braccia e augurandoti buona fortuna («Mazel tov»); «Il giornale del vivere insieme» a corredo di due skin disagiati che si abbracciano; «né dio né stato» dice un marziano su suolo alieno sollevando un tentacolo a mo’ di pugno chiuso.

Lunedì 8 gennaio:

L’anno nuovo inizia dopo l’epifania. Si smontano alberi e presepi e si riprende il ritmo della normalità quotidiana. «Non ce la farò mai», ci diciamo, ma non è vero. Sopravviviamo a quasi tutto e non è vero che si muore di noia.
Alla partenza dell’anno, ricominciamo a infilarci nei nostri riti. Io, per esempio, entro in edicola e compro giornali e riviste che sfoglierò distrattamente. Oggi ho trovato il primo volume della nuova collana che “Gazzetta dello Sport” e “Corriere della Sera” dedicano a Milo Manara. È un’edizione da edicola de Il nome della rosa, prima parte dell’adattamento del romanzo di Umberto Eco. È di grande formato e ho visto quelle pagine, che non mi erano piaciute come quasi nulla degli ultimi quarant’anni di produzione manariana, riprodotte in piccolo su “Linus”. Spesa contenuta, pagine grandi: ci casco.
Sfoglio il volume e capisco due cose che, vedendo quel fumetto a puntate, non avevo colto.
Si tratta di un omaggio a due pubblici: quello che ha sempre comprato i romanzi di Eco per tenerli sulla mensola, spesso intonsi e mai sfogliati, come simbolo di una cultura vasta e contemporanea; quello composto da amanti delle donnine di Manara.
Infatti il volume, che non contiene le pagine meglio riuscite di Manara, è verbosissimo, con balloon giganteschi e fitti di parole, per gratificare gli amanti di una cultura logocentrica, e si conclude con uno spogliarello, come nella migliore tradizione dello scollacciato e del pecoreccio all’italiana.
Per inciso, le ultime tre pagine, quelle in cui compare finalmente Miele, mi sembrano le migliori del libro.

#QUASIchesuccede: Riapertura di QUASI nel 2024 con il tradizionale riassunto delle puntate precedenti. Il tema di gennaio è “Potrebbe piovere”. Io e Boris ci prendiamo i nostri tempi e diluiamo l’editoriale d’inizio mese nel corso di tutta la settimana: “Potrebbe piovere in gennaio e febbraio”.

Martedì 9 gennaio:

Il panettone è quel dolce natalizio che rallegra le colazioni degli italiani fino a febbraio inoltrato. Mentre intingo la mia fetta quotidiana nel caffelatte mattutino, cercando di ridurre al minimo lo sbrodolìo sulla barba (sei felice dell’immagine raccapricciante di cui ti ho appena fatto dono?), sfoglio Le donnine del giorno, un artbook autoprodotto l’anno scorso da Simon Panella, King Simon.
Simon è un meraviglioso cazzeggiatore con alcune caratteristiche importanti: indossa chiodo e occhiali da sole in qualsiasi momento dell’anno, disegna bene, è un compagno di bevute divertentissimo (e la presenza di Simon trasforma qualsiasi momento della giornata in una bevuta) ed è uno straordinario inopportuno. Anzi, questo è proprio un superpotere: Simon è la persona più capace del mondo di metterti in situazioni imbarazzanti. Un attrattore strano di disagio e impaccio. La cosa incredibile è che, benché tutto attorno si formino dinamiche difficili da descrivere che miscelano risate incontenibili, guance paonazze, qualcuno che si arrabbia e gente che si giustifica per accuse mai mosse, in presenza di Simon non hai mai la sensazione che possano verificarsi eventi violenti. Può scappare un «Vaffanculo!», certo, ma non ti aspetteresti mai di sentire una minaccia o di vedere partire una spinta o un ceffone.
Le donnine del giorno – lo dice anche il titolo – è una raccolta di rappresentazioni dell’ossessione prevalente di Simon. Il corpo femminile è il centro di qualsiasi chiacchierata con Simon, in qualsiasi momento. E mica sono chiacchierate fatte esclusivamente tra #tuttimaschi.
Lo guardo, divertito, riconoscendo citazioni e omaggi, rilevando i riferimenti autoriali e stilistici e facendo tutte quelle cose noiose che facciamo noi critici, personaggi austeri, militanti severi. Poi, però, succede una cosa.
Mi accorgo che alcune delle donnine che riconosco non sono personaggi dell’immaginario o attrici. Sono persona reali che ho conosciuto anche io, con cui ho scambiato chiacchiere. Certo, sono trasformate in pin-up e addolcite dalla modulazione della pennellata che evidenzia la curva della schiena, del mento, del culo o del ventre, ma – accidenti! – le conosco. Ci ho chiacchierato, magari bevuto uno spritz durante l’interminabile serata di un dopofestival.
Mi soffermo allora sulle poche note con cui Simon apre il suo volume. Dice: «È vero che sono giovani avvenenti donnine varie ed eventuali MA fondamentalmente quello disegnato sono sempre io». Esattamente la stessa cosa che diceva di sé Schulz quando gli chiedevano quale dei bambini delle sue Peanuts lo rappresentasse, in quale si proiettasse. Sono tutti loro, diceva.
E poi c’è una frase che mi rallegra ancora di più: «Le odio perché, in tutti questi anni, non sono ancora riuscito a sfuggire alla standardizzazione della bellezza femminile, scoprendomi incapace di raffigurare quei piccoli adorabili difetti che mi emozionano quando vedo una donna che mi affascina».
La standardizzazione della bellezza è ciò che mi respinge di Manara. Quei corpi, tutti uguali, tutti Miele, che cambiano sempre un po’ nel tempo per adeguarsi all’ultimo ritrovato di un’industria della bellezza fatta di rapporti, misure, superfici, spessori, volumi e dimensioni canonizzati fino a diventare l’unità di misura della fotogenia, della sensualità e dell’erotismo.
Simon non riesce a liberarsi (o, almeno, ancora non c’è riuscito) dalla standardizzazione patinata del corpo. Però sa che sta sbagliando qualcosa, che sta solo approssimando il suo obiettivo. Forse gli basterebbe smettere di pensare che le non conformità allo standard della bellezza canonizzata dai manuali patinati siano difetti, per quanto piccoli e adorabili.

#QUASIchesuccede: Prosegue l’estenuante editoriale con il riassunto del 2023. Con Boris ti dico che “Potrebbe piovere in marzo e aprile”.

Mercoledì 10 gennaio:

Qualche giorno fa è uscita su “The Comics Journal” un’intervista a Jean-Christophe Menu, un autore francese che amo alla follia da quasi tre decenni. Da quando L’Association, casa editrice che ha cofondato, ha pubblicato Livret de phamille, mostrandoci il grado di consapevolezza autoriale del tipo che dirigeva l’impresa.
Per ragioni che non so spiegare bene, mi considero affine a Menu come lettore di fumetti: mi piace la pagina, sono innamorato dei formati e delle avanguardie, adoro la storia del mezzo, mi perdo nella bellezza distillata dalle pubblicazioni destinate al più vasto pubblico, ma realizzate con finezza e intelligenza.
Non mi risulta alcuna traduzione dei suoi lavori in italiano. Se solo avessi più coraggio e una padronanza maggiore di qualsiasi lingua diversa dall’italiano, gli chiederei di concedere un’intervista a QUASI. Se avessi una casa editrice, pubblicherei i suoi fumetti e i suoi saggi (a partire da Plates-bandes).
Ti confesso che li pubblicherei anche per leggerne una traduzione decente e capirli meglio. Però, leggendo l’intervista, scopro che condivido con Menu anche la convinzione che non è poi fondamentale capire una lingua per leggere i fumetti. Senti qua:
«Sono stato attratto dai fumetti fin da piccolo. Ricordo vividamente di averli letti, anche se in quel momento non capivo appieno le parole francesi. Mi succedeva di cogliere solo parte del testo e, quando avevo bisogno di aiuto per capire meglio un fumetto, chiedevo a mia madre. La successione delle vignette è una lingua, una grammatica. Quando guardi le pagine, comprendi immediatamente gran parte di ciò che sta accadendo. Ecco perché, quando prendi un fumetto in libreria, hai già un’idea di cosa aspettarti. Ancora oggi, quando leggo fumetti stranieri, provo questa semi-lettura. Non ho l’effettivo bisogno di capire il catalano o il finlandese per sapere se rientra nel mainstream o nell’underground, se lo stile è convenzionale o se dietro c’è una nuova voce distintiva. Ci sono stati casi in cui, come editore, ho deciso di tradurre in francese il lavoro di alcuni fumettisti prima di comprendere appieno il testo e le sue sfumature. Per questo affermo con sicurezza che il fumetto è la mia prima lingua; Il francese è al secondo posto, ma avrebbe potuto essere qualsiasi altra lingua. Appartengo alla nazione dei fumetti!»

#QUASIchesuccede: al terzo giorno di riassunto dell’anno passato è lecito sbuffare: “Potrebbe piovere in maggio e giugno”.

Giovedì 11 gennaio:

L’idea di Menu è affascinante e paradossale. Se davvero il fumetto può essere la nostra lingua madre, sono allora comprensibili tutte le disfide intorno agli accenti e alle inflessioni. Ho origini siciliane e calabresi, sono nato in Brianza, da mezzo secolo risiedo nella provincia nord milanese e da trentacinque anni faccio il consulente e lavoro in città più o meno grandi italiane ed europee. Conosco benissimo i disagi indotti dalle mie vocali larghissime e dai miei vezzi lessicali; ho imparato a convivere con le increspature sulla pelle che alcuni accenti e l’uso di regionalismi mi producono. Siccome il mio inglese è ridicolo e ho lavorato per una quindicina d’anni all’estero, so cosa vuol dire parlare male una lingua, so bene come si sente l’albatros di Baudelaire.
Allora immagino che tutti i fumetti brutti che mi circondano – e sono la stragrande maggioranza – siano i farfugliamenti di persone che non dominano la lingua. Hanno un lessico povero, sintassi raffazzonata, paratassi fatiscente. Si lasciano guidare dal desiderio di dire qualcosa, ma i limiti indotti loro dal mancato dominio della lingua li imprigionano in un’apparente stupidità.
Altrove sarebbero principi delle nuvole, sfiderebbero la tempesta e riderebbero degli arcieri, ma, esiliati nel fumetto, devono muoversi tra gli scherni: le ali da gigante impediscono loro di camminare.

#QUASIchesuccede: Già. Quattro giorni di editoriale e di riassunto degli eventi dell’anno passato. A stento si reprime la voglia di gridare, ma si capisce che finirà: “Potrebbe piovere in luglio e agosto”.

Venerdì 12 gennaio:

Alterno cantautori tristi e noiosi a suoni in levare. Ancora steso a letto al buio, aspetto il suono della sveglia ascoltando la mia playlist giamaicana. Niente di incredibile: Marley, Lee Scratch Perry, Buju Banton, Dennis Brown, Bim Sherman, Capleton, … I soliti ascolti.
A un certo punto, dopo un odioso stacco pubblicitario di cui potrei facilmente liberarmi se versassi un obolo, entra una canzone che non ho mai sentito. Resisto alla tentazione dello skip, fino a quando non entra la voce di Buju e lì mi sento a casa.
Afferro lo smartphone e leggo i dati del brano: Jeymes SamuelHallelujah Heaven (feat. Lil Wayne, Buju Banton, Shabba Ranks). Ascoltalo anche tu.

Le note del brano dicono che è estratto dalla colonna sonora di un film, The Book of Clarence, diretto proprio da Jeymes Samuel, noto anche come The Bullitts.
Mi dico che Spotify mi ha proposto il brano perché il film esce nelle sale statunitensi proprio oggi. Cerco il trailer ed è divertente.

Poi suona la sveglia.

#QUASIche succede: In giro si dice che si stava meglio quando si stava paggio e che era preferibile la parsimoniosa pubblicazione di tre articoli la settimana. Però è già il quinto giorno di riassunto dell’anno passato e, a due mesi al giorno, presto sarà finito: “Potrebbe piovere in settembre e ottobre”.

Sabato 13 gennaio:

Ho un po’ esagerato: troppa roba per un solo articolo. Devo proprio concludere. Però, mi pare inaccettabile lasciare un’intera giornata senza una cosa bella.
La nuova versione francese di “Métal Hurlant” mi sembra così così. L’idea è semplice. Quattro numeri l’anno: due dedicati a inediti e due a recuperi dalla lunga storia della rivista; ogni tre mesi vengono alternati fascicoli colmi di novità e altri di riedizioni.
Il prossimo contiene fumetti inediti dedicati ai gattini carini e ha questa bella copertina di Kikuo Johnson.

#QUASIchesuccede:  Qui si esagera. La fine del riassunto del 2023, “Potrebbe piovere in novembre e dicembre”, e la riconquista della normalità con il ritorno di #viewmaster di Alessandra Falca.

Cronaca dei giorni a venire

Speravi fosse finito, eh? Invece, illudendomi di fare una cosa che possa farti piacere, predispongo un calendario della settimana prossima nel quale riassumere le cose da fare. Non sono capace di programmarmi il futuro, improvviso nel presente con sufficiente abilità e questo – vedrai – è il motivo per cui queste mie note sono così scarne. Se ti va di darmi una mano, scrivimi e indicami gli eventi, le uscite, le cose belle, buone e utili che nessunə dovrebbe ignorare.

Domenica 14 gennaio:

Ancora non hai visto la mostra di Lorenzo Mattotti a Brescia? Cosa aspetti? Continua fino al 28 gennaio. Lella Parmigiani te ne ha parlato qui.

#QUASIriletture: Il 14 gennaio del 2021 Tiziana Metitieri, nei suoi spaziami, ci raccontava: “La leggenda di Pat Martino”:

«Uno spazio vuoto nella regione temporale sinistra. Pat Martino guarda l’immagine della sua risonanza magnetica post-operatoria con la consapevolezza che con quel tessuto cerebrale asportato se ne sono andati molti suoi ricordi. In 26 anni è riuscito a ricostruirne diversi, tornando sui luoghi della sua storia personale e incontrando amici e musicisti. È riuscito a recuperare anche la sua musica ma il modo in cui questo è stato raccontato ha preso forma di leggenda, a partire dagli aneddoti citati nel documentario Martino Unstrung (Martino scordato, nella traduzione italiana ancora più evocativa) del 2008.
[continua]»

Lunedì 15 gennaio:

Captain Beefheart nasceva 83 anni fa. Ci manca da quattordici anni.

#QUASIriletture: Il 15 gennaio del 2021 Arabella Urania Strange ci diceva il senso del lockdown: “Tutti dentro, tutti fuori”:

«A marzo, di colpo, è esploso il lockdown. Un po’ come l’Inquisizione Spagnola, nessuno se l’aspettava. Una sparizione collettiva che ci toccava fare perché la natura e i virus sono più forti di noi. Una condizione irreale, sospesa in un non-tempo, in cui la città si è svuotata per mesi, le case custodivano persone in preda ai sentimenti più diversi e confusi e le saracinesche erano abbassate e i portoni degli uffici erano chiusi e una primavera così non la vedevamo da anni. Io ho tenuto un diario. Le persone tranquille davano fuori di matto, mentre io e gli altri matti di mia conoscenza, ci rilassavamo. Non eravamo più quelli chiusi in casa mentre fuori scorreva una vita piena e operosa: eravamo quelli che in anni di disagio avevano costruito strategie per convivere con la solitudine, sopportarla e farsi proteggere dalla sua presenza di gommapiuma color nebbia.
[continua]»

Martedì 16 gennaio:

Oggi lo sceneggiatore Jean Van Hamme compie85 anni. A me le serie XIII (disegnata da William Vance), I maestri dell’orzo (con Francis Vallès) e Thorgal (con Grzegorz Rosiński), per un bel po’, sono molto piaciute. Epoxy (con Paul Cuvelier) e Il grande potere del Chninkel (con Rosiński) sono fumetti importanti.

# QUASIriletture: Il 16 gennaio del 2022 Carlotta Vacchelli, Charlie Don’t Surf,ci raccontava “Total Overfuck Di Miguel Ángel Martín: nu piezz’e gore”:

«Total overfuck di Miguel Ángel Martín è una lettura indigesta, sovraccarica e perversa. Così indigesta, sovraccarica e perversa da risultare di una scorrevolezza sorprendente, considerata la materia decisamente greve: la violenza sessuale e l’omicidio – soprattutto femminicidio e infanticidio (ma qui può pure capitare che anche donne e bambini stuprino e ammazzino) – come pressoché unici strumenti di relazione sociale e individuale.
[continua]»

Mercoledì 17 gennaio:

Stasera, alle 18:00, se sei a Milano, puoi fare un giro nella libreria “In cerca di guai”, in via Jacopo Palma, 3. Alle 18:00 Boris Battaglia chiacchiera con Francesco Pelosi e Chiara Raimondi del loro fumetto, La luce e lo spirito: Un’intervista a Franco Battiato.

# QUASIriletture: Il 17 gennaio del 2021 Omar Martini iniziava il suo lungo racconto della vita di Dave Sim e della corsa del suo oritteropo:

«Cerebus di Dave Sim è un’opera complessa e allo stesso tempo frustrante, con vette altissime ma anche punti diciamo… discutibili. È prigioniera della personalità del suo autore che, con i suoi atteggiamenti e i suoi litigi, l’ha portata dall’essere l’alfiere del fumetto indipendente e autoprodotto negli anni Ottanta, capace di ispirare più di un autore, a diventare una gemma perduta e semisconosciuta del comics statunitense. È vero che i sedici volumi che raccolgono (quasi tutti) i 300 albi realizzati in quasi trent’anni sono sempre disponibili per chiunque voglia acquistarli (sia in versione fisica che digitale), ma è un opus completamente ignorato dalla critica e dal pubblico, sia giovane che meno giovane.
[continua]»

Giovedì 18 gennaio:

La scorsa estate, mentre passeggiavo per Marsiglia, sui muri c’era spesso una locandina irresistibile. Mica sono andato a vederlo quel film, ma la locandina era proprio divertente. La prima volta che la vedevi ti avvicinavi per capire se era stata davvero corretta con il pennarello. Quel film esce oggi nelle sale italiane: si chiama Yannick: La rivincita dello spettatore ed è diretto da Quentin Dupieux. Il trailer ci mostra una storiella metanarrativa apparentemente divertente, doppiata come si doppiano i film francesi (con tutta quella insopportabile sovrarecitazione). Però la locandina è proprio divertente. Guarda anche tu.

Oggi Raymond Briggs avrebbe compiuto novant’anni. Lo considero uno degli autori più grandi che il fumetto abbia mai avuto. QUI ho cercato di ricordarlo quando è morto, QUI ne ha parlato Arabella.

# QUASIriletture: Il 18 gennaio del 2022 l’unicorno Monia Marchettini ci raccontava ci metteva in guardia: “Extraterrestri: rapiscono le nostre mucche; colonizzano i nostri fumetti”:

«Da circa cinque anni seguo il lavoro del CISU (Centro Italiano di Studi Ufologici). L’associazione promuove un’ “ufologia critica”, dove l’UFO è appunto un oggetto volante non identificato, e non un sinonimo di astronave aliena. Lontanissimo da atteggiamenti antiscientifici, molti dei loro componenti sono decisamente scettici su questa ipotesi, e il fenomeno è studiato in tutte le sue dimensioni, compreso il suo impatto, enorme sulla cultura Fumetti inclusi.
[continua]»

Venerdì 19 gennaio:

Se sei felice perché esce il disco nuovo dei Green Day forse sei un po’ boomer. S’intitola Saviors e mi è bastata l’anticipazione per dirmi stufo.

Però oggi esce anche The Last of Us Parte 2 in edizione Remastered per PS5.

# QUASIriletture: Il 19 gennaio del 2021 Francesco Pelosi fuori tempo ci raccontava “La perfezione sensuale di un istante”:

«Si apre il 2021, e come ogni anno non riesco a distrarmi dal fatto che questo numero non rappresenta la mia storia ma quella di chi gran parte di essa ha indirizzato. La sfortunata coincidenza ch’io sia nato all’interno di una famiglia di stampo cristiano, e che per questo sia stato battezzato con rito cattolico, non significa necessariamente che mi debba riconoscere con questo modo di scandire il tempo lineare.
[continua]»

Sabato 20 gennaio:

Il 20 gennaio 1945, un trevo passeggeri che trasportava i pendolari da Varese a Milano viene colpito da una raffica sparata da un aereo della RAF, durante un’incursione. Uno dei passeggeri uccisi è il trentasettenne Federico Pedrocchi. Stava inventando il mestiere di sceneggiatore di fumetti in Italia.
Ha collaborato con Cesare Zavattini alla sceneggiatura di Saturno contro la Terra, ha scritto Kit Carson e scritto e disegnato le prime storie lunghe al mondo del Paperino disneyano. È lo sceneggiatore di Saturnino Farandola, Virus, La compagnia dei sette, Il dottor Faust, Tuffolino…

# QUASIriletture: Il 20 gennaio del 2022 il bassista Lorenzo Ceccherini ci raccontava il “Metaperso”:

«Se c’è un effetto positivo, tra i vari, della vita in stile La Possibilità di un’Isola che ho condotto negli ultimi due anni, è che tendo a riflettere sul significato delle parole ben più che in passato. Soprattutto su quelle parole che arrivavano consegnate da vettori piuttosto influenti come la sicumera di chi parla, la potenza dei luoghi comuni, l’obbligatorietà dell’evitamento dell’incomprensione. Perché parlare di anno difficile è una assunzione sicuramente realistica in termini storici e sociali ma per niente scontata da un punto di vista personale. Intendiamoci, il ’21 è stato un anno difficile, molto, ma non è triviale chiedermi perché, invece di dare per assodato di saperlo o, peggio, di ritenerlo autoevidente.
[continua]»

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